Al Piccolo Teatro Grassi di Milano, dal 24 febbraio scorso in prima nazionale al 6 marzo, il testo di Stefano Massini, con Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon per la regia di Mauro Avogadro, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile del Veneto.
L’atto unico di Stefano Massini è diretto da Mauro Avogadro e vede in scena, nei panni di Hannah Arendt e Adolf Eichmann, rispettivamente Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon.
Il nuovo atto unico di Stefano Massini porta in scena lo scontro immaginario tra Hannah Arendt e Adolf Eichmann, una sorta di processo non tanto accusatorio quanto informativo. Sul filo di un’ironia profonda e per questo atroce la banalità del male, per utilizzare il titolo del testo della Arendt, emerge in un senso nuovo e psicologicamente toccante. Non è tanto un processo alla moralità quanto alla storia che Ottavia Piccolo conduce in modo mirabile dopo la prova, anni fa, di Processo a Dio. Testo conciso, incisivo e denso, che merita di essere letto. La scena è scarna quanto basta, avvolta da un nero grigio con un tavolo al centro e postazioni simmetriche a lato, rispettivamente la divisa con la svastica e il cappotto con la stella di Davide gialla e il pigiama a righe, simbolo dell’olocausto. I due attori si fronteggiano e non sono più il bene contro il male, il mondo del nazismo e il popolo ebraico ma l’arrivismo di un’umanista stupida, la smania di successo e la morale dello schiavo da una parte e il senso dell’umanità e della dignità dall’altra parte. Hannah Arendt si chiede chi fu realmente Eichmann? Che tipo di personalità si nascondeva dietro la divisa nazista di colui che ideò la soluzione finale e organizzò nei dettagli il massacro di sei milioni di ebrei? Chi fu come uomo prima di diventare Einchmann, prima di essere un ruolo, non malgrado avesse quel ruolo. Prova a dare una risposta Stefano Massini, nella drammaturgia che ha realizzato a partire dagli scritti della filosofa ebrea Hannah Arendt, dai verbali degli interrogatori a Gerusalemme – dove Eichmann fu processato dopo l’arresto avvenuto nel 1960 in Argentina – e dagli atti del processo. Eichmann è un uomo debole, mediocre, con la smania di successo che aspira ad andare a vivere a Berlino dove il padre non c’è mai stato perché gli alberghi costano troppo; non emerge come il mostro che penseremmo quanto come un uomo, arrivista e opportunista, e aprendo così il varco a una prospettiva spiazzante. Il problema è la normalità che difende gli ebrei se sono ‘amici’: le figlie di uno zio che è spostato con una donna ebrea e attraverso il quale ha trovato lavoro a vent’anni; che si è legato a una donna ebrea perché il problema non è il popolo ebreo ma il coinvolgimento personale e il vello sociale degli ebrei. In modo sconcertante emerge l’attivismo che Eichman ha esercitato in favore degli Ebrei disposti a fuggire: non vederli equivaleva ad assolvere la politica del Nazismo senza sentirsi moralmente colpevoli. Naturalmente parliamo del fior fiore della società ebrea, rappresentata dagli intellettuali perché per Eichman il ruolo fa la persona e non viceversa e il merito inficia l’idea dell’uguaglianza.
Diretti da Mauro Avogadro, Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon, nei ruoli della Arendt e di Eichmann, ricostruiscono passo dopo passo carriera e ascesa del gerarca attraverso un processo immaginario: Hannah, ossessionata dal desiderio di capire, induce Eichmann a svelare, forse anche a se stesso, le ragioni profonde dei suoi terribili atti che contribuirono all’eccidio di sei milioni di ebrei. Non siamo di fronte ad un teatro – documento, bensì all’interno di un viaggio teso a scoprire dove e perché nasce il Male.
Tranquillizzerebbe forse di più le coscienze poter definire, quasi lombrosianamente, Mostri individui destinati, fin dalla nascita, a compiere il Male. La Storia e la Scienza ci hanno dimostrato che non è così. Per cercare di capire “dove inizia la notte”, un’attrice e un attore – consapevoli del terreno minato su cui agiscono – mettono le loro eccelse capacità interpretative a disposizione delle differenti tappe, ora storiche ora personali, che il testo propone, al fine di evidenziare quanto la sete di potere, di denaro e, ancor più tragicamente, il solo desiderio di “fare carriera” possano trasformare un semplice impiegato del Reich in un mostro cinico e spietato.
Densa e intensa la scrittura, che nella sua semplicità, senza grida, punge il nostro animo, finché Hannah ammette che non si è mai arresa perché capire, anche dove finisce il sole, quando era piccola, è un’impresa impossibile quanto irrinunciabile. Capire non cambia il mondo ma aiuta a cambiare noi a fare chiarezza. Forse. Il dubbio è istillato da Eichmann che sa che l’ossessione di punire i colpevoli non eliminerà il male del mondo che anche un Dio nel quale si ha fede ha comunque permesso. I due personaggi si fronteggiano come due concezioni dell’umanità, l’idea e il reale. Eppure si resta spiazzati come se le parole di Eichman, avulse dall’orrore di cui si è macchiato, suonassero non così astruse: protagonista è l’iperrealismo della storia e della natura che non piange per i flagelli quali pestilenze e cataclismi, nei quali a fronte di tanti morti l’umanità sopravvive, si fortifica e potrebbe essere anche ripulita; e ognuno di noi, “è un po’ Mozart e un po’ Torquemada”.
a cura di Ilaria Guidantoni