Si è da poco conclusa la quarta edizione del Ginesio Fest, rassegna teatrale nella suggestiva cornice del borgo di San Ginesio nell’entroterra marchigiano, diretta dal regista Leonardo Lidi. Spettacoli con artisti di alto profilo come Filippo Timi, Giuliana Musso e Roberto Latini, ma anche rappresentazioni per adolescenti, laboratori per bambini, incontri con le compagnie, reading con Remo Girone, presidente di giuria che assegna un premio all’arte dell’attore.
Ci sono due modalità per reagire a una calamità naturale come il terremoto: sentirsene schiacciati, impotenti e accettare decadenza e spopolamento della zona interessata oppure chiamare a raccolta energie e creatività per dare nuovo impulso e potenzialità al territorio: San Ginesio, incantevole località adagiata sulle dolci colline marchigiane, ha scelto la seconda opzione e grazie alle forze congiunte di un’amministrazione illuminata, l’operoso entusiasmo degli abitanti e il carisma di Remo Girone, quattro anni fa è nato il Ginesio Fest, Festival Delle Arti Teatrali, poi collegato al Premio San Ginesio all’Arte dell’Attore. Ma non ci si è fermati qui. Sotto gli auspici di San Ginesio, attore, mimo e martire cristiano, santo protettore degli attori, Isabella Parrucci, dinamica e propulsiva direttrice generale, supportata dal sindaco Giuliano Ciabocco, dalla Regione e da un team di volontari, ha ideato e vinto un bando con il progetto TE.TA. (Teatro Tavola), finanziato dal PNR che ha già sbloccato 3, 5 milioni di euro, al fine di valorizzare e potenziare due eccellenze di San Ginesio, l’arte teatrale e il buon cibo, destinate a una fruttuosa ibridazione. Con questa prima tranche verrà restaurato un edificio scolastico dismesso per realizzare nel giro di 3 anni una foresteria e spazi didattici, in attesa della riapertura dello storico teatro cittadino e del ripristino delle stupende chiese per ora purtroppo ancora messe in sicurezza. L’intento è quello di fare del borgo un polo teatrale permanente che ospiterà attività di formazione e residenze artistiche destinate alle compagnie e agli allievi delle accademie e delle scuole di teatro.
Da due anni il regista Leonardo Lidi ha assunto la direzione artistica del festival che ha visto la quarta edizione, da poco conclusasi, in grande espansione. Filo conduttore di quest’anno è stato la maschera, non necessariamente quelle che conosciamo attraverso la Commedia dell’Arte ma quella che ogni attore/attrice indossa per calarsi nel proprio personaggio: un tema di cui abbiamo avuto esempi significativi nei lavori proposti dalla rassegna. Un’occasione per ammirarne alcune rare e di pregevole fattura è stata fornita dalla mostra Mà-ska-ra, che assembla esemplari provenienti da Europa, America Latina, Indonesia e Africa, tutti parte della collezione dell’attore Leonardo Gasparri che raccoglie coltre 150 pezzi. Entriamo però nel vivo degli spettacoli, allestiti nel suggestivo chiostro di Sant’Agostino sotto le stelle: il direttore artistico ha voluto dedicare un focus di due lavori ciascuno a Giuliana Musso e alla Piccola Compagnia Dammacco. Musso, autrice e attrice dedita a un genere di teatro che contempla indagine giornalistica, narrazione, denuncia, poesia e comicità, è artista di grande talento e coerenza, capace di negarsi alle dinamiche commerciali che l’avrebbero resa molto più popolare. Di lei ricordiamo la trilogia Nati in casa, Sexmachine e Tanti saluti (su nascita, sesso e morte), La fabbrica dei preti (sulla vita nei seminari italiani prima del Concilio Vaticano II) e Dentro (basato su una reale vicenda di abuso familiare) che si potrà vedere alla sala Grassi del Piccolo Teatro di Milano dal 14 al 18 febbraio. A San Ginesio ha portato La scimmia, un suo testo liberamente ispirato al racconto del 1917 di Franz Kafka Una relazione per un’Accademia, dove racconta di un primate catturato durante una battuta di caccia in Africa, rinchiuso e torturato in una gabbia, in viaggio su una nave diretta in Europa. Costretto a decidere se soccombere o adeguarsi alla situazione, l’animale opta per la seconda ipotesi e comincia a imitare gli uomini dell’equipaggio: impara a fumare e a bere acquavite, finendo poi col parlare. Questa lenta mutazione da scimmia a essere quasi umano culmina con il successo che incontra esibendosi al cabaret dove canta e balla: risultato di una strategia di sopravvivenza e adattamento che si paga con la perdita del proprio sé. “Odio l’odore di uomo che ho preso io, non quello degli uomini.” La sua storia la racconta a un immaginario pubblico di accademici interessati a studiare quello strano fenomeno. Entrando in scena con il trucco, il bastone, la mimica e le movenze di Charlot, Giuliana Musso ci fa poi attraversare le dinamiche psicologiche della creatura, aggiungendo al testo kafkiano una valenza politica che ci riporta al nostro presente, arricchendolo di sfumature senza escludere passi di danza e ammiccamenti sotto una maschera di sofferenza, amarezza e disillusione ma con graffi di caustica ironia.
