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Ci addentriamo nelle impervie tematiche del genere e della transizione con L’appuntamento, una pièce dal forte impatto emotivo, e passiamo poi a considerare gioie e tristezze della terza età con il ritorno in scena dello spettacolo cult Gardenia. “Trasgressivo, dissacrante, divertente”. Questo il commento del New Yorker all’uscita di Un cazzo ebreo della giovane scrittrice tedesca Katharina Volckmer (pubblicato nel 2021 da La nave di Teseo con la traduzione di Chiara Spaziani). Non tragga in inganno il titolo: non si tratta di una vicenda a luci rosse in cui al centro troneggia il sesso, bensì un tracimante “stream of consciuosness”, molto simile a quello di Molly Bloom nell’Ulisse di Joyce, che la protagonista riversa su un muto interlocutore, forse un chirurgo che si appresta a una difficile operazione. Il testo ha affascinato il regista Fabio Cherstich (già uso a sfide complesse come quella nei confronti di Alejandro Jodorowsky per Opera panica – Cabaret nelle quali convergono spesso la sua passione per il design e i linguaggi artistici contemporanei) che, con la collaborazione della stessa autrice, ne ha realizzato un adattamento teatrale dal titolo
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L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo, prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano dove rimane in scena sino al 16 ottobre. “Già alla prima lettura – ricorda Cherstich – ne sono rimasto folgorato: la trama sta sul doppio binario del tema del gender, dell’identità del corpo in transizione, dell’amore e del sesso, ma parla anche di memoria e di identità politica. E’ una scrittura che si pone nel solco della grande letteratura germanica, cinica e ironica: per renderla ho pensato di costruire una performance con molto spazio per le immagini e le arti visive. Ho collocato i due personaggi all’interno di uno spazio mentale: non lo studio di un medico ma un dispositivo visivo in cui attraverso l’uso di lenti traslucide, vetri opalescenti, filtri fotografici, il corpo della protagonista e la sua immagine appaiono al pubblico in una forma mutevole e continuamente trasformabile, fluida e misteriosa.” Dalla pièce non bisogna aspettarsi una progressione razionale ma ci si deve lasciar trasportare dal flusso verbale del personaggio, tuttavia si possono ravvisare due tematiche: quella che i tedeschi chiamano “vergangenheitsbewaltigung” (superamento del passato) ossia l’elaborazione del senso di colpa da parte delle nuove generazioni per i crimini commessi dai nazisti e a questo proposito cita il ricordo di quando bambina era costretta a scuola a cantare in ebraico pur se non c’erano compagni ebrei, giusto per dimostrare di essere stati “denazificati”. “…Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi, istericamente non razzisti in ogni circostanza e pronti a negare qualsiasi differenza, eppure non abbiamo restituito agli ebrei lo status di esseri umani.”
Altro tema ricorrente è quello delle fantasie sessuali, ad esempio l’incontro ravvicinato con Hitler, accaduto in un sogno, ma soprattutto incentrate sul desiderio di possedere un pene, vissuto come simbolo di potere e di piacere. Eccola allora frequentare i bagni pubblici riservati agli uomini dove consumare fugaci rapporti sessuali o sfogliare riviste di nudi maschili. Questo prepotente desiderio di mascolinità ha di certo inficiato l’unica relazione che lei racconta, quella con K, uomo sì ma fragile e sensibile, facile al pianto, quindi lontano dall’ideale di maschio alfa da lei agognato. I due aspetti diventano interdipendenti: la messa in discussione della cultura tedesca (non è un caso che Volckmer scriva in inglese) si associa alla messa in discussione del proprio genere, dell’essere nata femmina. Quello a cui assistiamo è un processo di distruzione del sé che vuole anche sottolineare la complessità e la fluidità del nostro essere, oltre alla riconsiderazione degli stereotipi sul genere, sul sesso, sull’identità religiosa e quella individuale, dove ogni cosa è passibile di essere messa in crisi. Con queste premesse non ci sorprende poi troppo la decisione della protagonista di cambiare sesso e, come primo passo, intraprendere la strada dell’operazione chirurgica. Per affrontare un monologo tanto arduo quanto scabroso era necessaria una performance di altissimo livello ed è proprio quella offerta da Marta Pizzigallo che, alternando al microfono vari registri vocali e usando mirabilmente il corpo (fasciato in una guepiere color carne) a cominciare dal viso oltraggiato dai baffetti hitleriani e poi agli arti in continuo, febbrile, spasmodico movimento, sino al finale, quando immobile e distesa su una panca-lettino operatorio, va incontro a un problematico futuro ma all’insegna del suo credo: “Per capirti hai bisogno di un corpo da amare, altro che di un’anima!”
