In una Milano ancora devastata dai segni della guerra, il 14 maggio del 1947, nei locali che avevano visto torturare dissidenti e non allineati al regime fascista, si alzava il sipario del Piccolo Teatro, fondato da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi, con L’albergo dei poveri di Maxsim Gor’kij, messo in scena da Strehler. Il dramma dello scrittore russo (1868-1936) che debuttò nel 1902 al Teatro d’Arte di Mosca con la regia di Stanislavskij, era in perfetta sintonia con lo stato del Paese, in gran parte prostrato dalla miseria, dai recenti lutti e dalla fame, con davanti a sé un futuro pieno di incognite. A misurarsi di nuovo con questo testo (che lo stesso Strehler aveva ripreso negli anni settanta al Metastasio di Prato intitolandolo Nel fondo) si misura ora Massimo Popolizio con la collaborazione di Emanuele Trevi (insieme già per Ragazzi di vita da Pasolini e per Furore da Steinbeck) che ne ha operato la riduzione teatrale.
“Non è stata una genesi facile: abbiamo riscritto ben otto copioni – afferma Popolizio – prima della lettura al tavolo e abbiamo inserito citazioni da altri autori come Puskin, Gogol e Cormac McCarthy. E’ uno testi più barbari di Gor’kij: il nucleo dell’opera è estremamente violento e passionale, cinico, e, a mio avviso, rispecchia la disperazione in cui viviamo oggi. Non l’abbiamo però attualizzato ambientandolo nel rifugio nei pressi di una stazione. Oggi l’idea di emarginazione è diversa: il nostro tema è qualcosa di più etico ed eterno sulla natura dell’uomo.” Per Emanuele Trevi “Il testo ha una sua smaccata sensibilità sociologica, diversa da tutti gli scrittori russi dell’epoca.
Benché molto teatrale, contiene molto anche della scrittura letterario di Gor’kij : a volte in quella coralità è richiesto a diversi personaggi di descrivere se stessi e la propria storia con poche battute, guidate più che altro dal gesto o dal movimento. Più che di attualità parliamo di eternità di una certa condizione: non ci sono profezie nel grande scrittore: miseria e povertà sono elementi immobili nella società.”
In una sorta di dormitorio dove alloggiano anche pulci e pidocchi, gestito dal pusillanime Kostylev e dalla spietata consorte Vasilisa, vediamo riunito un campione di dolente umanità costretta a pagare ai due un affitto. Tra loro c’è Satin, giocatore d’azzardo e baro, l’Attore ora smemorato e imbruttito dall’alcol, il Barone che ostenta un casato e un passato di ricchezza quasi certamente fasulli, il pellicciaio Bubnov caduto in disgrazia, il fabbro Klesc che aspetta la morte della moglie Anna, gravemente malata, per riacquistare la libertà, Kvasnja, ex prostituta che è corteggiata dalla guardia Medvedev,
Nastja, fanciulla innocente e psichicamente fragile che vive immaginando di essere la protagonista di Amore fatale, il romanzo rosa che sta leggendo, e il Principe, nero musulmano, l’unico a credere nella giustizia e avere una fede. Investito da tutti loro di una certa autorità grazie i suoi modi violenti e arroganti c’è il ladro Pepel di cui è invaghita Vasilisa che ne ha fatto il suo amante anche con il proposito di convincerlo a uccidere il marito. Lui però è innamorato di Natascia, sua sorella, e questo scatena nella donna una furia cieca nei confronti della graziosa ragazza. Ognuno, tra una bottiglia e l’altra di vodka, racconta la sua triste storia senza trovare consolazione ma talvolta ricevendo solo scherno o compatimento.
Mentre nel gruppo continuano schermaglie, dispetti e piccole vendette si palesa Luka, sedicente e misterioso pellegrino con nodoso bastone d’ordinanza. Costui parla di spiritualità e compassione senza molto seguito se non nel Principe, ma in altri contesti si dimostra cinico e meschino quanto gli altri ospiti. E’ lui a suggerire all’Attore di lasciare l’ostello e cercare di disintossicarsi e a Pepel di fuggire con Natascia ma quando la coppia sembra convincersi interviene Natascia che, folle di gelosia, rovescia in grembo alla sorella un secchio di acqua bollente: si scatena una rissa nella quale Pepel uccide accidentalmente Kostylev e viene arrestato da Medvedev. Anna muore, Natascia finisce in ospedale per poi sparire al pari di Luka che scompare: appresa quest’ultima notizia l’Attore, disperato, s’impicca.
