Al Teatro Menotti di Milano si sono appena concluse le repliche di Crisi di nervi. Tre atti unici, la trilogia che il regista Peter Stein ha dedicato al drammaturgo russo Anton Cechov: dopo i capolavori già messi in scena, la sua attenzione si è ora rivolta verso i brevi atti unici ispirati al vaudeville.
In questi mesi ci siamo più volte occupati delle messe in scena dei capolavori di Anton Cechov (1860-1904) riferendo delle regie del Gabbiano (dando conto della rivisitazione di Liv Ferracchiati e quella più fedele di Leonardo Lidi) e di Zio Vanja dello stesso Lidi. Dopo l’insuccesso del Gabbiano lo scrittore e drammaturgo, assai deluso, riprese quelle tipologie letterarie che aveva intrapreso, ancora ventenne, all’inizio della carriera: racconti e brevi sketch in forma di vaudeville, tipologia teatrale da lui sempre amata, spesso inserita nelle pieghe anche dei suoi drammi di cui spesso i critici non coglievano gli spunti comici. Eccolo allora non ancora trentenne comporre sintetici canovacci con storie essenziali ed esilaranti, anche se talvolta venate di malinconia: lui li definiva “scherzi scenici, i drammi più piccoli del mondo. In generale è meglio scrivere cose piccole che grandi: poche pretese e successo assicurato”.
Un indiscusso Maestro della scena europea, Peter Stein, dopo aver attraversato più volte Cechov (dal Giardino dei ciliegi del 1989 alla Schaubuhne di Berlino della quale è stato per molti anni direttore artistico, a Zio Vanja del 1996 per il Teatro Due di Parma, sino al Gabbiano del 2003) si cimenta ora con questa produzione a torto ritenuta minore ma che peraltro ha avuto sempre fortuna nel mondo e sui nostri palcoscenici. Col titolo, appunto, Crisi di nervi. Tre atti unici di Anton Cechov, Stein ha riunito L’orso, I danni del tabacco e La domanda di matrimonio, di cui ha curato l’adattamento insieme a Carlo Bellamio.
“Dopo l’insuccesso delle sue prime due opere”, spiega il regista, “Cechov giurò di non scrivere mai più per il teatro drammatico e decise di dedicarsi esclusivamente al vaudeville. Questa circostanza ci ha regalato una serie di atti unici pieni di sarcasmo, di comicità paradossale, di stravagante assurdità e di folle crudeltà, e che a loro volta sono diventati il terreno fertile per l’esperienza e la maturazione delle grandi opere della maturità dell’autore. Nei tre che presentiamo i personaggi di volta in volta si fanno prendere da crisi di nervi, si ammalano, sono preda di attacchi isterici e litigano in continuazione tra loro. L’estrema comicità e l’esasperazione utilizzate da Cechov possono funzionare soltanto se accompagnate da un sottofondo realistico e psicologicamente giustificato”.
Nell’Orso il sipario si apre su una scena completamente nera, in sintonia con la signora velata in lutto stretto, seduta a un tavolino del suo salotto a piangere e sospirare sopra la foto incorniciata di quello che capiamo esserne stato il marito, deceduto da ben un anno. Il suo dolore sembra non avvertire lo scorrere del tempo e la tiene rinchiusa in casa senza neppure ricevere visite. Ad assisterla c’è un anziano servitore che invano cerca di consolarla e farla ritornare ad assaporare le piccole gioie della vita. A porre fine a quel forzato isolamento irrompe un rude e aitante proprietario terriero, venuto a reclamare un debito di 1.200 rubli contratto dal coniuge.
Al rifiuto della donna di pagarlo all’istante, non avendo il necessario, ma rimandando il dovuto all’indomani, l’uomo si infuria e non accetta la dilazione, affermando che non si muoverà da quella casa sinché non avrà ottenuto ciò che gli spetta di diritto, dovendo a sua volta assolvere ad alcuni pagamenti il giorno stesso. I toni si alzano in fretta e si passa presto alle urla e alle minacce. Inutili tutti i tentativi di cacciare l’intruso, la padrona di casa più volte esce per congedarlo ma riesce solo a rinfocolare l’ostinazione dell’ospite indesiderato a cui ella risponde sfidandolo a un duello con le pistole del defunto marito. All’improvviso nell’animo dell’uomo scatta qualcosa: si fa strada prima l’ammirazione per quella donna dal carattere così forte e volitivo, a cui poco dopo fanno seguito i primi chiari segni di un’infatuazione. Le fa sapere di aver avuto ben dodici donne, nove delle quali lo hanno lasciato; per contro lei gli confessa che il consorte le era stato sempre infedele, tradendola sotto i suoi occhi ma che, nonostante questo, lei non lo amava di meno. A queste parole il rozzo possidente dal cuore tenero le chiede di sposarlo, ma l’ostinata e orgogliosa padrona di casa insiste nel volersi battere: lui allora le fa sapere che sparerà in aria per non causarle alcun male. A quest’ultima dichiarazione (oltre a tener conto delle cospicue proprietà del pretendente) lei cede e accetta di diventare sua moglie. Alla signora prima dolente e poi combattiva, Maddalena Crippa presta la sua autorevolezza disegnando una figura dalle molte sfaccettature con registri vocali che benissimo si accompagnano ai sentimenti del momento. Alessandro Sanpaoli è il maschio alfa che riverbera il titolo con la giusta fisicità, fiero cipiglio e ardente passione, mentre Sergio Basile è il cameriere che si deve barcamenare tra ordini e contrordini dei due litiganti.