Accanto a lei, nei panni del silente chirurgo-psicoanalista dottor Seligman siede Riccardo Centimeri; infine è originale e accattivante l’impianto visivo firmato dallo stesso regista, animato dal vivo da Francesco Maisetti. Tante emozioni ricompensate in egual misura dagli applausi del pubblico.
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Dopo il debutto nel 2010 al Teatro NT di Gand, le oltre 200 repliche in un tour mondiale e la nomination nel 2012 ai British Olivier Awards, 10 anni dopo sono ritornate. Parliamo delle drag queen di Gardenia, lo spettacolo, firmato dal regista Frank Van Laecke, dal coreografo Alain Platel (fondatore nel 1984 della celebre compagnia di danza contemporanea Les Ballet C de la B) e dal compositore Steven Prengels, ma nato da un’idea di Vanessa Van Durme, attrice belga con un ruolo di rilievo nell’affermazione dei diritti e per combattere i pregiudizi nei confronti delle persone Lgbtq+, è stato rimontato e torna in scena col titolo Gardenia-10 Years Later. Van Durme si è ispirata al film spagnolo Yo Soi Asì di Sonia Herman Dolz dove la chiusura di un cabaret di drag queen a Barcellona dà l’opportunità di scandagliare le vite private di un gruppo di artisti diventati anziani. “Riprendiamo Gardenia – afferma Platel – perché ci è stato richiesto dagli stessi interpreti. Allo stesso tempo per me e per Frank era interessante vedere come un lavoro così concepito dieci anni fa, potesse sopravvivere in un mondo nel quale la questione del gender è diventata molto attuale e il cambio di sesso è un
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tema assai discusso. La sfida è capire se questi personaggi possono ancora raccontare la loro vera storia oggi. Invecchiati in modo evidente, in scena producono un impatto che ha una forza incredibile. Nel corso della creazione erano presenti giovani attori che hanno seguito il processo artistico: ci hanno detto che per loro è stato toccante vedere questa generazione di persone che hanno debuttato negli anni settanta raccontare oggi la loro storia. Sono rimasti in otto, dopo che Andrea de Laet è mancato e hanno deciso di non sostituirlo: a lui è dedicato un minuto di silenzio all’inizio dello show. Subito dopo li vediamo, con tutti gli impietosi segni della terza età, avanzare lentamente in proscenio con in sottofondo le note di Over the Rainbow: in abiti maschili si presentano al pubblico con i loro nomi da drag queen, sottolineati da maliziosi accenni alle passate abitudini erotiche di ciascuna. Sotto giacche e cravatte – da cui poi si liberano armoniosamente – ci sono però sottovesti sottili e con i corpi esposti senza imbarazzo vanno a formare una serie di tableux vivants mentre scorrono le arie della Traviata, del Bolero
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di Ravel e Alphaville canta Forever Young. A seguire ci sono degli intermezzi comici con le fasi del corteggiamento e le espressioni spesso stereotipate con cui manifestiamo i nostri sentimenti e passioni ma il registro cambia repentinamente e assistiamo alle drammatiche dinamiche dell’attrazione/repulsione e dal lasciarsi per poi riprendersi di cui tante storie d’amore sono costellate, ascoltando Dalida che si alterna a Schubert. Gran finale con tutte che indossano i sontuosi abiti di scena: chi diventa Liza Minnelli, chi Judy Garland o chi, avvolta nel suo mantello d’ermellino, Marlene Dietrich, la cui voce prorompe in Where Have All The Flowers Gone? ma il congedo è, come all’inizio, con Over The Rainbow. Ricorderemo Gardenia non come una mera esibizione en travesti ma come un collage della fluidità di genere, delle gioie e dei dolori dell’invecchiamento e del potere trasformativo dell’arte. Alla vigilia dell’importante anniversario del 50esimo dalla nascita del Teatro Franco Parenti, la direttrice Andrée Ruth Shammah, in collaborazione con la Fondazione Ravasi Garzanti, impegnata nel migliorare le condizioni di vita delle persone anziane, ha scelto questo spettacolo per aprire la rassegna La Grande Età, con l’invito a chiamarla così e non più “terza età”. Ospitato dal Piccolo Teatro sul capiente palcoscenico dello Strehler, lo show ha visto in scena i teneri e autoironici Vanessa Van Durme, Griet Debacker, Richard “Tootsie” Dierick, Danilo Provolo, Gerrit Becker, Dirk Van Vaerenbergh, Rudy Suwyns e l’aitante Hendrick Lebon, l’unico del cast anagraficamente giovane. Dopo il festeggiato passaggio milanese, Gardenia–10 Years Later sarà al teatro Ariosto di Reggio Emilia il 15 e 16 ottobre nell’ambito del Festival Aperto.
a cura di Mario Cervio Gualersi