Di teatro civile si parla invece per il suo secondo monologo, Mio eroe, che vanta ben 8 anni di circuitazione e che altri ne merita. Musso ha raccolto le testimonianze delle madri di 53 militari caduti in Afghanistan nel corso della missione Isaf (2001-2004) e porta in scena tre ritratti emblematici. C’è la mamma di Mauro, alpino di 24 anni, dislocato in un fortino del Kurdistan e morto per correre in soccorso di un compagno. Lei, che parla con uno spiccato accento del nordest, assolve il suo assassino e s’impone di non piangere ma cerca conforto in un gruppo di madri che stanno vivendo lo stesso dolore. La seconda figura è invece profondamente arrabbiata, non con lo Stato ma “con Cristo e con Maometto” e nella sua cadenza emiliana ricorda che il suo Stefano era animato dalla volontà di portare aiuto a quelle popolazioni stremate dalla guerra e dalla fame. Lo ha voluto vedere nella bara e si è convinta che non era morto ma solo addormentato, risultato di un espediente atto a destinarlo con altra identità a missioni per i servizi segreti. Ammette che la testa non le funziona più e vive di solo caffè ma questa certezza la tiene ancora in vita. La terza madre è un insegnante e ci racconta che il figlio Miki era avviato a una promettente carriera di violoncellista ma un ardente amor di patria l’aveva portato ad arruolarsi negli alpini. Lo sentiva occasionalmente al telefono ma lui si rifiutava di dirle la località in cui operava: un giorno però si era tradito: qualche tempo dopo lei apprende che nello stesso posto è caduto un soldato. Convinta sia il figlio, il giorno seguente legge sul giornale che si trattava di Luca e non di Miki che abbraccerà a lungo al suo ritorno, provando però lo stesso dolore anche per lo sconosciuto ragazzo. L’attrice in questi tre ritratti mostra una gamma di sfumature, psicologie e registri vocali di rara finezza, finendo per emozionarci ed emozionandosi lei stessa. Finale simbolico con due violoncelli estratti dalle custodie nere (un riferimento alle sacche in cui vengono adagiati i cadaveri?) e ai cui piedi vengono disposti due mazzi di garofani rossi.
Esilio è stato uno primi lavori della Piccola Compagnia Dammacco, composta da Mariano Dammacco e Serena Balivo, il primo ne firma ideazione, drammaturgia, regia ed è anche in scena con la seconda che ne è protagonista. Si racconta la deriva di un uomo che perde il lavoro e si sente “buttato via” dalla società. I suoi stati d’animo mutano dall’incredulità allo sgomento, la vergogna e la spossatezza. Arriva a fingere di lavorare ancora e a spiare con un binocolo le vite degli altri. Tanti sono i tentativi falliti di trovare un’altra occupazione, alternando speranza e ottimismo a disperazione. Si sente vittima di un complotto al pari di un bambino bullizzato e si risolve a chiedere al padre la paghetta per sopravvivere, oltre a cercare di ritrovare il perduto equilibrio seguendo un corso di buddismo e studiando la teoria quantistica. Serena Balivo en travesti diventa uomo con tanto di baffi e con questa maschera, voce dal timbro maschile e postura studiata ci dà un gustoso ritratto del disoccupato, anche se il testo non arriva a toccare le corde dell’empatia e non aiutano gli “a parte” alquanto criptici di Dammacco, enigmaticamente fasciato in un lungo abito da sera di lamé.
