di Ilaria Conte
“L’arte vive grazie alla fantasia delle persone che la osservano. Senza questo contatto, non esiste arte. Mi sono modellato il ruolo di creatore di immagini del XX secolo, e giorno dopo giorno cerco di comprendere la responsabilità e l’esatto significato di questo ruolo. Mi accorgo sempre più chiaramente che l’arte non è affatto un’attività elitaria per pochi eletti, bensì si rivolge a tutti, e questo è l’obiettivo al quale contribuirò a tendere” Keith Haring, 1984
L’opera di Keith Haring si inscrive nel movimento artistico della Street Art, un fenomeno pittorico nato a New York tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo. La critica inizialmente inquadrava il movimento nell’ambito del graffitismo, solo negli Anni Ottanta e Novanta, apprezzandone più a fondo i valori e i concetti, l’ha definita street art. Sebbene i due movimenti condividano lo stesso spazio d’espressione, le due manifestazioni vanno considerate come due categorie a sé o come due derivazioni di una stessa poetica. L’arte urbana, nell’accezione contemporanea, intende trasferire uno spaccato d’arte all’aperto, dove ciò che sfuggirebbe agli sguardi per la banalità del suo essere si riappropri di una connotazione estetica e artistica. Da queste premesse, spicca l’arte intramontabile di Keith Haring, espressione della cultura che animò e pervase gli anni Ottanta: la sua arte, dallo stile unico e inconfondibile, è impegnata in una narrazione e un dialogo con i temi del suo tempo, tra cui il razzismo, la droga, la minaccia nucleare e l’attualità politica, che tuttora rimbalzano nella nostra disillusa contemporaneità. Nell’immensa dimensione newyorkese, tra i nuovissimi grattacieli in vetro-cemento, le periferie, la pubblicità e il consumismo incalzante, Haring reinventa i non-luoghi, intesi nei termini antropologici di Marc Augé, come riappropriazione della creatività e della libera fruizione estetica. L’immaginario di Haring, simboleggiato dalle figure-icone apparentemente semplici, scaturito dall’incontro e dalla sintesi di influenze diverse, dall’arte tribale ed etnografica alle sperimentazioni dell’Action Painting, dall’Art Brut all’astrazione segnica di Klee, si appresta a scardinare i margini della cultura elitaria e selettiva per giungere ad un pubblico più vasto.
La popolarità e il riconoscimento internazionale, raggiunti grazie al suo talento grafico, rappresentarono per Haring la possibilità di viaggiare, invitato dagli artisti più celebri o dai galleristi più rinomati, tra cui Leo Castelli e Lucio Amelio, e di conoscere, nelle frenetiche notti vissute nella Grande Mela, le icone pop Madonna e Andy Warhol. Tra i suoi viaggi, ricordiamo il breve soggiorno pisano nel 1989, che ci ha lasciato in dote il bellissimo murale intitolato Tuttomondo. Il lavoro di Pisa nacque per caso: lo stesso Keith ha raccontato della sera in cui, passeggiando tra le strade newyorkesi, incontrò due italiani, grandi ammiratori della sua arte, e del loro invito a soggiornare nel Belpaese. Per la grande opera fu scelto un posto insolito, la parete esterna della chiesa di Sant’Antonio, situata nel cuore del centro storico della città toscana. Tuttomondo, strepitìo di energia e intensità, è testimone silenzioso del periodo in cui nacque: Haring disegnava e dipingeva mentre una folla di gente, giorno dopo giorno, si innamorava dell’opera. Ogni sera che l’artista dedicava alla sua creazione era un’occasione di festa e, per l’inaugurazione, il comune organizzò un enorme evento mediatico, con mastodontici riflettori, ballerini, e migliaia di persone che ballavano sotto l’opera che simboleggiava la Vita. Pensare quella serata è come immaginare un quadro nel quadro, istantanea di un momento di crescita culturale e di apertura artistica. La meraviglia che provò la folla nacque probabilmente dalla grandezza dell’opera incarnata nel suo ideale e dalla sua eccezionalità: il murale raffigura un concatenarsi di