Dopo l’Arlecchino il regista Antonio Latella torna a Carlo Goldoni e rivista La locandiera con Sonia Bergamasco che interpreta una Mirandolina lontana da vecchi stereotipi e cliché; la compagnia VicoQuartoMazzini porta in scena La ferocia dal romanzo di Nicola Lagioia di cui Michele Altamura e Gabriele Paolocà firmano la regia.
Se nella sua precedente commedia, La casa dell’antiquario, Goldoni aveva mostrato una certa sfiducia nei confronti del genere femminile (la contessa Isabella, suocera, e Doralice, sua nuora, sono due personaggi dal carattere impossibile e in perenne lotta tra loro), due anni dopo, nel 1752, con La locandiera attraverso la figura di Mirandolina mostra una donna ben diversa, quasi protofemminista, single e indipendente, imprenditrice assennata, energica ma dai modi assai cortesi e suadenti.
A differenza del suo approccio con un altro testo goldoniano diventato di culto dopo la messa in scena di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro, per il quale il regista Antonio Latella in Il servitore di due padroni aveva optato per una riscrittura integrale (affidata a Ken Ponzio) dagli esiti controversi, nel tornare dopo dieci anni a Goldoni con La locandiera ha deciso di rimanere fedele al testo e soprattutto alla lingua del grande commediografo.
“Credo che con questa commedia Goldoni abbia fatto un gesto artistico potente ed estremo”, riflette Latella, “un gesto di sconvolgente contemporaneità: innanzitutto siamo davanti al primo testo italiano con protagonista una figura femminile, ma lui va oltre, scardina ogni tipo di meccanismo: eleva una donna, formalmente al servizio dei suoi clienti, ma capace di sconfiggere tutto l’universo maschile, soprattutto una donna che con la sua abilità annienta l’intera l’aristocrazia. Di fatto Mirandolina riesce in un sol colpo a sbarazzarsi di un cavaliere, un conte e un marchese: scegliendo alla fine un cameriere come marito, fa una scelta politica, mette a capo la servitù, nobilita i commercianti e gli artisti, facendo diventare la locanda il luogo da dove tutta la storia teatrale del nostro Paese si riscriverà, una Storia che in qualche modo ci riguarda tutti”.
Sembra superfluo ripercorrere per intero la trama della commedia: basterà ricordare che Mirandolina alla morte del padre riceve in eredità l’albergo a Firenze con la promessa di sposare il cameriere Fabrizio. Lei prende le redini dell’impresa e la fa prosperare ma tergiversa sul matrimonio. Giovane, fascinosa e seduttiva ha facile gioco nel far innamorare i suoi avventori: i più recenti sono il marchese di Forlimpopoli e il conte di Albafiorita. Un altro invece, il cavaliere di Ripafratta, a differenza degli altri due giovane e aitante, sembra insensibile alle sue grazie, professando e manifestando palese odio per le donne. A Mirandolina questo sembra inaccettabile e, a nome di tutto il genere femminile, raccoglie il guanto di sfida e si propone di farlo cadere ai suoi piedi. Impresa all’apparenza non facile ma che, dopo qualche iniziale asperità, sarà coronata infine dal successo, con grande disappunto degli altri due pretendenti. Una volta vinte tutte le resistenze dell’ormai infatuato cavaliere, Mirandolina gli preferisce il servitore Fabrizio, geloso, irruente e sotto sotto alquanto maschilista ma sempre fedele alla padrona. A movimentare la vicenda, alla locanda sopraggiungono due comiche, Dejanira e Ortensia, che si fingono gran dame ma vengono presto smascherate dalla locandiera stessa e dal conte, a cui non resterà che lasciare l’alloggio insieme allo spiantato marchese, offrendogli ospitalità in nome di una solidarietà tra maschi feriti nella vanità.
“Probabilmente Mirandolina non ha mai amato”, sottolinea Latella, “odia gli uomini esattamente come il cavaliere odia le donne: non massacra solo lui ma anche gli altri ospiti fino a dire loro che non dovranno più tornare alla sua locanda. In questo c’è molto di rivoluzionario: Goldoni eleva una donna che rinnega l’eredità del padre per trovare un’altra identità. Proprio come lui ha rinnegato l’eredità della tradizione teatrale per trovare nuove forme. E infatti il tema dell’eredità è centrale in questo testo. Spesso noi registi abbiamo sminuito il lavoro culturale di Goldoni, scadendo nell’ovvio. Lo sforzo è stato quello di scoprirne la potenza diversa: questo è il testo che ha riformato il teatro italiano, è l’inizio del nostro teatro borghese, è il nostro Cechov”.