Più convincente è l’altra pièce di recente produzione, La buona educazione, scritta e diretta da Dammacco con Balivo sola in scena nei panni di una matura single che, a causa della morte della sorella, dall’oggi al domani si trova a crescere il nipote orfano, dato che anche il padre, da tempo fuggito dalla famiglia, in uno dei suoi viaggi era stato divorato da un coccodrillo. La donna, abituata a vivere da sola, sente la sua privacy invasa ma fa di tutto
per instaurare un buon rapporto con il ragazzo: cosa non facile, visto che l’adolescente, al pari di molti coetanei, non comunica con gli adulti e si esprime soltanto con i verbi all’infinito. Oltre ai conflitti che nascono per tentare di convincerlo a comportarsi e convivere in modo civile, la zia patisce l’invasione notturna dei fantasmi dei genitori e della sorella che la rimproverano aspramente per l’incapacità di prendersi cura del nipote. C’è poi la spada di Damocle di un bando che la vede solo una dei possibili tutori con la possibilità che le venga revocata la custodia. I giorni passano e lei si affeziona al ragazzo, arrivando a viziarlo e coccolarlo, ma a un’ennesima intemperanza lo priva di tutti i gadget tecnologici, cellulare, tv e computer compresi, portandolo alla disperazione. Riappacificatisi, si palesa un’altra novità da fronteggiare: l’imberbe giovincello s’innamora di Annette che però non è una fanciulla bensì una lussuosa lampada che, finalmente posizionata nella sua stanza, sarà fatta a pezzi. Anche il tentativo di convincercelo, finite le scuole medie, a frequentare il liceo classico e non il vagheggiato istituto per odontotecnici (inteso come passaporto per un futuro arricchimento) non avrà esito. Riuscirà la povera donna a vincere il bando o tutti quegli sforzi risulteranno vani e il nipote sarà destinato altrove? Balivo è artefice di un’eccellente performance che la vede disegnare un personaggio che si muove a scatti, parla con voce sincopata, si commuove e si altera a seconda delle circostanze, calandosi in una dimensione tra reale e surreale, ironia, dramma e comicità, capace di una mimica facciale che diventa vera maschera facendoci dimenticare le fattezze dell’attrice.
Le maschere vere e proprie appaiono con la compagnia del Teatro dei Gordi che ha presentato Sulla morte senza esagerare, primo tassello di una trilogia a cui hanno fatto seguito Visite e Pandora. Nata come omaggio alla poetessa polacca Wislawa Szymborska, la pièce affronta un tema decisamente scomodo con leggerezza e ironia, sfiorando spesso la poesia. Caratteristica, almeno nei loro primi lavori, è quella di non usare la parola ma di affidarsi unicamente al potere evocativo delle maschere contemporanee (create come i costumi da Ilaria
Ariemme) e al lento procedere dell’azione. Ci troviamo in una zona misteriosa, tra l’aldiquà e l’aldilà, dove le anime dovrebbero prendere congedo dai corpi, in un rito orchestrato dalla Morte, qui un signore in cardigan un po’ consunto e cappuccio nero da indossare al momento del trapasso. Davanti a lei scorre un campione di varia umanità: c’è il suicida con regolare lettera di addio e corda al collo che però all’ultimo ci ripensa e si ritrova a ballare sulle note di A’qua de Março di Antonio Carlos Jobim, il rider vittima di un incidente stradale, la ragazza in preda a overdose dopo la discoteca, la coppia di anziani con lui che al momento fatale ritorna misteriosamente giovane. A complicare le cose sopraggiunge un angelo con regolamentari bianche ali piumate e dotato di ottima manualità che aggiusta tutto quanto non funziona: toccherà a lui sostituire la Morte con una più giovane, capace forse di affrontare meglio imprevisti e intoppi della mansione. Che cosa deciderà quest’ultima circa la sorte del lattante in fasce che si ritrova al cospetto? Gioco di squadra e collaudata alchimia tra Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti e Matteo Vitanza a loro agio in abiti maschili e femminili e nel veloce cambio – e travestimento – tra un personaggio e l’altro. A completare la serata un talk show animato da Lidi e dall’attore Christian La Rosa con l’ospite d’onore Francesco Mandelli, poliedrico showman, regista e cantante, noto soprattutto per la serie tv I soliti idioti accanto a Fabrizio Biggio, spesso all’insegna del politically incorrect.