stravaganti personaggi nati dal (Tutto) mondo creativo di Haring. Figure dallo stile inconfondibile e dalla semplicità armonica che nella molteplicità delle loro azioni sottendono tutte al fil rouge dell’opera: la felicità, la pace e la vita. I simboli emblematici della creazione sono rappresentati dalla donna che culla un bambino, dall’uomo che con il suo corpo concatenato delinea il simbolo dell’infinito, dall’uomo che sorregge il delfino, proposto in termini simbolici come visione per il futuro dell’umanità e dalla “croce pisana” composta da quattro figure unite. Il ritmo che si percepisce osservando l’opera è scaturito dalle linee vibranti e dai movimenti delle figure che ballano a suon di musica mentre i colori chiari e le tonalità del giallo ocra e dell’azzurro sono chiaramente ripresi dalle tinte degli edifici dei lungarni pisani. Tuttomondo si pone quasi al termine del percorso artistico di Haring: il murale pisano, infatti, è stato realizzato solo un anno prima che Keith morisse, nel 1990, a soli 31 anni; nonostante la malattia, Haring ha sfidato il destino regalando al suo pubblico un’opera che è un inno alla gioia di vivere. La popolarità e il riconoscimento internazionale, raggiunti grazie al suo talento grafico, rappresentarono per Haring la possibilità di viaggiare, invitato dagli artisti più celebri o dai galleristi più rinomati, tra cui Leo Castelli e Lucio Amelio, e di conoscere, nelle frenetiche notti vissute nella Grande Mela, le icone pop Madonna e Andy Warhol. Tra i suoi viaggi, ricordiamo il breve soggiorno pisano nel 1989, che ci ha lasciato in dote il bellissimo murale intitolato Tuttomondo. Il lavoro di Pisa nacque per caso: lo stesso Keith ha raccontato della sera in cui, passeggiando tra le strade newyorkesi, incontrò due italiani, grandi ammiratori della sua arte, e del loro invito a soggiornare nel Belpaese. Per la grande opera fu scelto un posto insolito, la parete esterna della chiesa di Sant’Antonio, situata nel cuore del centro storico della città toscana. Tuttomondo, strepitìo di energia e intensità, è testimone silenzioso del periodo in cui nacque: Haring disegnava e dipingeva mentre una folla di gente, giorno dopo giorno, si innamorava dell’opera. Ogni sera che l’artista dedicava alla sua creazione era un’occasione di festa e, per l’inaugurazione, il comune organizzò un enorme evento mediatico, con mastodontici riflettori, ballerini, e migliaia di persone che ballavano sotto l’opera che simboleggiava la Vita. Pensare quella serata è come immaginare un quadro nel quadro, istantanea di un momento di crescita culturale e di apertura artistica. La meraviglia che provò la folla nacque probabilmente dalla grandezza dell’opera incarnata nel suo ideale e dalla sua eccezionalità: il murale raffigura un concatenarsi di stravaganti personaggi nati dal (Tutto) mondo creativo di Haring. Figure dallo stile inconfondibile e dalla semplicità armonica che nella molteplicità delle loro azioni sottendono tutte al fil rouge dell’opera: la felicità, la pace e la vita. I simboli emblematici della creazione sono rappresentati dalla donna che culla un bambino, dall’uomo che con il suo corpo concatenato delinea il simbolo dell’infinito, dall’uomo che sorregge il delfino, proposto in termini simbolici come visione per il futuro dell’umanità e dalla “croce pisana” composta da quattro figure unite. Il ritmo che si percepisce osservando l’opera è scaturito dalle linee vibranti e dai movimenti delle figure che ballano a suon di musica mentre i colori chiari e le tonalità del giallo ocra e dell’azzurro sono chiaramente ripresi dalle tinte degli edifici dei lungarni pisani. Tuttomondo si pone quasi al termine del percorso artistico di Haring: il murale pisano, infatti, è stato realizzato solo un anno prima che Keith morisse, nel 1990, a soli 31 anni; nonostante la malattia, Haring ha sfidato il destino regalando al suo pubblico un’opera che è un inno alla gioia di vivere.