L’arte è: cosa? Un colera dell’essere che sospinge la vita oltre se stessa, forse la ritrae o solleva al suo super-io, un modello furbescamente altro, emotivamente straniero, oppure… Io non lo so, Teresa, cos’è questa cosa viscerale, antica, tremebonda come un capillare che vibra d’oltre-mondo, io non lo so che cos’è quest’alterità, questa quasi alternativa al reale, questa sussunzione della trascendenza che dà forma alla mia estraneità. Tu lo sai, forse? Tu che sei opera d’arte di un Dio, tu che sei fatta di trascendenza, prima che l’immanenza ti plasmi e rovini. Abbazie gotiche diroccate: ecco la verità che ci resta al trapasso dell’adolescenza e prima del grande, ultimo e beffardo, trapasso della morte. Solo rovine di un’arte cattedrale, pre e post umana, il pennello di un Essere Supremo che prima ci forgia, poi ci cancella. E in quest’adesso che viviamo, segmentato in passato, presente e futuro, cos’è il furore artistico, se non un atto ribelle contro Dio, contro la vita, contro noi stessi? Io piango sangue perché non c’è mare che mi appartenga più di quello che ho dentro. Rosso. Come un fuoco che arde chi lo introietta o gelosamente trattiene, e riscalda invece chi lo rifiuta, chi lo tiene fuori da sé a bruciare, per dividere le sue fiamme dall’acqua delle lacrime. Io ricordo poco delle cose, Teresa. Mi passano davanti e non ne colgo che un odore sintetico che mi si appiccica addosso. È forse questa l’arte, la mia arte, che conforta ogni veglia e intiepidisce il mio sonno? Che dico: lo arde in sogni impossibili che durano ben oltre la luce. La razionalità che ci popola e censisce (Chi è sociale? Non certo io. Io sono sottrazione alla somma degli uomini.) ti risponderà che arte è divertissement, sovrastruttura, un in più dell’essere, artificio che scoppia nel cielo e si fa ammirare come si ammira un orpello. Ma io ti dico che è un antidoto irrinunciabile, che è vita sulla vita, verità trafitta sulla carta menzognera dei volti. Veleno per il veleno della rassegnazione, ma farmaco risolutivo per l’esule mai rassegnato. Lo straniero, Teresa, è malato, ma della sua indifferenza, un’immunità che lo cura e deprime. Di veleno si ciba la patria, lo straniero viene da fuori per emigrare ancora succhiando tenacia, la resistenza è il suo pasto e il suo fato. C’è solo una strada, che scavalla i campi di grano, sotto i corvi cinerei. Uno sterrato che la luce lunare percorre e aiuta a fuggire. La strada fugge la sua direzione per ritrovarla. L’arte ci fa ripetere i gesti, emigrare e riemigrare, per chissà quante volte, come rondini alla ricerca di un nido. Questo ciclo perpetuo di eterni ritorni prevede eterne partenze e non ha altro senso se non quello di trovare una tana nel sangue, una casa, un’identità sovrumana ed eterea. Migliorarsi, in definitiva: quel che manca ad un uomo è proprio l’uomo che può diventare. Si ricerca, in fondo, solo ciò che si è perduto. Come una fenice che rinasce dalla sua cenere.
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Bernardo Giusti, nato a Firenze nel 1990, giovane speranza tra i romanzieri italiani ha pubblicato recentemente “Bivium” Edizioni Masso delle Fate. Teresa non è ancora nata e Bernardo Giusti ha scelto Bebeez per condividere l’attesa.