Nella seconda parte del trittico, la scena è occupata da una parete, questa volta grigia, che fa da sfondo a una tribunetta da oratore. Stiamo infatti per assistere a una conferenza che è il nucleo di I danni del tabacco. A tenerla è un uomo di mezza età che indossa un inappuntabile frac ma anziché entrare in tema si sofferma sull’infelicità della sua vita coniugale: sposato con una moglie tiranna da 33 anni, due figlie nubili di 27 e 17 anni, viene obbligato a svolgere le funzioni di cameriere tuttofare (a cui sono riservati gli avanzi del cibo) nel pensionato femminile gestito dalla donna, dove si insegnano ballo, canto e disegno. Il paradosso rispetto al tema della conferenza (peraltro scelto dalla moglie) è che lui confessa di sniffare tabacco e di soffrire di asma: poco dopo viene infatti colpito da un attacco, oltre a starnutire spesso a causa della malsana abitudine. Il messaggio più sconsolato che lascia è espresso nel desiderio di volare via, di metter fine cioè a quel disastroso ménage coniugale. Gianluigi Fogacci offre un’eccellente performance nella quale miscela rassegnazione, timidi moti di ribellione e qualche nota leggera che strappa il sorriso.
Per la chiusa Stein ha scelto La domanda di matrimonio: qui al centro della scena troviamo un accogliente divano rosso a cui fa da sfondo una parete verde acceso. Siamo nel salotto di una tenuta di campagna dove abitano il maturo proprietario e la di lui figlia, già ben oltre l’età appropriata per convolare a nozze a quell’epoca. Là viene fatto accomodare il vicino, un timidissimo giovanotto con un problema al cuore e qualche difficoltà motoria, che, indossati un elegante frac e guanti bianchi, ha preso il coraggio a due mani e ha deciso di chiedere in moglie la ragazza. Il padre è entusiasta e convoca quest’ultima. Quella che doveva essere una romanica dichiarazione (lei non afferra subito il motivo della visita né lui lo dichiara) finisce per trasformarsi in una lite a base di colpi bassi e insulti, prima per rivendicare la proprietà di un campo dato in usufrutto ai contadini e poi per svillaneggiare la bellezza e l’intelligenza dei rispettivi cani da caccia. Entrambi vengono colti da crisi isteriche, con lui che sviene e lo credono morto. A tutto ciò assiste il padre che non sa per chi parteggiare, pensando al futuro della figlia ma anche a difendere l’onore della casa. Alla fine la ragione della visita viene esplicitata e la ragazza dalla gioia viene presa da un lungo e irrefrenabile attacco di risa mentre il poveretto cerca di riprendere l’uso di una gamba addormentata: la tregua però è di breve durata dato che i due riprendono furiosamente a litigare. A dar benissimo corpo duttile e voce tremolante all’impacciato giovanotto è Alessandro Averone che rivela inaspettate doti comiche, accanto a lui Emilia Scatigno, agguerrita nubenda dai nervi fragili e di nuovo Sergio Basile, pragmatico genitore.
La regia di Peter Stein asseconda la perfetta macchina teatrale, enfatizzando il grottesco e la sotterranea crudeltà insita in alcuni personaggi e situazioni. Scene essenziali ma raffinate di Ferdinand Woegenbauer; Anna Maria Heinreich firma i costumi tardo ottocento e Andrea Violato le calde luci. Lo spettacolo, prodotto da Tieffe Teatro Milano e Teatro Biondo Palermo, dopo il debutto al Teatro Menotti ci ritorna nella prossima stagione 2024/25 dal 21 al 26 gennaio; a seguire la tournée con le prime tappe al Rossini di Pesaro (30/1-2/2), al Massimo di Cagliari (5-9/2) e Bonci di Cesena (20-23/2).
a cura di Mario Cervio Gualersi