Due debutti in prima nazionale nelle sale milanesi: dai ricordi nostalgici di Saverio La Ruina in Via del Popolo alla riscrittura di Hedda Gabler a cura di Liv Ferracchiati: un nuovo testo che ci parla a cuore aperto di un recente passato e un celebre dramma che è emblema dell’ottocento.
Sin dai primi anni del nuovo secolo si è imposto all’attenzione di critici e pubblico come uno dei più brillanti esponenti del teatro di narrazione: Saverio La Ruina, orgogliosamente calabrese, ha suscitato empatiche emozioni con lo splendido ritratto femminile di Dissonorata che ha, come sempre, scritto, diretto e interpretato calandosi nei panni, anche concretamente ma senza alcun vezzo dell’attore en travesti, di Pascalina, donna del nostro sud negli anni settanta che, non più giovanissima, desidera convolare a nozze e, convinta dalla promessa di matrimonio fattale dal partner, infrange il tabù del sesso prima dell’unione in chiesa, ma rimane incinta e viene da questi subito ripudiata: per la famiglia un’onta insopportabile da punire con la morte e la decisione di bruciarla viva. Questa tematica viene approfondita nel successivo La Borto, storia raccontata da Vittoria in prima persona che è specchio di un’amarissima realtà su quanto una donna del meridione, ma non solo, possa essere condizionata dal potere maschile che domina ancora una società di stampo patriarcale anche nella scelta o nel rifiuto della maternità, mettendo spesso a repentaglio la propria vita. Non solo di violenza di genere di natura fisica si occupa l’autore ma anche di quella psicologica: in Polvere mette in luce i sottili ma terribili – senza arrivare al femminicidio – meccanismi di sopraffazione operati dal maschio nei confronti della compagna: qui per una volta La Ruina non è più solo in scena ma ha accanto Jo Lattari prima e Cecilia Foti poi. Un’altra piaga sociale sulla quale non ha fatto mancare il suo contributo è quella dell’omofobia: ecco che con Masculo e fiammina ci conduce per mano nella toccante vicenda di Peppino, chino sulla tomba della madre per confessarle quanto non aveva osato fare prima e cioè la sua omosessualità, scoperta sin da ragazzo e, nel corso degli anni, ostracizzata dalla chiesa e, ahimè, anche dalla stessa sinistra che ha impiegato troppo a lungo nel
fare ammenda e mettersi al passo con i tempi. Ci racconta del suo primo amore, quello con Angelo, finito con la decisione, purtroppo ancora comune a molti, di quest’ultimo di sposarsi per non rischiare di finire nello stigma dell’emarginazione sociale. Ben più drammatica è la storia con Alfredo, conosciuto e amato in vacanza a Riccione: appartatisi in macchina, i due vengono selvaggiamente aggrediti a bastonate e il giovane ci rimette la vita. A Peppino, terrorizzato, non resta che abbandonare sul posto il corpo dell’amico e tornarsene al paese in Calabria; quando troverà il coraggio di cercare a Treviso la famiglia di Alfredo, il suo racconto dei fatti verrà accolto con fastidio e volontà di rimozione.
L’indagine di La Ruina è proseguita con lo sguardo sulla storia del primo dopoguerra ed è nato Italianesi che racconta le vicende dei soldati e civili italiani internati nei campi di lavoro in Albania dove rimasero di fatto prigionieri per oltre 40 anni. Tonino, figlio di un milite italiano poi rimpatriato, cresce con la madre single nel campo e sposa Selma, la nipote dei custodi. Caduto il regime comunista, decide di tornare in Italia per conoscere finalmente il padre che lo accoglie con suprema freddezza e indifferenza. Lo stesso trattamento gli riservano i compaesani, considerandolo con disprezzo un “albanese” dopo che era stato per tutta la vita vilipeso ed emarginato in quanto “italiano”. L’emigrazione e il conflitto tra diverse culture e religioni ai nostri tempi è al centro del controverso e travagliato Mario e Saleh del 2019, diventato due anni dopo Saverio e Chadli vs Mario e Saleh, dove un occidentale cristiano (Saverio) si confronta con un arabo musulmano, esponente dell’Islam di seconda generazione (l’attore palermitano di origini magrebine Chadli Aloui a cui è poi subentrato Alex Cendron), nel corso di una sofferta convivenza in una tenda dove sono stati costretti a riparare in conseguenza di un terremoto. Abbiamo parlato di questi lavori, tutti prodotti da Scena Verticale, la compagnia fondata nel 1992 da La Ruina e Dario De Luca, a cui si è aggiunta la preziosa organizzazione di Settimio Pisano, perché giustamente circuitano ancora nei teatri di tutta Italia, gratificati da innumerevoli premi, tradotti e rappresentati anche all’estero. Questa triade ha avuto anche il merito e il coraggio, in una regione difficile come la Calabria, di far nascere nel 1999 il Festival Primavera dei Teatri con sede a Castrovillari, diventato in pochi anni una vetrina e trampolino delle più interessanti novità del Nuovo Teatro. Proprio nella piccola città in provincia di Cosenza, al centro del parco nazionale del Pollino, è ambientata l’ultima creazione del drammaturgo/regista/attore, Via del Popolo, il luogo dove lui è cresciuto dopo che, quando aveva sei anni, la famiglia ha lasciato la campagna per trasferirvisi, aprendo il bar Rio. “Con mio fratello ero il più giovane camerierino d’Italia – racconta La Ruina – e la via era abitata da una serie di negozi: un ristorante, tre alimentari, due sartorie, una macelleria, una calzoleria, una merceria e il cinema Ariston. Per percorrere i 200 metri di via del Popolo allora ci volevano 30 minuti, oggi ne bastano 2: quel mondo non esiste più, annientato dal passaggio dalla micro alla macroeconomia, uno dei tanti effetti della globalizzazione. Ai negozi sono subentrati i centri commerciali e la fine della vendita al dettaglio ha portato via posti di lavoro, distruggendo un modello sociale ancora basato sulle relazioni interpersonali. Via del Popolo è la narrazione dell’appartenenza a un luogo, a una famiglia, a una comunità.”
