Due esposizioni originali, due sfide che invitano il pubblico a riflettere anche in modo provocatorio come ha sottolineato Lorenzo Giusti, Direttore della Gamec e curatore dell’installazione a Palazzo della Ragione.
Fino al 16 ottobre 2022 ANRI SALA TRANSFIGURED, a cura di Lorenzo Giusti e Sara Fumagalli, al Palazzo della Ragione, nella Sala delle Capriate a Bergamo Alta, occupa la scena con un’installazione potente di grande suggestione. Artista albanese di Tirana, classe 1974, un’esperienza da vicino della guerra e una notorietà consolidata, porta la sua più recente installazione audio-visiva, Time No Longer, con l’impegno – richiesto dagli organizzatori – di sintonizzarsi con la storia del luogo, gli affreschi rinascimentali che trasudano una stratificazione umana. L’effetto è profondamente coinvolgente anche per il contrasto tra la piazza ridente, lo scorcio della cupola del Duomo barocco, ricchissimo, e il buio avvolgente dal quale emerge con improvvisi chiarori, l’opera dell’artista. Riaffermando
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una modalità operativa già sperimentata in altre occasioni, Sala ha interpretato il contesto architettonico del Palazzo della Ragione “non come un semplice contenitore, ma come un organo attivo”. Per l’artista ogni spazio fisico può portare con sé valori e memorie che, di volta in volta, l’interazione con l’opera d’arte può riattivare. Nel caso della Sala delle Capriate tale dinamica trova un ulteriore sviluppo –una sorta di amplificazione dell’effetto – in relazione alla storia secolare dell’edificio – il primo Palazzo Comunale d’Italia, trasformato in Palazzo di Giustizia con l’avvento della Repubblica di Venezia – e agli antichi affreschi in esso contenuti. Un giradischi galleggiante, proiettato su uno schermo flottante lungo 16 metri e ancorato al solo cavo elettrico di alimentazione, in una stazione spaziale riproduce un arrangiamento di Quartet for the End of Time, una composizione realizzata dal musicista francese Olivier Messiaen (1908-1992) durante la sua prigionia in un campo tedesco – fu catturato a Verdun – e presentata nel 1941, insieme a tre musicisti anch’essi reclusi, davanti a un pubblico di soli detenuti e guardie. Alla composizione fa eco il sassofono di Ronald McNair, uno dei
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primi astronauti neri ad aver raggiunto lo spazio, nel 1986, e allo stesso tempo sassofonista professionista di talento, aveva pianificato di suonare e registrare un assolo a bordo dello Space Shuttle Challenger. Questo sarebbe stato il primo brano musicale originale registrato nello spazio se il veicolo spaziale non si fosse disintegrato pochi secondi dopo il decollo, uccidendo tragicamente tutti gli astronauti a bordo. Gioiello tecnologico, lo shuttle si manifesta nella sua tragica fragilità evocando la vulnerabilità della condizione di prigioniero di Messiaen. In particolare, per la realizzazione dell’installazione, Sala si è ispirato all’unico movimento solista del quartetto, The Abyss of the Birds, scritto per clarinetto e suonato dal commilitone e musicista algerino Henri Akoka. Alla dimensione di solitudine e costrizione del clarinetto di Henri Akoka, fa eco appunto la suggestiva storia del sassofono di Ronald McNair. Con la collaborazione del musicista André Vida e del sound designer Olivier Goinard, Anri Sala crea così un duetto fra due voci strumentali: una performance senza performer dove il clarinetto, a tratti, si confonde con il sassofono, unendo due momenti distanti nella storia e nel tempo, ma accomunati da un senso profondo di solitudine e allo stesso tempo di determinazione e volontà. La composizione musicale costituisce una colonna sonora dell’intenzione, alludendo alla registrazione pianificata ma mai realizzata da McNair. Il gioco dei rimandi è forte e crea un’amplificazione creativa. Nella sala il buio è interrotto a tratti da bagliori di luce provenienti da alcune lampade posizionate sul retro dello schermo che, seguendo il ritmo della musica, illuminano la sala e, insieme a essa, i dipinti e gli affreschi disposti sulle pareti. I personaggi ritratti–tra cui la Vergine Maria e i Santi patroni della città Alessandro e Vincenzo, così come la figura della Giustizia, e in particolare i quattro