All’alzarsi del sipario ci troviamo al cospetto di un enorme parete lignea che farà da astratto setting per le camere dell’albergo, una moderna cucina attrezzata di coltelli, pentole e fornelli dove si cuociono vivande dal vivo e, quasi in proscenio, una pedana da cui gli attori entrano ed escono di scena. Si palesano gli avventori: il conte, sempre pronto a ostentare la sua ricchezza, indossa tuta e cappellino da rapper e fa sfoggio di una parure di diamanti della quale farà dono a Mirandolina; il marchese, impoverito e scroccone, in maglione da montagna, che non può che offrire all’amata la sua “protezione” e infine il cavaliere, sexy nel pigiama di seta, cappotto di cammello e infradito, subito disposto a compiangere gli altri due ospiti per le loro smanie amorose. Ed ecco finalmente Mirandolina che indossa una lunga camicia bianca che lascia scoperte le lunghe gambe e porta ai piedi stivaletti neri che ispirano maliziose fantasie sadomaso. Così abbigliata comincia a tessere la tela in cui imprigionare il riottoso cavaliere a base di “finezze” quali biancheria di Fiandra, intingoli succulenti, sorrisi e gentilezza.
Molte sono le trovate felici della regia, come si è detto fedele all’italiano-toscano di Goldoni e al testo pressoché integrale: in primis lo sfrondare il personaggio principale da quell’aura di maliziosa civetteria e altezzosità che l’aveva circondato, rendendolo più vicino a Maddalena Marliani, attrice della compagnia di Goldoni sulla quale il commediografo pare abbia modellato la sua Mirandolina. Poi ricordiamo il duello tra conte e marchese dove i cucchiai sostituiscono le spade, il gioco degli shanghai al posto delle carte, il cavaliere all’armonica che accompagna il suo servitore alla chitarra, la struggente melodia di She Was cantata da Camille e alla fine la suggestiva immagine di Mirandolina che, seduta di spalle in proscenio, sembra prender lei il posto del regista e gestire oltre alla sua vita anche quella di tutti gli altri personaggi.
Banco di prova per alcune nostre grandi attrici (a partire dall’indimenticata Valeria Moriconi diretta da Franco Enriquez nel 1965), questa volta è Sonia Bergamasco a vestire i panni della protagonista e continuare il sodalizio artistico con Latella, iniziato con Chi ha paura di Virginia Wolf dove era Martha: un’eccellente performance che spazza via i troppi vetusti cliché e gioca invece su intelligenza, ragione, pragmatismo, ben riassunti nella battuta “Mi piace l’arrosto, del fumo non so che farmene”. All’astuzia sostituisce il sottaciuto desiderio di potere: sceglierà un matrimonio senza amore ma preserverà la sua identità e indipendenza. La sua interpretazione ci ha fatto ricordare per alcuni tratti simili, ad esempio il rigore e l’austerità, la Mirandolina di Carla Gravina con la regia di Giancarlo Cobelli che nel 1986 lasciò assai sorpresi gli spettatori al teatro Goldoni di Venezia. Accanto a Bergamasco abbiamo visto un bravissimo Ludovico Fededegni: al suo cavaliere presta la giusta dose di fisicità, ruvidezza e scontrosità per poi tramutarsi in trepido e sensibile innamorato. Giovanni Franzoni è il marchese e regge con sapienza la vanagloria e autoreferenzialità, ai limiti della macchietta, del personaggio, mentre sbruffone e permaloso è il conte di Francesco Manetti: tra i due, prima rivali, nascerà un’imprevista amicizia che il regista fa siglare da un malizioso bacio in bocca. Marta Pizzigallo e Marta Cortellazzo Wiel sono Dejanira e Ortensia, esilaranti nella finzione e, gettata poi la maschera, concrete popolane alle prese con le difficoltà della vita d’artista, prendendo anche loro congedo con un birichino bacio lesbico. Completano l’azzeccato cast il cameriere del volitivo Valentino Villa e il poliedrico servitore di Gabriele Pestilli. Linda Dalisi è da sempre la fedele dramaturg del regista, l’innovativa scena porta la firma di Annelisa Zaccheria, i funzionali costumi quella di Graziella Pepe, musiche e suono di Franco Visioli, luci di Luigi De Angelis.