A quella comunità è dedicata la pièce che all’inizio vede in scena, irradiata da un serie di lumi bianchi e una enorme riproduzione di uno degli orologi sciolti di Salvador Dalì, l’autore durante una visita al cimitero, accompagnato dal compaesano soprannominato 30 minuti. In una sorta di nostalgica ma anche esilarante Spoon River, datata tra dagli anni sessanta e gli ottanta, si commentano, ora severamente, ora benevolmente, i ritratti sulle lapidi che risvegliano prima i ricordi dell’infanzia, come la conquista delle agognate pastarelle da parte da alcuni bambini che s’imbucano nelle feste di nozze. Menzionando i titolari dei negozi, si susseguono i loro sapidi ritratti: c’è l’elettricista Giannino che, solo con il suo tocco magico e senza bisogno di alcun attrezzo, riesce a riparare il televisore guasto, salvando così la visione della puntata di Rischiatutto, Tonino il macellaio, sulla porta con il sigaro e il grembiule sporco di sangue, Pino dell’omonimo ristorante, Mastu Giovannu, il sarto, poi Simone, bigliettaio del cinema, e il dottor Schwarz, ebreo ungherese salvatosi dalla deportazione, vero ed empatico taumaturgo. Rimangono impressi nella memoria le figure del padre di Saverio, Vincenzo, fiero e severo nel suo ruolo di genitore e gestore del bar, quella della mamma Filomena, con la sua fede cieca nelle fleboclisi, e dello zio Nicola, finito in manicomio. Sono tutte legate da un impalpabile velo di poesia che riesce a veicolare sensazioni e sentimenti che rimandano a una sensibilità non comune, come nel ricordo del protagonista ragazzino quando, in visita allo zio all’ospedale psichiatrico con i genitori che chiedono udienza al direttore, teme di venir lui stesso considerato malato e quindi rinchiuso. Abbiamo ritrovato Saverio La Ruina nella sua vena più felice, alle prese con il materiale umano che gli è più congeniale e che sa affabulare con maestria. Con la collaborazione alla regia di Cecilia Foti e il disegno luci di Dario De Luca, Via del Popolo rimane in scena al teatro Menotti di Milano sino all’11 dicembre. Poi in tournée al Tremestieri di Messina (20/12), Goldoni di Firenze (22/12), Vittoria di Castrovillari (27/12), Basilica di Roma (dal 12 al 15 gennaio) e al teatro Dell’Albero di San Lorenzo al Mare (IM) il 29 aprile.
