Si chiude oggi la 27a edizione di MiArt, l’appuntamento milanese che quest’anno ha attratto 178 gallerie partecipanti provenienti da 28 Paesi.
Per chi se la fosse persa, proponiamo qui una passaggiata virtuale facendosi guidare dalle opere e dagli artisti, senza nessuna pretesa di essere esaustivi, lasciandosi guidare dalle emozioni, rovesciando la prospettiva abituale di un viaggio tra le gallerie. Edizione certamente di qualità dove il contemporaneo è sempre più protagonista, che purtroppo è un po’ schiacciata da troppe manifestazioni concomitanti.
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È con l’artista Anna Boghiguian che comincia la nostra passeggiata nella Galleria torinese Franco Noero, realtà attenta ad artisti di respiro internazionale con un’originalità spiccata, dov’è stata esposta recentemente.
L’artista, nata al Cairo di origini armene poi emigrata in Canada offre uno sguardo sconvolgente e trasgressivo sul canone occidentale, attraverso la sua mostra dove i materiali low stakes si mescolano con elementi highbrow. Nello stand in particolare il suo volto deformato rispetto ai canoni occidentali, Untitled. La sua nomadicità e il profondo interesse per il movimento di corpi, cose e idee emergono attraverso installazioni site-specific che ruotano sui temi della migrazione, schiavitù e commercio di merci. Impiegando materiali di risulta come tele da vela, parti di barche arrugginite e sacchi, la sua pratica artistica crea un connubio unico tra materialità grezza e personaggi vivaci, radicati nella tradizione folkloristica e teatrale.
Al momento in galleria a Torino, Hassan Sharif nato a Bandar Lengeh, Iran nel 1951 e deceduto a Dubai, UAE nel 2016, esposto fino al 15 giugno; l’artista ha dato un contributo vitale all’arte concettuale e alle pratiche sperimentali in Medio Oriente. Ha inizialmente catturato l’attenzione con i suoi fumetti pubblicati nella UAE press, delle critiche ironiche ed esplicite della rapida industrializzazione degli Emirati, rifiutando l’astrazione calligrafica e impiegando, al contrario, un vocabolario volutamente contemporaneo, attingendo dal non-elitismo e dall’intermedia di Fluxus e dal potenziale del processo sistemico di realizzazione del Costruzionismo Inglese. Importante il suo ruolo locale dato che ha fatto diversi interventi ed ha allestito le prime mostre di arte contemporanea a Sharjah; ha inoltre tradotto in arabo diversi testi storico artistici in modo da coinvolgere il pubblico locale nel discorso intorno all’arte contemporanea. Ha iniziato a creare i suoi Objects negli anni Ottanta, usando materiali industriali di scarto o oggetti di produzione di massa comprati in vari mercati degli Emirati Arabi Uniti. I cumuli e i fasci che Sharif crea unendo questi oggetti con corda e spago, diventano una visualizzazione dell’eccesso della produzione di massa.
Nei suoi semi-Systems, ha inventato un insieme di regole per creare studi di colore su carta e disegni lineari che si trasformano dentro una griglia. Entusiasta degli errori che naturalmente si commettono nella monotona creazione di un’opera, credendo che “l’Arte si creasse come risultato degli errori”, è stato fu un membro fondatore degli Emirates Fine Arts Society nel 1980 e dell’Art Atelier nel Youth Theatre and Arts a Dubai. Nel 2007, fu uno dei quattro artisti che crearono The Flying House a Dubai, un’istituzione per promuovere gli artisti contemporanei degli Emirati.
Cento anni dalla nascita di Carla Accardi celebrati in vari luoghi e nella romana Galleria Russo, che con 125 anni di storia si conferma come la più antica galleria di arte moderna in Italia, trovano una vetrina importante all’interno di un percorso focalizzato sul Novecento. In Fiera è esposto lo splendido Turchese argento del 1965, tempera su cartoncino intelato.
Proprio accanto è esposto un altro artista, scomparso troppo giovane eppure sempre di grande attualità, Pino Pascali, con il Baco da setola, ironica interpretazione del quotidiano, in una versione pop tutta italiana del 1968, opere entrambe con una lunga storia di esposizioni e pubblicazioni com’è nella tradizione della Galleria.
Da Paola Verrengia si incontra poi Mrdjan Bajic, insieme agli artisti Elisabetta Catalano, Emanuela Fiorelli e Maria Elisabetta Novello. L’artista serbo, classe 1957, al quale la Galleria salernitana ha già dedicato attenzione e una personale anni fa e la cui collaborazione risale al 2007, nasce a Belgrado, città in cui vive e lavora come professore ordinario di Scultura presso la Facoltà di Belle Arti. Nelle sue opere spesso un mondo fantasioso-utopistico che riflette sui giochi di potere.
