Fino al 9 ottobre le Gallerie dell’Accademia di Venezia presentano una grande mostra retrospettiva di Anish Kapoor, l’artista britannico, nato a Mumbai, in India, nel 1954 – dagli anni Settanta vive e lavora a Londra – famoso per aver sperimentato i limiti e la materialità del mondo visibile attraverso opere che trascendono la loro oggettività e sollecitano lo spettatore ad interagire emotivamente. Un’altra sede prestigiosa, lo storico Palazzo Manfrin nel sestiere di Cannaregio, completa questa rassegna con un’ulteriore importante selezione di opere di grandi dimensioni e che sfuggono a ogni
definizione tradizionale. La mostra è un percorso mozzafiato, un pugno allo stomaco, giocata sulla forza dirompente del rosso, il silenzio del nero, il senso del vuoto del bianco. All’interno delle Gallerie, che meritano una visita anche per chi le conosce, dato che sono state riallestite e per la prima volta è esposta la collezione del Seicento e Settecento con la pittura di paesaggio, le opere di questo autore sono un’esplosione. Curata dallo storico dell’arte Taco Dibbits, Direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, questa mostra rappresenta l’intera gamma visionaria della pratica di Kapoor, la sua sensibilità pittorica e la sua abilità scultorea. Sono esposti infatti una serie di lavori fondamentali, dalle sculture degli esordi eseguite col pigmento, come 1000 Names, alle opere sul vuoto, fino a sculture mai viste prima create con il Kapoor Black, un materiale nanotecnologico innovativo, una sostanza talmente scura da assorbire più del 99,9% della luce visibile e un effetto da ‘buco nero’. La pelle dell’oggetto come velo tra il mondo interno ed esterno ha
sempre rappresentato un aspetto cruciale nella pratica dell’artista, e qui alle Gallerie dell’Accademia le sculture realizzate con Kapoor Black trasportano questa dinamica in un territorio radicalmente nuovo, in forme che appaiono e scompaiono davanti ai nostri occhi. In queste opere Kapoor ripropone il motivo della piega nella pittura rinascimentale come un segno dell’essere: attraverso la cancellazione del contorno e del bordo ci viene offerta la possibilità di superarlo. Forze misteriose emergono attraverso un’altra serie di opere nere, che penetrano nelle pareti del museo, esplorando ulteriormente l’oscurità come una realtà fisica e psichica. Accanto a queste opere straordinarie si espongono per la prima volta i dipinti più recenti di Kapoor, instaurando un dialogo dinamico sia con la collezione storica d’arte delle Gallerie, sia con il suo stesso linguaggio scultoreo. C’è in quest’esposizione qualcosa di più inquietante e inquieto, non ci sono le grandi superfici lucide, a parte una scultura specchiante posta nel cortile, e ogni lascito
estetico è stato allontanato. Qui si mette al contrario in luce, si getta contro il visitatore la carne macilenta, il sangue che nell’effetto resina diventa corpulento, generando un misto di repulsione attrazione. Il motivo della pelle e della piega viene ulteriormente esplorato attraverso la spettacolare Pregnant White Within Me (2022), un gigantesco rigonfiamento che dilata l’architettura dello spazio espositivo, suggerendo una ridefinizione dei confini tra corpo, edificio ed essere. Kapoor commette vari atti sacrileghi sparando sulle pareti e modificando il tessuto stesso delle Gallerie. Meno interessanti forse le grandi pitture che si trovano all’ingresso perché è nella trimensionalità forte dei volumi che questo autore incide nell’emozione e il suo essere dirompente è forte proprio perché in fondo non è provocatorio. La mostra è organizzata in collaborazione con Anish Kapoor Studio e Lisson Gallery, con il supporto di Galleria Continua, Galleria Massimo Minini, Kamel Mennour, Kukje Gallery, Regen Projects e SCAI The Bathhous, con il sostegno di LG OLED; ed è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio con saggi di Gil Andijar; Homi K.Bhabha; Linda Borean; Giuseppe Civitarese; Mario Codognato; Waldemar Januszczak; Norman Rosenthal; Carlo Rovelli e Michele Tavola.
a cura di Ilaria Guidantoni