La locandiera, con cui Antonio Latella ha inteso rendere omaggio a Massimo Castri, il primo regista a farci scoprire un Goldoni fuori dalla convenzione con la meravigliosa Trilogia della villeggiatura in cui recitava anche Sonia Bergamasco, continua l’indagine del regista sui temi della diversità e del senso di appartenenza, contrapposti a estraneità e disagio esistenziale, già esplorati in Un tram che si chiama desiderio e Virginia Woolf. Prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria, lo spettacolo è stato applaudito anche da un pubblico di giovanissimi attenti e silenziosi al Piccolo Teatro di Milano (dove rimane in scena sino al 3 marzo) e prosegue la tournée al Toselli di Cuneo (5/3), Alighieri di Ravenna (7-10/3) e all’Argentina di Roma (dal 17 al 28 aprile).
E’ stato il caso letterario del 2015, vincitore del Premio Strega e tradotto in più lingue: La ferocia, il quarto romanzo di Nicola Lagioia, approda ora in palcoscenico ad opera di VicoQuartoMazzini, compagnia con base in Puglia, anche terra dell’autore che così ci introduce alla genesi e tematica del libro. “Ho cominciato a scriverlo nel 2009, mosso dalla visione immaginaria di una ragazza insanguinata (quasi una citazione dei film di David Lynch di cui sono un estimatore) che cammina lungo la statale 16, alla quale ho poi dato il nome di Clara Salvemini, figlia di Vittorio, prima piccolo imprenditore e poi capostipite di una potente famiglia barese di costruttori con sete di potere e denaro”, dichiara Lagioia. “Una figura che non disprezzo ma che sento quasi padre, così come sento Clara sorella. E’ la storia dell’ascesa e caduta di questa famiglia, dissimile da quella dei Buddenbrook di Thomas Mann in quanto i Salvemini non sono borghesi ma ex proletari arricchiti. Clara e il fratellastro Michele sono legati da un forte rapporto di solidarietà e amore sublimato che potrebbe sfociare in un incesto (tema da cui sono attratto) che però non sarà consumato. E’ un romanzo tentacolare, ambiguo e pieno di chiaroscuri, una vicenda, per citare Francesco Rosi quando parlava di Le mani sulla città, inventata ma verosimile come lo sono i personaggi e reale è la realtà che li produce. Lo spettacolo di VicoQuartoMazzini conserva lo spirito del romanzo ma lo scarnifica, conservandone lo scheletro che è quello della tragedia greca”.
La pièce prende avvio con la notizia del presunto suicidio di Clara, gettatasi da una rupe, e la ricerca della verità sulla sua morte da parte di Michele, in cura psichiatrica per il suo malessere esistenziale, rientrato in famiglia dopo aver lasciato Bari per trasferirsi a Roma e intraprendere con scarso successo la carriera di giornalista. La sua indagine, a cui collabora il giornalista televisivo Danilo Sangilardi, s’intreccia con gli oscuri traffici di Vittorio, incarnazione del potere e disposto a corrompere a suon di favori e mazzette i politici, gli amministratori e i funzionari locali pur di raggiungere con ogni mezzo i suoi obiettivi e non far sapere che nei terreni su cui ha edificato il complesso residenziale di Porto Allegro sono sepolti rifiuti tossici. Ad assecondare questa condotta priva di ogni scrupolo morale sono la moglie Annamaria, Ruggero, l’altro succube figlio, la stessa Clara (che però in scena come nel romanzo viene solo evocata) e a suo modo anche il marito Alberto. Veniamo a sapere che Clara, sofferente di depressione e già sottoposta alla crudele pratica dell’elettroshock, aveva una doppia vita, concedendosi ad altri uomini, spesso anziani, quasi preda di una forza autodistruttiva. Michele e Sangilardi cominciano a mettere insieme le tessere di un mosaico che pare suggerire che la verità sia stata occultata, a partire da un’autopsia mai eseguita, al sospetto di un oscuro traffico d’organi e la partecipazione della donna a festini a base di droga e sesso estremo. Riusciranno a far luce sulla sua morte e a metter fine agli orrendi traffici di Vittorio? Lo sapremo solo nel finale, degno di noir d’alta scuola, che non riveliamo.