In quella che abbiamo notato in fiera un busto, che richiama l’arte classica, sorregge tre stelle, evocando il mito di Atlas che sorregge il cielo. Le tre stelle richiamano rispettivamente la stella di Giotto, quella dell’Unione Sovietica dove l’artista è cresciuto e quella della Nato, a indicare che trovare armonia spetta all’uomo che si trova nel confronto con realtà totalmente diverse con le quali deve comunque fare i conti.
A partire dall’opera video e fotografica Terra Animata, misurazione della terra, 1967 di Luca Maria Patella, romano con una lunga esperienza a Parigi, morto nel 2023, che ha partecipato nell’ultimo anno ad alcune importanti mostre sia in Italia sia all’estero, si trova la fiorentina Galleria Il Ponte, che sta puntando fortemente su di lui grazie anche alla moglie Rosa Foschi, artista a sua volta, e che presenta una selezione di opere in cui l’idea di terra è il soggetto principale della ricerca sia sotto il profilo formale che concettuale, realizzate da artisti con cui la galleria ha lavorato negli anni. Artista di ricerca, è noto per le complesse relazioni semantiche e tecniche elaborate nel suo lavoro: pittura, oggetti-scultura, installazioni, fotografie, film e video, lavori grafici, libri e scritti.
Dalla ricerca performativa-processuale del video e delle opere fotografiche di Patella si passa alla terra intesa come pianeta indagata da Eliseo Mattiacci, che con l’opera Parafulmine, attirafulmine, neutro del 1965, ci mette in contatto con la sfera energetica del nostro pianeta. Joe Tilson con l’opera Earth Mantra, 1971/72, propone – attraverso la ripetizione della parola terra – un’anticipazione dell’attuale attenzione verso il pianeta.
La natura e la terra sono il punto di partenza delle opere di Claudio Costa e Gianfranco Baruchello, che in modalità del tutto diverse elaborano la loro ricerca intorno ai temi antropologici e agri-culturali in cui l’umanità trova le sue radici.
Alla terra si legano anche l’importante opera di Nanni Valentini che con i suoi 14 elementi in terra refrattaria ricrea sulla parete un vero e proprio territorio che, con la sua matericità vulcanica, fa da contraltare a un Paesaggio in acciaio sul pavimento di Giuseppe Spagnulo, entrambe degli anni Ottanta.
Lo stand include anche quattro opere molto più recenti, Artificio Naturale, 2011-22, con le cinque grandi pietre ideali di Paolo Icaro; la fotografia del 2023 di Pierluigi Fresia Qualsiasi cosa accada mai avrà il tuo nome, in cui il fascino della fotografia si lega a un aforisma che squilibra la nostra visione; la fotografia di Marina Ballo Charmet, Con la coda dell’occhio # 39, fa parte di nucleo di fotografie del 1993-94, in cui stravolge la nostra usuale punto di vista, ponendo l’obbiettivo all’altezza dell’occhio di un bambino e la pietra Margine, 2020, di Renato Ranaldi, alla cui materia autentica viene applicato del colore “al margine” spingendola sul bilico tra natura e artificio.
È un corpus di opere ricco di connotazioni emotive e spirituali quello della mostra personale di Etsu Egami (1994, Tokyo, Giappone), presso la Galleria fiorentina Secci. Come ha dichiarato Julie Champion, curatrice al Centre Pompidou, la bellezza del suo lavoro risiede nel fatto che lei vede tutte queste specificità come fonte di fraintendimenti, creazioni e ricchezza nei rapporti umani. “Il volto umano non è statico, ha connotazioni emotive e spirituali, è in continuo cambiamento, è la prova vivente di energia e informazioni che entrano ed escono, scrive Etsu Egami. Nella vita di una persona, l’immagine del volto può essere descritta come ‘Yi Chi Go I Chi È (un’espressione buddista), fugace, mai normale. Mi piacciono i ciliegi che fioriscono per poco tempo. Io valorizzo i volti che passano. Anche se ci sono molti fraintendimenti e dislocazioni, è un’opportunità e un inizio per comprendere la vita e scambiare informazioni. Possiamo utilizzare una varietà di tecniche per descrivere il volto, cercando di trovare la verità. Ma tutti i nostri sforzi sono fatti in dislocazione. I miei ritratti sono solo un sentimento del momento e un ricordo vago, che può essere lontano dall’oggetto descritto. Sono più simili ai ciliegi, che cadono nella brezza primaverile, silenziosi ma profumati. Ogni mio ritratto può essere un fraintendimento. Il volto umano è un libro infinito, è eterno, è l’intera identità umana e la vita.”
