Palazzo Ducale ospita, nel Sottoporticato, dal 4 luglio al 1° novembre 2020 la mostra Obey fidelity. The art of Shepard Fairey, esposizione a cura di Gianluca Marziani e Stefano Antonelli, che abbiamo raggiunto al telefono – prodotta e organizzata da MetaMorfosi in collaborazione con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, con il sostegno della Camera di Commercio di Genova, promossa da Comune di Genova e Regione Liguria – la comunicazione è curata da Camilla Talfani dell’Ufficio Stampa di Palazzo Ducale e dall’Associazione Culturale MetaMorfosi – offre l’occasione di conoscere il lavoro di uno degli street artist più famosi al mondo, la cui fama a livello mondiale è legata alla realizzazione del manifesto con l’immagine stilizzata in quadricromia di Barack Obama, dal titolo Hope, divenuto nel 2008 l’icona della campagna elettorale del futuro presidente degli Stati Uniti. L’esposizione propone un viaggio nell’opera di Shepard Fairey, che muove dai grandi protagonisti delle lotte civili e antirazziste per arrivare all’omaggio a infermieri e medici nei giorni del Covid-19.
Dopo l’avventura espositiva di Banksy, è sembrato coerente continuare con un’altra esposizione dedicata a un grande della Street Art: numerose le opere esposte, alcune iconiche come Angel of Hope and Strength, dove un’infermiera con ali celestiali e una fiaccola in mano, evoca gli eroi che hanno combattuto l’epidemia di covid-19.
La mostra è un viaggio visivo che incrocia quattro punti tematici – Donna, Ambiente, Pace, Cultura – ricreando a Palazzo Ducale un’ideale passeggiata nella notte metropolitana.
Le opere in mostra sono parti organiche della stessa famiglia, una conversazione urbana tra messaggi militanti, visioni pacifiste, passioni solidali. Obey stimola riflessioni sui temi umanitari, sui passaggi esistenziali, sulle utopie sociali, sui valori di giustizia al di sopra delle leggi. “Il suo messaggio pacifista ed ecologista ci rende piccoli “soldati” di una nuova militanza, fatta di spazi etici del confronto, di nuovi modelli del vivere, di azioni sane e consapevoli, spiega il curatore Gianluca Marziani. Fate arte al posto della guerra. Fate l’amore al posto della guerra. Celebrate la Bellezza al posto della violenza. Denigrate il male con alti dosaggi di consapevolezza morale. È come se gli anni Settanta delle culture antagoniste tornassero a nuotare nel mare fluido del web, come se lo spirito dei nostri paladini freak rivivesse nella politica estetica di un mondo migliore per gente migliore”.
Grazie a Obey, che appare anche nel documentario di Banksy sull’arte urbana Exit Through the Gift Shop veniamo introdotti nel suo universo cartaceo dallo stile inimitabile, basato sulle grafiche sovietiche e futuriste di inizio Novecento, sulle pitture parietali latinoamericane, sui muralismi italiani alla Mario Sironi.
“Obey crea immagini urlanti, semplificate nella palette cromatica, puro equilibrio di pesi tra testo e immagine, aggiunge il curatore Stefano Antonelli. I formati tendono al gigantismo quando il contesto prescelto è la strada, diminuiscono nel caso di oggetti funzionali al progetto (cover di album, skateboard, poster, oggetti…), in entrambi i casi traduce nel presente i vecchi stilemi della propaganda muralista. Crea stampe cartacee bollenti, carne viva che brilla sotto il sole della civiltà, trasformando gli sguardi in un valore d’azione. Organismi caldi con una loro implicita respirazione, sembra di sentire l’urlo catartico di Angela Davis o la speranza democratica di Barack Obama, con le loro silhouette che catturano le giuste frequenze e si prendono il palcoscenico mediatico del nuovo millennio”.
Tra le opere in mostra alcune immagini iconiche, come la già citata Hope in cui Obey raffigurò Barak Obama. Non una committenza, ma spontaneo sostegno al politico che apprezzò l’opera al punto tale da scrivere all’artista, una volta eletto: “Ho il privilegio di essere parte della tua opera d’arte e sono orgoglioso di avere il tuo sostegno”. Il ritratto divenne talmente famoso da entrare a far parte della collezione permanente della National Gallery di Washington fu e giudicato da Peter Schjeldah, critico d’arte del New Yorker, “la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dello Zio Sam”.
In mostra serigrafie e litografie provenienti da collezioni private che fanno di Obey il prototipo fluido del nuovo artista politico, perché ha capito che i temi scottanti si affrontano con simboli e intelligenza visiva, con l’impatto rapido di un messaggio in cui riconoscersi senza confondersi. Tra queste We the people – defend dignity una grafica politica in risposta diretta al sentimento xenofobo, razzista e anti-immigrati promosso dall’attuale amministrazione statunitense, che fa parte di una serie di 3 ritratti per la campagna “We the People pubblicata” da Amplifier Art il 21 gennaio 2017, in concomitanza con la Marcia delle Donne, la più grande protesta di un solo giorno nella storia degli Stati Uniti.
La rosa rossa, che rende unico il ritratto della giovane e bellissima immigrata, rimanda all’estetica della moda Xicana e Mexicana, dai ballerini di danza folcloristica ai fiori che adornano le donne durante il Dia de los Muertos. Ma i riferimenti all’attualità sono continui e proficui nell’opera dell’artista figlio di un medico e di una agente immobiliare, cresciuto nella Carolina del Sud, dove ha seguito studi artistici e nel 1988 si è diplomato presso l’Accademia d’Arte.
