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Tra i maggiori interpreti del realismo magico italiano, Antonio Donghi è protagonista di una mostra a Palazzo Merulana a Roma, aperta al pubblico fino al 26 maggio prossimo, focalizzata sull’evoluzione stilistica e tematica del pittore romano (Roma, 1897-1963) e intitolata La magia del silenzio.
Si tratta quasi di un risarcimento la scelta dell’esposizione alla Fondazione Cerasi, che diventa un omaggio al raffinato pittore, interprete di un linguaggio apparentemente algido e distaccato, che nel saggio del curatore Fabio Benzi ritrova una corretta collocazione critica. Attraverso il salone, una selezione delle migliori scuole romane tra le due guerre introduce alla mostra dell’esponente di quel realismo magico coniato in ambito tedesco e poi assegnato negli Anni Venti da Massimo Bontempelli ad alcuni pittori. Le sale anguste si prestano ad accogliere lavori adatti al collezionismo privato e rappresentativi di una Roma popolare e borghese, con aspirazioni moderniste e internazionali.
La mostra
Le 34 opere, a partire dal nucleo museale, testimoniano con smagliante evidenza quel passaggio, focus critico della rassegna, che vede Donghi abbandonare una stesura convenzionale, legata al paesaggio ottocentesco di matrice impressionista: alla fine del 1922, nel giro di pochi mesi, egli si orienta verso uno stile assolutamente originale che sotto la locuzione bontempelliana lo consegna dalla critica alla storia. Si indaga la temperie culturale che orienta il suo pennello, stimolato sia dalle fonti classiche, che innervano gli avanguardisti del tempo, sia dalle sollecitazioni che animano la mondanità culturale della capitale: il Caffè Aragno, ritrovo dell’intellettualità, la galleria dei fratelli Bragaglia e le loro “Grotte” in via degli Avignonesi, luogo di sperimentazioni, teatro, serate movimentate e incontri folgoranti. Donghi è anche attratto dal cinema muto e dalle feste di piazza, dall’avanspettacolo e dal teatro comico e surreale dei grandi Petrolini e Campanile. Purtroppo la sua vicenda non è coerente e gli studi lo accantonano fino agli Anni Ottanta per poi circoscriverlo in alcune categorie critiche, quali un carattere “gentileschiano” già individuato da Roberto Longhi.
La svolta nella pittura di Antonio Donghi
L’esposizione dà conto della maturazione repentina che, dalle vedute romane a macchia ottocentesca, cambia marcia e vede nascere quel capolavoro di moderna classicità che è il dipinto intitolato Le lavandaie, primo atto di un linguaggio dall’indiscutibile identità. Solo allora appaiono sulla scena le sue donne, bloccate in un’immobilità astratta ma carnale e dolce, umana con una dimensione di assoluto. Del conquistato stile, la mostra schiera lavori tra il 1923 e il dopoguerra: scorci romani cristallizzati da un colore senza ombre, ritratti di gentiluomini, popolane intente ai lavori e ferme in una posa istantanea, signorine borghesi composte, malinconiche e sfuggenti, battute di caccia, nature morte e quel mondo ai margini di saltimbanchi, giocolieri e guitti. Un’umanità varia di figure immobili ed espanse ma amabilmente vive e palpitanti.
La pittura e la carriera dell’artista
Il saggio illumina sia le fonti della sua classicità, da Giotto ai primitivi e Raffaello, certo manierismo, secentisti italiani e olandesi, sia i contemporanei che contribuisco alla svolta: soprattutto Ubaldo Oppi, Felice Carena, Felice Casorati, Ugo Ojetti, Bragaglia e Bontempelli. La carriera del Donghi maturo si articola tra mostre, la Biennale Romana del 1923 e Quadriennale del 1935. Dal 1939 docente di Tecniche pittoriche all’Istituto Centrale del Restauro, stempera quell’attenzione maniacale alla tecnica che diventa astrazione: ne sono testimoni alcuni paesaggi in punta di pennello degli Anni Quaranta e Cinquanta.
Molti e convincenti i confronti proposti nel Catalogo che chiarisce anche come ogni sua rielaborazione sia scevra da indugi stilistici o citazionismi. La freschezza delle sue invenzioni allude a una tradizione solida e feconda ma rappresenta, con una vivezza senza pari, lo stile e i desiderata della nuova società, tradizionale e moderna, forse fiduciosa in un futuro che purtroppo gli eventi hanno tradito.
I.G.