A interpretare il pellegrino è lo stesso Popolizio. “Il mio personaggio è diverso da tutti gli altri, non li comprende. Ha una vena mistica e cialtronesca, parla della coscienza e di Dio, ma è chiaro che non vogliamo fare né la morale né la lezione a nessuno. Un documentario su Gaza sarebbe più forte di qualsiasi denuncia: ci sono battute che fanno pensare alle guerre di oggi ma non uso la retorica che uccide la comunicazione: in scena ho solo venti panche e quattro mura, senza video, preferisco lavorare sull’emozione degli artisti. Forse Luka è un santo ma anche un peccatore e un cialtrone. Mi ricorda figure nelle quali a volte mi sono imbattuto: ex preti che hanno lasciato i voti, persone che sono rimaste depositarie di una forte spiritualità, che vedono più in là. Non è necessario essere cattolici o credenti per essere spirituali, anzi Luka cerca di valorizzare questa componente negli altri.”
La sua regia, per certi versi austera, vira a volte nel grottesco nel dover fare i conti con personaggi ed eventi estremi, orchestrando con perizia sia i momenti corali dove si passa dall’euforia alla depressione che i brevi monologhi come quello del Baro che si chiede cosa sia un uomo o quello in cui si domanda chi tenga il metaforico libro dei conti, dato che tutti nella vita dovrebbero pagare in egual misura ma c’è sempre qualcuno che paga troppo, ulteriore considerazione che rende la visione del mondo decisamente virata al pessimismo. Bel gioco di squadra per i sedici interpreti: non potendo citarli tutti, ricordiamo la crudele e sadica Vasilisa con frustino di Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito che dà fisicità e ardore a Pepel, il soccombente Attore di Luca Carbone, Aldo Ottobrino, Satin senza cuore né morale, e Giovanni Battaglia, vanesio e millantatore Barone. Massimo Popolizio è Luka, pellegrino dalle molte facce, a cui presta ieraticità non disgiunta da una sotterranea ambiguità.
Le scene essenziali dai toni cupi portano la firma didi Marco Rossi e Francesca Sgariboldi, i costumi atemporali quella di Gianluca Sbicca, luci di Luigi Biondi e disegno del suono a cura di Alessandro Saviozzi che ci congeda sulle note di Mio fratello che guardi il mondo di Ivano Fossati. L’albergo dei poveri, prodotto dal Piccolo Teatro e dal Teatro di Roma, dopo il debutto all’Argentina, rimane in scena alla sala Strehler del Piccolo sino al 28 marzo, poi sarà al Mercadante di Napoli dal 4 al 14 aprile e al Donizetti di Bergamo dal 17 al 23/4.
A 7 anni Jean Paul Gaultier “operava” al petto il suo orsetto di peluche chiamato Nana (che lui truccava e vestiva) per inserirgli dei coni, quelli che poi sarebbero diventati parte dell’iconico bustino di Madonna nel suo Blond Ambition Tour del 1989. “Le avevo chiesto di sposarmi ma non la volevo davvero come moglie: era un gesto per dimostrale l’immensità dell’ammirazione che provavo nei suoi confronti”. All’inizio del Jean Paul Gaultier Freak Show su un gigantesco video a tutta parete vediamo infatti il biondo fanciullo (oggi 71enne) alle prese con il bisturi in un’avveniristica sala operatoria. E’ la prima tappa di una lunga cavalcata che vede riassunta la vita di uno dei più originali e trasgressivi stilisti nella storia della moda. Quella successiva ce lo mostra ancora negli anni cinquanta alla scuola elementare dove una severissima, implacabile maestra (Rossy de Palma) lo coglie mentre, invece di seguire la lezione, disegna uno degli abiti che lo avrebbero reso famoso. Da quanto detto fin qui si evince che lo show (ideato, scritto, diretto da Gaultier, ovviamente anche costumista, che potremmo paragonare a una delle nostre sontuose riviste di un tempo) assembla, con enorme sfoggio di mezzi tecnologici, proiezioni, coreografie, canzoni dal vivo o registrate, gran parte appartenenti al repertorio degli anni settanta e ottanta, a cominciare dall’incipit di Le Freak, cavallo di battaglia del gruppo Chic.
Sulle note di Light My Fire dei Doors nel quadro successivo torniamo sul famigerato corsetto e sul piccolo Jean Paul con l’amatissima nonna. “Non ne avevo mai visto uno e il primo lo trovai a casa di mia nonna: lei mi spiegò che serviva alle donne per avere una vita più sottile, ma che era una anche una tortura. Io lo trovai affascinante e lo immaginavo indossato come abito da sera o abbinato a una gonna. Far vedere quello che prima si teneva nascosto era una novità, significava anche liberare le donne dalla posizione di semplice oggetto per renderle sensuali prima per se stesse. Questa idea mi era nata negli anni settanta: nel decennio precedente il femminismo rifiutava il reggiseno in segno di protesta perché rappresentava una costrizione. La generazione successiva ha ricominciato a utilizzarlo con una mentalità nuova: le ragazze hanno trovato dei vecchi reggipetti e li hanno voluti indossare, solo perché lo volevano fare e non perché erano obbligate.”