angeli musici che, intenti a suonare i loro strumenti (una viola, una cornetta, un flauto e un organo), sembrano dialogare con i quattro musicisti di Quartet for the End of Time – si fanno così testimoni di un’umanità scomparsa, collegando temporalità diverse che attraversano il passato, il presente, e il futuro. Alla deriva nello spazio infinito, mentre si susseguono 16 albe e 16 tramonti, il giradischi trova in questo modo una maniera per rimanere ancorato al tempo e alla storia, per quanto anch’esso prigioniero della propria solitudine, come McNair e Messiaen. In occasione della mostra di Anri Sala sarà pubblicato il primo volume di una nuova collana di saggi, edita da NERO e GAMeC, legata ai progetti espositivi realizzati per il Palazzo della Ragione di Bergamo. Autore del primo saggio sarà il filosofo e musicologo francese Peter Szendy. Nelle opere di Anri Sala la temporalità genera continui cambiamenti a partire dalle molteplici relazioni tra immagine, architettura e suono, che l’artista utilizza come elementi per piegare, capovolgere e mettere in discussione le esperienze dello spettatore. La sua ricerca indaga le fratture nell’ambito del linguaggio, della sintassi e della musica, favorendo dislocazioni creative che generano nuove interpretazioni della storia e soppiantando vecchie finzioni e narrazioni con dialoghi meno espliciti e più equilibrati. Il suo lavoro è stato oggetto di mostre personali nelle seguenti istituzioni: Kunsthaus Bregenz(2021); Buffalo Bayou Park Cistern, Houston (2021); Centro Botìn, Santander (2019); Mudam,Lussemburgo (2019); Castello di Rivoli, Torino (2019); Museo Tamayo, Mexico City (2017);New Museum, New York (2016); Haus der Kunst, Monaco (2014); Centre Pompidou, Parigi(2012); Serpentine Gallery, Londra (2011); Museum of Contemporary Art North Miami (2008); ARC, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris (2004).Ha partecipato a importanti mostre collettive e biennali a livello internazionale, tra cui la Cinquantasettesima Biennale di Venezia (2017), documenta (13) (2012), la Ventinovesima Biennale di San Paolo (2010), la Seconda Biennale d’arte contemporanea di Mosca (2007) e la Quarta Biennale di Berlino (2006).Nel 2013 ha rappresentato la Francia alla Cinquantacinquesima Biennale di Venezia.
Fino al 25 settembre 2022 CHRISTIAN FROSI LA STANZA VUOTA a cura di Nicola Ricciardi è di scena alla GAMeC che presenta la prima esposizione museale del lavoro di Christian Frosi, milanese, classe 1973, a dieci anni dal suo ritiro dal mondo dell’arte. Una mostra che come ha sottolineato il Direttore Giusti nasce come una scommessa e anche in modo anomalo per tanti aspetti facendo luce su una vicenda umana e artistica singolare, cercando di mantenere la più grande discrezione; tanto che l’artista prima dell’inaugurazione per la stampa è stato invitato a vedere l’esposizione con il rischio che potesse non essere gradita. Il percorso espositivo presenta per la prima volta insieme oltre 30 opere realizzate in poco più di dieci anni di attività: lavori diventati iconici, come la nuvola di schiuma prodotta per la prima personale a Milano (Foam, 2003) e altri meno conosciuti, tutti costruiti attorno a principi di precarietà, fuggevolezza, evanescenza, elementi costanti della sua produzione.
L’inizio del percorso di Frosi è facilmente documentabile e coincide con la conclusione degli studi a Brera nel 1999 in una generazione che ha dato nomi importanti all’interno di un gruppo di studenti tra i quali tutti hanno concordato nell’intravedere in Frosi una scintilla. Nel 2003 realizza la prima personale ed è subito un successo ma nel giro di dieci anni, proprio quando avrebbe dovuto consolidarsi la sua carriera, diventando un artista storicizzato, comincia il processo di smaterializzazione di Frosi. Dopo essere stato molto presente nel mondo dell’arte passano dieci lunghi anni di silenzio che per il curatore della mostra diventano uno stimolo per una ricerca approfondita che a luglio darà vita alla prima pubblicazione monografica sull’artista, edita da Lenz Press e GAMeC, che inquadra il lavoro di Christian Frosi in relazione alle vicende umane e artistiche di altri celebri dropout degli ultimi cinquant’anni: da Marcel Duchamp ad Agnes Martin, da Lee Lozano a Charlotte Posenenske.
