In mostra alla Galleria Il Ponte di Firenze – dal 22 novembre 2019 fino al 10 gennaio 2020 – Mattia Moreni Opere anni ’50-’90, a cura di Andrea Alibrandi, una sintesi, in dodici opere, del percorso pittorico di questo maestro italiano, che dagli anni ’50 alla sua scomparsa nel 1999, si è rivelato un’artista “scorretto”, che “ha sistematicamente ignorato i riti ed il conformismo della cultura ufficiale. Moreni ha dipinto tele che sono dei calci nello stomaco, domande indecenti e insolenti che ancora vibrano nell’aria, provocazioni che bruciano attuali sostenute dall’ironia con cui sono state scagliate”, secondo quanto ha scritto Antonio Vanni, in Regressivo Consapevole. Perché?.
Ribelle, irregolare e sregolato, il suo espressionismo non è stato provocatore per il gusto di esserlo, eppure insofferente alle regole, all’appartenenza a scuole e correnti, pervaso da ossessioni come quella per il sesso femminile che ritrae ad oltranza spesso in tele respingenti, disturbanti ma non ammiccanti. In parte la risposta al suo disagio di vivere si può rintracciare nella sua stessa biografia, nato con una malformazione, aveva un moncherino che lo ha costretto a dipingere con la sinistra ed è cresciuto in collegio. Nel tempo ha maturato una certa ostilità verso la società borghese schierandosi dalla parte dei disadattati e avvicinandosi all’Art Brut di Dubuffet.
Nato nel 1920 a Pavia, muore nel 1999 a Brisighella, in provincia di Ravenna, dove si era trasferito nel 1966 per la voglia appunto di allontanarsi dalla società e immergersi nella natura.
La mostra presenta un excursus che abbraccia tutta la sua produzione con un’antologia dal 1959 al 1994, quando cambia registro.
La sua prima mostra è stata alla galleria La Bussola a Torino nel 1946 con un inizio figurativo, di cui è stato uno degli ultimi rappresentanti di questo stile, come ha sottolineato Arcangeli; con dipinti e disegni del periodo in cui un espressionismo visionario – un linguaggio che si sviluppa durante gli studi all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino – ed evocazioni destabilizzanti si concretizzano in immagini di composizioni ravvicinate di frutta o animali. Troneggiano angurie (e composizioni senza prospettiva che sembrano cadere addosso allo spettatore), metafora del peregrinare umano che poi con il tempo assumono il senso del sesso femminile in decadenza; cedendo il posto ai sessi femminili in primo piano, spesso adagiati su tappeti di pelliccia.
Da questi studi risaltano alcuni aspetti importanti per il suo successivo percorso: la propensione a proporre immagini totalizzanti, dalla prospettiva non profonda, ma affollate dalla “presenza ingigantita degli oggetti” e un fremito deformativo espressionista che andrà “ben oltre l’ordine dialettale e illustrativo e folcloristico” di locali derivazioni “da esemplari nordici o più propriamente fiamminghi”.
Nel 1948-49 la sua ricerca volge a una sintesi astrattiva (Galleria del Milione, Milano, ’47 e ’49; Biennale di Venezia, 1950) e il suo linguaggio ha un riconoscimento internazionale con la partecipazione alla Biennale di San Paolo in Brasile (1951) e alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea a Milano (1952).
Lo sguardo di Moreni si rivolge alla scena internazionale, trasferendosi negli anni ’50 a Parigi, dove si avvicina all’Informale diventando uno dei nomi europei più quotati.
Nel 1952 entra nel Gruppo degli Otto con Antonio Corpora, Emilio Vedova, Afro Basaldella, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato e Renato Birolli, riuniti intorno al critico d’arte Lionello Venturi, ma dopo due anni l’esperienza finisce e in ogni caso Moreni fin da subito mostra la propria insofferenza. Il gruppo era nato in risposta alla scissione tra Realisti e Astrattisti e Moreni, dopo il periodo Informale e Post-cubista, si posizionerà altrove. Fino ai primi Sessanta, l’artista entra in un nuovo livello di tensione emotiva confrontandosi con una natura primitiva e selvaggia che incontra dal vivo con molteplici soggiorni in Romagna e Lazio; natura resa attraverso una forza espressiva di strutture macrosegniche e risalti cromatici accesi, in una valenza materico-gestuale del colore, di pertinenza linguistica Informale.
“Difficile trovare un pittore più pittore di Mattia Moreni, ha scritto Marco Meneguzzo. Per lui la pittura è tutto, ed è per questo che a volte passa in secondo piano, di fronte a quello che tutti vedono per primo: una follia padana in fondo familiare, come quella che va da Pupi Avati a Federico Fellini, autori per cui a loro volta il cinema è tutto. E’ il racconto della follia, quello che ogni spettatore vuole sentire, quando guarda un quadro, e Moreni lo accontenta: è come se dicesse ‘sono pazzo, guardate la mia follia attraverso i miei quadri, però guardateli!’. Ma l’artista Moreni, al contrario – forse – dell’uomo Moreni, non è affatto pazzo: è un narratore per immagini e parole – più immagini, però – che, come Tommaso Campanella (il quale si finse pazzo per trent’anni, per sfuggire all’Inquisizione) aggira il muro della resistenza dello sguardo attraverso il trucco della follia, consentendo così ai suoi temi di sfondare il muro della pruderie e del malcelato pudore.”
La sua è una pittura integrale con i titoli scritti in corsivo all’interno delle tele che diventano didascalie, mini racconti, dai colori accesi e pastosi.
Nel ’60, il gestualismo materico tende ad addensarsi e torna ricinoscibile la forma; dai simulacri di figure umane si passa ad alberi, da nuvole a cartelli, baracche e campi, angurie (Museo Morsbroich, Leverkusen, ’63; Kunstverein, Amburgo, ’64; Museo Civico, Bologna, ’65), quest’ultime protagoniste di questa stagione post-informale (Biennale di Venezia, ’72; Pinacoteca Comunale, Ravenna, ’75).
Moreni indaga la decadenza della società contemporanea, tra Eros e Thanatos: decadimento, morte e splendore diventano i temi dei suoi lavori dai toni mai tristi. Su questo filone si inserisce la Pelliccia, nuova presenza iconica ed evocazione erotica; si compie un’evoluzione nel suo linguaggio pittorico, un raffinamento di modalità e consistenza di stesure che lo accompagnano poi verso la fine del suo percorso artistico.
La sua riflessione non si ferma e l’attenzione si posiziona sul tema dell’Intelligenza artificiale, e in generale della decadenza umana con una sorta di premonizione del mondo che verrà.
Proprio alla figurazione di Umanoidi (1993), un ampio ciclo, vengono dedicate due personali del 1994-95: la nuova somatica è resa da una scatola tecnologica, alludente al computer, sostitutiva di volto e mente dell’uomo (Ravenna, 1996; Faenza, 1999).
a cura di Ilaria Guidantoni