Sono tornati a San Ginesio gli allievi attori della scuola del Teatro Stabile di Torino di cui Leonardo Lidi è vicedirettore e sotto la guida dell’attore Filippo Timi hanno preso parte al laboratorio Per te farò sanguinare i fiori del paradiso, ispirato al Paradiso perduto del poeta e scrittore secentesco John Milton, destinato a sfociare
nello spettacolo One Shot Shot. Timi ce ne ha parlato in anticipo. “Lavoro con la convinzione che l’attore deve essere al di là del bene e del male. Rifacendomi alla vicenda che racconta Milton, ho immaginato che Satana si scontri con Dio per amore dell’arcangelo Gabriele. I due però non possono vedersi poiché hanno l’obbligo di tenere gli occhi chiusi, pena l’essere accecati se trasgrediscono. A Satana però non basta fare l’amore con Gabriele: vuole anche contemplare l’amato, così li apre e convince l’altro a fare lo stesso, dicendo che se poi pioveranno coriandoli, significa che Dio non esiste. I coriandoli piovono e Satana si strappa il cuore mentre Gabriele, non volendo riconoscere l’amore che prova, si acceca. Rappresenterò la scena in cui Satana cade dal cielo maturando il proposito che, se Dio non esiste, lui ne inventerà uno che andrà a tentare Adamo ed Eva. Per me Satana è un simbolo come Giuda e Zarathustra: Milton vede una separazione netta tra bene e male ma io penso siano la stessa cosa. Se esiste la luce esiste anche il buio, cadere è fondamentale per rialzarsi. Tutta la vicenda sarà raccontata da altri demoni caduti raccolti nella stiva di una nave. Le scene e i costumi avranno un che di primitivo e tribale ma anche superchic con un abito di haute couture.” Quello che Timi non ci aveva anticipato è stato l’imprevisto e trascinante incipit di One Shot Show: sulle note dei più celebri successi degli anni sessanta i ragazzi della scuola si sono lanciati a ballare confondendosi con il pubblico e invitando gli spettatori a unirsi a loro. Poi lo spettacolo vero e proprio ha seguito la traccia di cui eravamo informati: vediamo un gruppo di angeli caduti e diventati demoni che interagiscono tra loro a bordo di uno scafo con le bianche vele al vento (creato a suon di braccia) che fanno da fondale. Discinti o coperti da costumi che assemblano i materiali più diversi (dalla plastilina alla gommapiuma) fanno da coro a Satana/Timi che si congeda con il meraviglioso monologo iniziale di Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard-Marie Koltès dove, come ci aveva detto, il venditore presente nella pièce è un Satana che vuole tentare Eva, cioè il pubblico che a sua volta vorrebbe “comprare” lo spettacolo più bello della sua vita. E’ superfluo ribadire il talento istrionico dell’attore che si divide tra teatro, cinema (lo abbiamo appena visto in Rubato, diretto da Marco Bellocchio) e tv, ma vanno lodati anche gli allievi, versatili e maturi, capaci di affrontare al meglio un lavoro creato in 5 giorni.
A chiudere il ciclo degli spettacoli è stato un altro eccellente attore, anch’egli con un percorso artistico coerente e di alto profilo: Roberto Latini che ha proposto una sua rivisitazione del poemetto scespiriano Venere e Adone, composto dal Bardo nel 1593 quando i teatri londinesi vennero chiusi a causa della peste. Il suo testo si suddivide in cinque parti: Amore, dove lui, imbrigliato in ampie ali metalliche, imbraccia arco e frecce per apprestarsi alla caccia, Il cinghiale, dove su un tappeto di moquette rossa strazia le corde di un violino, Adone, in cui, ripreso da una telecamera e seduto su un divano, Latini indirizza un’appassionata ma fasulla e ironica (le lacrime provengono dall’acqua versata sulla testa) lettera all’amata, le cui parole scorrono su uno schermo, Venere è il tassello più poetico e struggente (quello più vicino a Shakespeare) con il lamento per l’amore rifiutato, e infine Chiunque, dove, a sorpresa, con un telecomando lui guida un robot con le sembianze di un cane bianco e nero che cammina, danza e s’inchina. Anche in questa performance Latini fa della voce uno strumento duttile e vibrante, supportato dalle musiche e dal suono di Gianluca Misiti: un vero one man show in cui il performer cambia da solo la scena e gestisce ogni piccolo dettaglio. “Adone muore nel bosco durante una caccia al cinghiale – scrive l’attore nella presentazione – e Venere non può nulla oltre il presentimento che la consuma. Il corpo di Adone in terra svanisce nell’aria fresca del mattino e dal suo sangue spunta un fiore bianco e rosso: lo si potrebbe percepire come il mito della primavera o il mito della rinascita.”