Una selezione curata di artisti il cui lavoro è caratterizzato da un’indagine rigorosa sulla forma, della superficie e dello spazio quali Knoebel, Miller, Pinelli, Schumann, Simeti, Uncini e Ullrich, appartenenti a diverse generazioni, a confronto, alla Dep Gallery di Milano. In particolare suggestive le opere di Regine Schumann, alla quale è dedicata una personale fino al 6 luglio nella sede della Galleria, Regine Schumann, Iris, a cura di Alberto Mattia Martini. La terza mostra personale dedicata all’artista di Goslar, in Germania, classe 1961, ripercorre, in circa 20 opere, l’evoluzione della sua recente produzione artistica fino all’ultima serie “Corners”. Introducendo nuovi piani visivi, Schumann sperimenta una maggiore complessità dinamica tra materia, luce e spettatore.
Le opere di Giorgio Ciam (1941-1996) sono state selezionate per entrare in relazione con quelle di Ann Iren Buan (1984) da Apalazzo Gallery; ne è nato un incontro, tra un artista storico italiano e una giovane artista norvegese messi a confronto sul tema della materia e del tempo: pittura, scultura, performance, un “melting pot” di esperienze. Insistere con lo sguardo, agire con il corpo, usare le mani, andare verso l’astrazione, creare un territorio nel quale perdersi per ritrovarsi. Due mondi, forse solo apparentemente lontani.
Il colore dell’opera Senza titolo ovvero Carnevale di Venezia del 1958 di Tancredi è protagonista alla Galleria Lo Scudo di Verona, focalizzata sugli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento quando Venezia è stata appunto fulcro dell’avanguardia artistica, destinata a sfilare nei padiglioni della Biennale. La vocazione internazionale della città lagunare è stato l’elemento attrattivo per Peggy Guggenheim, collezionista di Bacci e dello stesso Tancredi, nonché amica di Santomaso e Vedova, ma anche artefice dell’ingresso in collezioni museali di opere di astrattisti italiani come avvenne per il dipinto di Birolli donato nel 1949 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. Le proposte di Galleria dello Scudo a Miart sono nell’ottica di offrire una panoramica sui protagonisti celebrati all’epoca in Italia nel contesto internazionale.
Impossibile poi non fermarsi davanti alle sculture in ceramica, scelte dalla Galleria Marcorossi artecontemporanea e realizzate da Giosetta Fioroni, presso la rinomata Bottega Gatti di Faenza, dai Teatrini, alle ceramiche da parete, cani ed alberi smaltati; opere “iperpittoriche” che mostrano un’intima coesione tra forma e colore; in loro convivono l’attitudine onirica e fiabesca e il richiamo letterario che connota il lavoro dell’artista solo.
Un progetto a cura di Roberto Lacarbonara, intitolato Segnaletica. Lettere, codici e insegne di un paesaggio artificiale è di scena alla fiorentina Galleria Frittelli dove la genesi di un mondo artificiale, alla fine degli anni Cinquanta, nutre l’immaginario di un’intera generazione di artisti europei e americani, favorendo una trasformazione linguistica che, emergendo dalle istanze informali e realiste, si orienta verso l’analisi del nuovo paesaggio urbano e mediatico. In particolare il cinema e la neonata televisione ridefiniscono l’intero paesaggio metropolitano dell’Italia postmoderna, mostrando un territorio caotico, contaminato e disordinato: cartelloni stradali, primi abusi edilizi, segnaletiche di luce artificiale, indizi di un incerto terrain vague, non più rurale, non ancora cittadino.
Molti gli artisti che avviano pratiche di prelievo e incorporazione dei codici della modernità urbana. Le gallerie della Capitale si riempiono di quelle “porzioni metropolitane” ritagliate ed esposte su parete. “Un mondo fatto per slogan – annota Germano Celant – per ritagli visivi, un prelievo dai mass media, dai flashes veloci della TV, dai frammenti a zona della cartellonistica”. Protagonisti il paesaggio urbanizzato intravisto da un vetro del finestrino dell’automobile, così pieno di insegne Coca Cola o stazioni della ESSO, ma anche letteroni smembrati e stampigliati che definiscono un linguaggio e una acquisizione già maturi e consapevoli. Maurizio Calvesi parlerà addirittura di “arte segnaletica: il dipinto provoca la nostra attenzione allo stesso modo, e nella stessa misura, di un’insegna”.