Con la compagnia The Baby Walk e La Trilogia sull’Identità (Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater e Un eschimese in Amazzonia) Liv Ferracchiati si è imposto come autore, regista e interprete delle sue creazioni, toccando i tasti spinosi della tematica di genere con ricorrenti note autobiografiche, forte di una scrittura che travalica i confini dell’attualità o dei limiti didascalici per sconfinare nell’immaginario e nel surreale. In questo suo primo, riuscito ed apprezzato, approccio drammaturgico si era in particolare posto l’intento di mettere sotto processo i modelli precostituiti e l’identità fittizia che la società ci fa spesso assumere e la necessità da parte nostra di sentirci consapevoli di vivere entro schemi da cui talvolta sarebbe bene liberarsi. Nell’incontro più recente con il Platonov di Cechov, sottotitolato La tragedia è finita, Ferracchiati ha cominciato a sperimentare la pratica dell’autofinzione che all’inizio di questa stagione abbiamo trovato in ben tre spettacoli del franco/uruguaiano Sergio Blanco nel cartellone del Festival Presente Indicativo al Piccolo Teatro. E’ una tecnica narrativa attraverso cui si trasformano in finzione parti del proprio vissuto, una sorta di ingegneria dell’io che è invenzione e reinvenzione di sé. Dopo Cechov l’artista si è avvicinato a Ibsen: “Con il primo andrei a prendere un aperitivo, mentre Ibsen incute timore, gli darei del Lei – ha affermato – gli parlerei osservando i suoi modi e i suoi comportamenti con curiosità. Mi colpisce ritrovare in tutti i suoi drammi un tema ricorrente, ossia la lacerazione tra la vocazione e il dovere, tra il dionisiaco e l’apollineo. La sua biografia restituisce l’immagine di un uomo metodico e abitudinario: sceglie una compagna che possa aiutarlo a seguire la precisa routine che si è imposto, per lui indispensabile, perché probabilmente senza quel rigore avrebbe una personalità destinata a debordare. Alla fine del suo percorso mi pare che sempre più rinunci al vivere il reale per rifugiarsi nell’arte: forse è un modo per trovare una sorta di equilibrio e di contenimento della propria natura. Credo che di Ibsen mi interessi questo.”
E’ questo rinnovato interesse che l’ha spinto a confrontarsi con una delle sue più celebri opere, Hedda Gabler, che però Ferracchiati, anche regista e interprete, ha in gran parte riscritto mutandone il titolo in Hedda.Gabler. come una pistola carica e utilizzando la nuova traduzione di Andrea Meregalli. Un’altra innovazione nella sua lettura è quella di inserirvi Irene, un personaggio presente in un altro dramma dell’autore norvegese, Quando noi morti ci destiamo. Nota è la trama: Hedda, giovane donna fredda e cinica, figlia di un generale, ha sposato per interesse Tesman, un pacato studioso, ma si dimostra subito insofferente al tipo di vita matrimoniale tranquillo ma tedioso a cui il marito la vorrebbe contenere. In passato aveva amato l’intellettuale Lovborg che all’improvviso ricompare in città. Il ritorno dell’uomo, che vive al di sopra delle convenzioni sociali, concedendosi i piaceri del sesso e dell’alcol, contribuisce ad alimentare le sue inquietudini. Ora lui vive con Thea, amante e musa ispiratrice, e insieme hanno scritto un libro che si annuncia decisivo per le sorti dell’umanità. Il manoscritto finisce nelle mani di Hedda che lo distrugge e, sfruttando crudelmente la disperazione e debolezza dell’autore, lo
induce al suicidio, facendoglielo intendere come atto eroico di autoaffermazione. Una volta appreso però che Thea ha conservato tutti gli appunti e che Tesman si offre in suo aiuto per ricomporre lo scritto, la donna, ricattata dal giudice Brack che ha nel frattempo scoperto la verità e la vorrebbe come amante, pur sapendosi in attesa di un bambino, rivolge contro se stessa una delle pistole del padre e si spara un colpo fatale. Mettendo giustamente in discussione la figura di Hedda intesa da alcuni come protofemminista – a differenza di Nora di Casa di bambola che lo è – questa lettura punta sull’incapacità o non volontà della protagonista di essere né moglie né madre: la vera pistola carica è lei stessa. Al plot principale s’intrecciano le entrate e le uscite degli attori dai loro personaggi, ognuno con una sua peculiarità, rivendicando il desiderio di avere più spazio dalla regia e mettendo il pubblico a parte del proprio vissuto. Lo fa anche il regista (nel ruolo del tormentato Lovborg) che ricorda la sua storia d’amore con Marina, colma di tenerezza ma anche di spunti ricchi di umorismo e autoironia che Ferracchiati sa bene amministrare. Da lodare tutti gli interpreti, motivati a fare gioco di squadra in un’impresa rischiosa: da Petra Valentini (Hedda), a Francesco Alberici (Tesman), Renata Palminiello (sua zia), Alice Spisa (Thea), Antonio Zavatteri (giudice Brack) e Giulia Mazzarino (Irene). Originali le scene cartonate di Giuseppe Stellato che riproducono un semovente salotto borghese, costumi fedeli all’epoca di fine ottocento e musiche che spaziano da una composizione del pianista franco-candese Chilly Gonzales, ai Beatles di And I Love Her rivisitata da Santo & Johnny sino a Mambo di Lucio Dalla, suonata al piano da Giulia Mazzarino.
Hedda.Gabler. come una pistola carica, produzione del Piccolo Teatro e prima regia di Liv Ferracchiati in qualità di artista associato, è in scena al teatro Studio Melato sino al 22 dicembre.
a cura di Mario Cervio Gualersi