Ultimo tra questi riferimenti è Angel of Hope and Strength dove un’infermiera con ali celestiali e una fiaccola in mano, evoca gli eroi che hanno combattuto l’epidemia di covid-19. L’opera, realizzata nel maggio 2020, è finalizzata alla stampa su magliette la cui vendita andrà a sostenere le attività della Croce Rossa Italiana.
“Obey – aggiunge ancora Antonelli – crea simboli virali e replicabili, produttori di icone che alzino la soglia d’attenzione, che diano messaggi politici in maniera metaforica e condivisa”. E’ il caso, ad esempio, di Angela Davis, figura fondamentale per il movimento afroamericano degli anni Settanta, che diventa uno dei soggetti preferiti di Shepard Fairey. Accusata di cospirazione, rapimento e omicidio in relazione al fallito tentativo di un gruppo di attivisti delle Black Panthers di liberare il detenuto nero George Jackson in un’aula di tribunale, la Davis fu arrestata e processata, diventando così popolare da mobilitare a suo favore un gran numero di persone che si riunirono in comitati e organizzazioni, non solo negli Stati Uniti ma anche in molti altri paesi. Obey la ritrasse più volte, una di queste immagini è in mostra, contribuendo a creare il mito di donna afroamericana, simbolo sia del femminismo che dell’uguaglianza razziale.
“MetaMorfosi – afferma il Presidente Pietro Folena – sta intraprendendo un percorso espositivo e divulgativo nei territori della nuova arte urbana e metropolitana, l’arte che compare sui muri delle nostre città, che trasforma palazzi fatiscenti o fabbriche dismesse in veri e propri musei all’aperto, che rendono la vita di chi guarda e passa un po’ più serena, e che prendono il posto delle vecchie immagini pubblicitarie. Obey, di quest’arte, è una delle massime espressioni mondiali.”
Stefano Antonelli, “Obey ha portato l’arte nelle case”
Il curatore racconta la rivoluzione operata nell’ambito della Street art da Banksy e Obey con il riconoscimento del valore da parte del pubblico, il superamento della protesta dell’arte impegnata per diventare arte ‘politica’ nel senso greco del termine e soprattutto con Obey renderla a portata di tutte le tasche.
Come nasce la scelta di questo autore?
“Una scelta relativamente semplice perché i due autori sono legati da un filo, quello di aver spostato più avanti i confini della street art, alla quale appartengono. Quest’arte era stata già declinata in vari modi ma ora è divenuta una pratica sociale con il riconoscimento di questo artisti in un modo che non avviene per gli altri protagonisti dell’arte contemporanea. Il fatto che Obama invii una lettera a Obey per ringraziarlo del contributo offerto con la sua opera nell’elezione la dice lunga su un’arte che si fa politica. Non avveniva dagli Anni Settanta”.
La militanza allora era in qualche modo uniformata a un nuovo ideale come in tutte le rivoluzioni che si rispettino: qual è il senso della ‘politica’ di Obey?
“Allora la militanza era ideologica. Ora è un’azione, giocata sull’emozione e l’artista si limita ad incarnare la contraddizione del nostro tempo, che vive senza inventare un nuovo linguaggio. E’ una sorta di azienda di abbigliamento globale che ripropone gli stilemi e gli errori della società”.
Non è un disallineato nella sua rivelazione sociale dunque?
“Assolutamente no. Si muove all’interno del sistema non con la voglia della contestazione che presuppone la possibilità del cambiamento. Oggi non esiste più questa prospettiva ma solo un dar risalto alle peculiarità del mondo contemporaneo. Guardando le opere di Obey si capisce come funziona la propaganda legata ai nuovi strumenti di comunicazione digitali e lo stesso artista la pratica.”
Cosa resta del nucleo della street art e della sua vocazione?
“Lo spazio pubblico come spazio espositivo, uno spazio impermanente nel quale l’arte impressiona ma non spinge a riflettere. L’organizzazione di una mostra di street art in un museo che tende a fissare lo sguardo, a concentrare l’attenzione sull’arte come obiettivo della nostra passeggiata in loco, è una sfida che stimola alla riflessione con un meccanismo tipico della pubblicità”.
Com’è interpellato il pubblico?
“Di solito è il pubblico a decretare il successo di un libro, un film, uno spettacolo, una canzone; nell’arte visiva invece la spinta popolare è assente perché la quotazione anche bassa rende il prodotto artistico un oggetto di nicchia e di culto non di consumo. L’arte è legata da sempre al Signore o ai signori e alla chiesa, alle grandi istituzioni, agli investitori o collezionisti. Questi artisti hanno spostato l’arte verso la comunicazione e per la prima volta è il pubblico che sceglie il successo”.
Cosa sta succedendo con Obey?
“Realizza delle stampe numerate che mette periodicamente on line a 35 dollari e questo crea una grande possibilità di penetrazione tra la gente comune e nelle nuove generazioni con un fenomeno che è esploso dal 2007, non ha caso l’anno dell’impennata di face book, e cha ha rinnovato la Pop Art della quale è figlio. Non tanto una denuncia con la proposta di icone che restano esclusive. Così si entra a far parte della società di produzione con gli stessi parametri”.
In questo orizzonte qual è il nuovo ruolo per i critici e i curatori?
“Il critico d’arte in certo qual modo è una figura morta perché il suo lavoro si basa sempre su una comparazione che in questo caso non ha molto senso mentre per il curatore è stimolante e per la prima volta i prestatori non sono tanto i musei o i collezionisti, o meglio il collezionista inteso come ‘ricco’, ma il vicino di casa, la gente comune.”
a cura di Ilaria Guidantoni