“E’ stato un lungo lavoro”, dice il regista Michele Altamura, 13 anni fa cofondatore con Gabriele Paolocà di VicoQuartoMazzini, “proseguito su un doppio registro: da una parte l’adattamento dal romanzo al testo teatrale che abbiamo affidato a Linda Dalisi e dall’altra il metodo del setaccio fino al giusto distillato per tracciare una precisa linea drammaturgica. La modalità è quella tragica in un contesto di realismo filosofico dove le parole hanno peso ma non è teatro di conversazione. Ci siamo chiesti se il Sud, che qui compare in tutte le sue contraddizioni ma si presenta come sintomo e non come male, possa assurgere al ruolo di protagonista del dramma di un mondo fuor di squadra, dove il crollo economico dell’occidente e l’incomunicabilità tra sostenibilità ambientale e progresso siano soltanto dei sottotesti che ci rifiutiamo di interpretare”.
Per Gabriele Paolocà il personaggio di Michele “risolve la questione del suo schierarsi a fianco o contro la famiglia accettandone la componente di ferocia: l’unico modo per affrancarsi dalla gabbia psicologica eretta dall’ambiente familiare è affrontarla, pur sapendo che sarà molto difficile liberarsene del tutto. Abbiamo voluto fare un omaggio ai grandi narratori del Sud come Lagioia e Alessandro Leogrande, testimone impegnato in un preciso e radicale attacco agli stereotipi e in un rovesciamento del punto di vista di certa cronaca locale, sensazionalista e parassitaria”.
L’incipit è affidato al giornalista Sangilardi che dalla sua postazione video aggiorna i telespettatori sulla fine di Clara e l’affrettata tesi del suicidio. Poi i personaggi sfilano nell’elegante soggiorno di casa Salvemini che affaccia su un buio giardino, le cui alte piante verranno mano a mano estratte e portate all’interno; una vetrata scorrevole divide lo spazio in cui si sdipana la vicenda tra cene in famiglia o d’affari, strategie per affrontare i problemi che si fanno sempre più gravi, sfoghi, accuse e recriminazioni. Gabriele Paolocà è il fragile ma determinato Michele, rassegnato e consapevole della famiglia disfunzionale in cui è cresciuto mentre Michele Altamura dà voce a Ruggero, prono al volere paterno e disposto al sacrificio della sua identità e delle vere aspirazioni. La loro regia si misura con un testo letterario non dei più facili da trasferire sulla scena e giustamente hanno deciso di non usare la terza persona ma di affidarsi interamente ai dialoghi, riuscendo a tenere sempre alta la tensione emotiva nello spettatore oltre a darci un crudele ma realistico ritratto di un certo ambiente e classe sociale. Leonardo Capuano disegna al meglio l’iracondo, sanguigno e spietato Vittorio. A interpretare il controverso personaggio di Annamaria ritroviamo con piacere Francesca Mazza che, soprattutto in un intenso monologo, confessa colpe di madre e viltà di moglie. Tutti quanti si rivolgono e dialogano a turno con la loro proiezione di Clara. Completano il cast Roberto Alinghieri, Enrico Casale, Gaetano Colella e Andrea Volpetti, impegnati in un riuscito gioco di squadra. La scena complessa e raffinata porta la firma di Daniele Spanò, i costumi adeguati quella di Lilian Indraccolo, luci di Giulia Pastore e sound design di Pino Basile.
Prodotto da Scarti, Elsinor, Romaeuropa Festival, LAC-Lugano Arte e Cultura, Teatri di Bari e Teatro Nazionale di Genova, abbiamo visto La ferocia al Teatro Fontana di Milano dove si replica con successo sino al 3 marzo, poi lo spettacolo chiuderà la tournée al LAC il 26 e 27/3.
a cura di Mario Cervio Gualersi