Si è già accennato al Premio San Genesio all’Arte dell’Attore: la giuria, presieduta da Remo Girone e composta dal giornalista e critico Rodolfo Di Giammarco, l’attrice Lucia Mascino, la poetessa Francesca Merloni e il regista Giampiero Solari, ha proclamato vincitori per l’edizione 2023 Lino Musella e Sara Putignano. Il primo, oltre al lungo sodalizio artistico con Paolo Mazzarelli, ha lavorato con registi quali Mario Martone, Antonio Latella, Andrea De Rosa, Valter Malosti, Serena Sinigaglia e Jan Fabre, ma è attivo anche al cinema (l’ultimo film è stato Il pataffio) e in televisione dove lo si ricorda in molte serie, da Gomorra a The Young Pope. Putignano, dopo gli studi all’Accademia, si è formata al Centro Teatrale Santacristina, creato da Luca Ronconi che l’ha poi scelta per il personaggio della Madre per In cerca d’autore, studio sui Sei personaggi di Pirandello. In seguito è stata diretta da Silvio Peroni, Carmelo Rifici, Cesare Lievi, Arturo Cirillo e Giorgio Barberio Corsetti. I premiati hanno incontrato i giornalisti, rispondendo alle loro curiosità. “Per me – afferma Musella – il teatro è un’arte spirituale, spiritica: c’è la responsabilità di far rivivere qualcosa come potrebbe fare un/una medium. Gli inizi non sempre facili mi hanno rafforzato e insegnato che le cose devono sempre essere guadagnate, oltre a farmi stare sempre a tempo rispetto a quanto accadeva intorno a me. Ho fatto passi che poi si sono rivelati non sicuri ma anche gli insuccessi mi hanno formato e credo che non bisogna mai
sentirsi arrivati. In seguito ho fatto un percorso indipendente, pur ammirando il lavoro di alcuni nostri grandi registi, molti dei quali non ci son più; sia io che Sara siamo cresciuti nella stessa culla e abbiamo la consapevolezza che i mattoni li dobbiamo mettere noi e continuare a farlo. Abbiamo ancora ottimi registi ma penso che vadano valorizzati anche quelli emergenti, più giovani. “Fare l’attrice – dice Putignano – per me ha significato trovare un modo di stare al mondo, un modo di sopravvivere. Recitare è uno strumento per conoscere la vita e imparare a viverla, significa condividerne i temi con chi sta guardando una storia che noi raccontiamo. I miei inizi sono stati una sorta di allenamento intensivo che mi ha preparato ad aprire la mente e a sentirmi poi pronta a tutto. Il mio percorso è proceduto senza scossoni, senza uno spettacolo che mi abbia aperto la carriera. Mi sento molto vicina a Lino e credo abbiamo molte cose in comune: quando lo vedo in scena mi appare come una forza della natura, mi accende, torno a casa più energica, meno depressa e nel lavoro successivo mi sento stimolata a dare il meglio di me.”
Il Ginesio Fest non si esaurisce con gli spettacoli: tanti sono gli eventi collaterali e le proposte che lo spazio tiranno ci costringe a riassumere, a cominciare dai reading di Remo Girone in uno scenografico belvedere sovrastante le colline: prima il saggio di Heinrich von Kleist Il teatro delle marionette, poi, a due voci con Christian La Rosa, Uno, nessuno e centomila di Pirandello; La Rosa ha brillantemente anche condotto gli incontri pomeridiani con le compagnie e gli artisti. Da citare anche La stanza, Esperienza d’archivio in Virtual Reality per un solo spettatore, diretta da Giulia Ottaviano e Alba Maria Porto, una performance immersiva che, tramite un visore, ci mette a parte della vita di un’attivista e femminista degli anni settanta. Non si possono infine dimenticare gli spettacoli per l’infanzia e l’adolescenza a cura di Vera Vaiano e la formazione per i più piccini con i laboratori di costruzione dei burattini che tanto successo hanno avuto con i bambini. Dato incoraggiante è stata la costante partecipazione dei cittadini di San Ginesio che vivono il festival come una manifestazione popolare aperta a tutti, un piccolo gioiello destinato a un luminoso futuro.
a cura di Mario Cervio Gualersi