Finalmente arriva in scena, interpretato da un giovane performer, Jean Paul diciottenne che, con i capelli biondo platino e la celebre tshirt a righe bianche e blu della marina militare francese, viene notato da Pierre Cardin che lo chiama nel suo atelier: è l’inizio della sua luminosa carriera. Un altro capitolo fondamentatale è l’incontro nel 1975 con lo storico compagno Francis Menuge che diventerà anche suo socio e lo spronerà alla in apparenza folle sfida di creare il loro marchio e approntare una collezione. La prima sfilata nel ‘76 fu piuttosto catastrofica, siglata dalla feroce stroncatura della sacerdotessa di Vogue America Anna Wintour che poi, in anni successivi, sarà costretta a ricredersi, diventando una sua sostenitrice. Nello show la vediamo infatti in una esilarante conversazione telefonica con Karl Lagerfeld prima spietata e poi osannante. Il sodalizio con Francis verrà stroncato dall’Aids che se lo porterà via, lasciando Jean Paul indossare quella magia extralarge creata per due, costretto a portarla da solo. E’ di certo il momento più struggente e romantico dello show (sulle note di Don’t Leave Me This Way dei Communards) ma il dolore verrà presto canalizzato nell’impegno sociale: il couturier fonda e sostiene finanziariamente Sidaction, l’associazione francese che fa campagne contro l’Aids.
Nonostante il successo delle successive collezioni, alla fine degli anni settanta in patria nessuna fabbrica voleva produrre le sue creazioni: a dargli fiducia furono prima i buyers giapponesi e poi gli italiani che copriranno il 95% della sua produzione. E’ forte il suo legame con l’Italia e gli italiani, secondo lui “Un popolo che, a differenza dei francese, ha innato il senso del bello.” La seconda parte dello show (forse un po’ meno compatta della prima) si apre negli anni ottanta con la rievocazione delle notti alla discoteca parigina Le Palace dove chi accedeva alla feroce selezione all’ingresso s’immergeva in una sorta di rito che alla musica (e come colonna sonora non poteva mancare Relax dei Frankie Goes To Hollywood) mescolava alcol, sostanze e sesso promiscuo, ma il momento clou è la sfilata di Homme Couture del 1990 (un gioco parole che parafrasa la Haute Couture, quasi annullando la differenza tra abiti di lusso maschili e femminili, con lo scopo dichiarato di vestire la donna-macho e pensare l’uomo-oggetto) che, sulla falsariga di quelle degli anni cinquanta, vede Catherine Deneuve come presentatrice che annuncia con un numero i modelli in passerella, uno più originale e azzardato dell’altro, provenienti dall’archivio dello stilista come gran parte dei costumi dello show, mentre altri sono stati disegnati per l’occasione.
Gaultier con la sfilata Haute Couture Primavera-Estate del 2020 ha festeggiato i suoi 50 anni nella moda e le ha dato l’addio ma non se ne è staccato del tutto: “La moda rimane la mia passione, è la mia vita: ho avuto la fortuna di aver giocato professionalmente durante tutta la mia esistenza. Mi piace sfogliare le riviste e strappare le pagine proprio come facevo da bambino. Ogni stagione chiedo a un giovane designer di creare la collezione di Alta Moda per la mia maison: adoro vedere come i nuovi stilisti talentuosi interpretano i miei archivi, lascio loro la libertà di rompere gli schemi senza essere troppo rispettosi.” Alla chiusura dello spettacolo non poteva esserci che lui a fare in video alcuni ficcanti e intelligenti considerazioni sul concetto di bellezza: non ne esiste un solo tipo ma ce ne sono molti e ognuno la può trovare dove la vuole vedere con i suoi occhi, anche mescolando estetiche diverse come Jean Paul ha sempre fatto. Sottofinale rutilante dove ritornano le note di Le Freak con i 15 performer, tutti strepitosi ballerini e alcuni provetti cantanti che animano uno show dal respiro internazionale, decisamente raro sulle nostre scene, un capriccio (“strambo” o “bizzarro” è la traduzione italiana di una parola ormai entrata nel nostro vocabolario) che è una vera gioia per gli occhi tra costumi e immagini. C’è tutto l’immaginario di Gaultier: i film di Almodovar e Luc Besson, le coreografie di Angelin Preljocaj, la danza di Régine Chopinot, le canzoni di Myléne Farmer. A nove anni aveva visto alla tv lo show di Capodanno alle Folies Bergère e sognato di farne uno simile: sogno realizzato perché il suo (co-regista Tonie Marshall e coreografa Marion Motin, la stessa di Madonna) ha debuttato nel tempio del varietà parigino nel 2019 per spostarsi poi alla Roundhouse di Londra dove è rimasto in scena per sei settimane.
Jean Paul Gaultier Freak Show si replica al teatro Arcimboldi di Milano sino al 24 marzo, poi, per i lettori in viaggio di lavoro o per turismo, sarà al Coliseum di Barcellona dal 4 al 24 aprile, alla Wiener Stadthalle di Vienna dal 10 al 14 luglio, alla Lanxess Arena di Colonia dal 17 al 21/7 e al Koninklijk Theater Carre di Amsterdam dal 24 al 28/7.
a cura di Mario Cervio Gualersi