La domanda che ci si può porre è perché parlare di un artista che ha scelto di sottrarsi alla storia dell’arte. L’idea dei promotori della mostra è di salvare dall’oblio il suo lavoro e di valorizzare un momento della storia dell’arte contemporanea italiana. L’esposizione parte dal 2007 e dalla ricostruzione di una mostra allestita alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino e curata dal Direttore artistico Francesco Bonami che da tutti è considerata la sua mostra di maggior successo. Ricostruita abbastanza fedelmente la centro della grande sala La duna, grande installazione con un dirigibile che può essere azionato e posizionata nello Spazio Zero della Gamec. Nella sala attigua video e testimonianze della mostra che fu allestita alla Galleria Spazio Zero, nata a Piacenza nel 2002 e l’anno successivo spostata a Milano dove furono esposti solo tre lavori tra cui una macchina che produceva schiuma posizionata sulla terrazza della Galleria. L’idea del non controllo e di una parte involontaria degli esiti del lavoro come in quel caso la spuma che scendeva dal terrazzo esprime bene quel senso di bilico sul quale lavora Frosi. Tra le opere in mostra anche un treppiedi con una coperta termica che assume un aspetto zoomorfico e per certi versi antropomorfico e che nel corso dell’esposizione sarà cambiato di posto diventando a sua volta una sorta di spettatore e non solo di opera. La mostra continua poi con una scansione cronologica che evidenzia la data importante del 2005 quando Frosi compirà una serie di viaggi in particolare in Francia restituendo immagini fotografiche e video senza una vera compiutezza. In questo periodo comincia ad esporre a Berlino, Lubiana, Amburgo, sempre in galleria importanti. Vivrà un momento di accelerazione rispetto a molte richieste e committenze e comincia a lavorare su opere performative che cambiamo nel corso di una stessa mostra, così ad esempio l’artista si diverte a dare istruzioni per sistemare un’opera in ben nove diverse posizioni. In una serie di lavori emerge l’idea di riproduzione di oggetti comuni di fatto però inutilizzabili come mensole o di non funzionalità che accompagna la ricerca di questo artista. Il percorso prosegue con il 2006 quando diventano ricorrenti alcuni oggetti come le foglie, il linguaggio antropomorfo che veste oggetti comuni in tal senso e la presenza costante di elementi incompiuti, Nel 2008 sarà poi la volta di una mostra completamente slegata dalla produzione nella quale presenta poche opere come un sacchetto abbandonato con due pacchi di riso e due succhi di frutta o una cariola riscaldata da una fiamma ossidrica che però scalda inutilmente un cassone vuoto. Allo stesso modo smonta tutte le lampade della galleria Zero che adagia su una sorta di letto. Il tema del bilico è sempre più presente come ne Le biforcazioni del 2009 quando, come ha rilevato il curatore, siamo al bivio tra il bufalo e la locomotiva per dirla con Francesco De Gregori e Frosi sembra sempre più dalla parte del bufalo. È un momento di successo quando il Guardian gli dedica un articolo nel quale è espresso tutto il favore del mercato e dei galleristi di peso della scena internazionale. Eppure cerca di sottrarsi al ruolo autoriale così come nel lavoro con Diego Perrone che non dà luogo a un collettivo, a un duo, non diventando funzionale alla produzione di un ‘oggetto’ quanto a un’esperienza di ricerca di per sé. Il risultato sarà un viaggio in trenta città italiane tra cui la stessa Bergamo dove esporrà per la prima edizione di ArtDate nell’Area Youth Edonè, dei giardini, uscendo così gradualmente dalle accademie e dagli spazi convenzionali delle gallerie.
Questa fuga è resa ancora più evidente dalle opere del 2012 con uno sgabello rovesciato e un occhio che appare all’interno di una spirale come una sorta di buco nero. La metafora della sottrazione è sempre più evidente e l’abbandono della scena sembra definitivo. Le sue ultime tappe professionali sono, a partire dal2012, sempre meno rintracciabili. Da quell’anno, seppur non ci sia un momento preciso, Christian Frosi smette di essere un artista: sceglie di non produrre, di non partecipare, di sottrarsi alla storia dell’arte, alle sue circostanze e ai suoi attori. Frosi si è lentamente e inesorabilmente reso irraggiungibile, troncando qualsiasi comunicazione con il mondo dell’arte, unendosi, senza una ragione evidente, alla schiera dei dropout, di coloro che, nella definizione di Alexander Koch, “in un determinato momento X sono stati localizzabili nel campo dell’arte e in un momento Y, successivo nel tempo, non lo sono stati più”. Il momento X di Frosi coincide con numerose mostre personali sia in Italia sia all’estero e con la partecipazione ad alcune delle collettive che hanno finito per definire gli artisti italiani della sua generazione: dalla prima Triennale di Torino, a cura di Francesco Bonami e Carolyn Christov-Bakargiev (2005), a Sindrome Italiana, la jeune création artistique italienne al Magasin-Centre National d’Art contemporain di Grenoble (2010), fino a Fuoriclasse, la mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Milano curata da Luca Cerizza e dedicata agli allievi di Alberto Garutti. Il momento Y, invece, coincide col giorno d’oggi.
Forse, come ha ben sottolineato la critica, Frosi è un artista del futuro, che nel tempo sarà più facilmente capito e decifrato. La presentazione alla Gamec è un modo per avvicinare al contemporaneo un pubblico non di addetti ai lavori in un modo a mio parere certamente non facile e forse non empatico, sollecitando però domande che è forse l’emozione più importante che l’arte può offrire almeno quella a noi vicino.
Per i suoi 30 anni la Gamec espone anche la Collezione permanente 3.0 con una selezione in continua evoluzione, che può cambiare di settimana in settimana.
a cura di Ilaria Guidantoni