Tomaso Binga è tra le artiste invitate al progetto della Fondazione Nicola Trussardi Italia 70 – I nuovi mostri a cura di Massimiliano Gioni che, in concomitanza con MIART, l’Art Week e la Design Week, ha invaso le strade di Milano diffondendo centinaia di immagini di opere realizzate da 70 artisti tra grandi maestri ed emergenti. Una massiccia campagna di affissioni pubbliche che tappezza la città e che coinvolge tutti in una caccia al tesoro da un estremo all’altro di Milano, dal Cimitero Monumentale al Centro Storico, da City Life a Porta Romana. Una collezione temporanea di arte a cielo aperto, un museo metropolitano, nascosto tra le comunicazioni commerciali, che riflette i desideri e inquietudini dell’Italia di oggi.
Per l’occasione Tomaso Binga ha scelto di far riprodurre sui manifesti la sua opera del 1992 Riflettendo sulle Riflessioni, che rientra nel filone di un importante lavoro performativo del 1991, denominato Riflessioni a puntate, che l’artista ha sviluppato nel tempo di un anno.
Ogni mese Binga ha spedito agli amici “del cuore e dell’arte” una cartolina messaggio, una delle sue “riflessioni”. All’inizio dell’anno successivo e più precisamente il 17 gennaio 1992 dalle 16 alle 20 Binga ha chiesto a tutti gli amici di esporre le 12 cartoline, tutti contemporaneamente, al fine di creare una “catena energetica necessaria per accedere a modalità diverse di rapporto con la materia, con la dimensione spazio-tempo, con il fare arte”. Proprio una fra queste era dedicata già agli “involontari di guerra”, riflessione a cui Binga ha voluto dare spazio anche qui.
Desta un interesse inquietante l’artista russo di Tuva Evgeny Antufiev presso la Galleria z2o Sara Zanin esposto insieme ad altri che avevamo scoperto nell’edizione 2019 di miart quando la galleria romana gli aveva dedicato una personale: artista scultore che racconta un mondo fiabesco lontano, misto di suggestioni d’oriente e nordiche, che viene da un luogo dove racconta che gli uccelli d’inverno dal gelo cadono dagli alberi. Nella sua arte c’è qualcosa di arcaico, archeologico, una profonda riflessione sulla morte. In Fiera due ceramiche del 2017 su plinti in marmo che richiamano la tradizione sciamanica sulla quale innesta i suoi studi in merito di civiltà antiche nel mondo. Per l’Italia il richiamo ad esempio è alla civiltà etrusca. In uno dei due lavori l’accento è sulla maschera trait-d’-union tra l’umano e il divino lasciando comunque aperta l’interpretazione e l’enigma che non svela mai in modo palese.
Il primo Novecento è protagonista nella Galleria Frediano Farsetti dove spiccano i Giocatori di Toppa del fiorentino Ottone Rosai, un dipinto del 1926 ritrovato recente e riscoperto sul mercato, tanto che l’Archivio dell’artista ne è stato entusiasta. Il dipinto è stato esposto nel 1927 alla mostra sindacale del Partito Fascista e poi stranamente se ne sono perse le tracce. Si tratta tra l’altro di un’opera che per il soggetto la si trova solo a livello museale e che rimanda a un periodo importante per l’arte italiane nonché un periodo d’oro per quella dell’artista.
Il ciclo legato alla mitologia della Janas è protagonista alla Nuova Galleria Morone di Milano delle opere scultoree di Maria Lai, artista sarda di Ulassai, morta nel 2013 a Cardedu, lavori di grande forza ed energia come La teoria delle Janas del 1994, lavoro polimaterico, la Casa delle Janas, con una componente in tessuto significativa e tipica della sua arte o anche lo Scialle delle Janas.
Per concludere lo sguardo lontano, poco frequentato a miart, del mondo arabo, con Simóndi di Torino che ospita l’artista e filmaker palestinese, Emily Jacir con naħnou, “noi” in arabo e altre opere realizzate a Venezia che mostrano luoghi noti, di passaggio, letti in un modo diverso la città, mettendo insieme linguaggi nuovi e tradizionali in un’ottica di resistenza.
a cura di Ilaria Guidantoni
Riprese musica e montaggio di Giuseppe Joh Capozzolo