Al Mudec di Milano, fino all’8 settembre prossimo, è di scena un grande americano, nato a New York nel 1923 da una famiglia ebraica media, Roy Lichtenstein, rappresentante della Pop Art e figura di primo piano del Novecento. L’esposizione, a cura di Gianni Mercurio (che ha curato, tra l’altro, la mostra e il relativo volume “Roy Lichtenstein. Meditations on Art”, Milano, Fondazione La Triennale, 2010, e poi col titolo “Kunst als Motiv” a Colonia, al Museum Ludwig, 2011) e promossa dal Comune di Milano-Cultura e da 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE, che ne è anche il produttore, per l’ideazione di MADEINART, conferma la capacità del museo delle culture di sorprendere anche nel caso di un autore molto noto, come in questo caso, sia per la ricerca del lato meno frequentato della sua arte, di opere che non si vedono d’abitudine, sia per l’allestimento, arioso, permettendo una fruizione semplice e molto gradevole.
La prima parte con immagini montate in dissolvenza, campiture di colore effetto pongo, accompagnate da strisce di pavimento e di decorazione a parete che riprendono le tecniche tipiche e lo stile di Lichtenstein, è vivace e allegra; nelle sale successive sfumature di grigio valorizzano il colore forte e deciso dei quadri e delle sculture in mostra, senza metterli a contrasto su fondali bianchi con effetto spesso non armonico. Ben fatti i pannelli esplicativi che alternano frasi dello stesso autore, utilizzando anche in questo caso il colore come un gioco e con grande immediatezza emozionale.
(Still Life with portrait – 1974)
In mostra circa 100 opere tra prints anche di grande formato, sculture, arazzi, un’ampia selezione di editions provenienti da prestigiosi musei, istituzioni e collezioni private europee e americane (la Roy Lichtenstein Foundation, la National Gallery of Art di Washington, il Walker Art Center di Minneapolis, la Fondation Carmignac e Ryobi Foundation, Gemini G.E.L. Collection), oltre a video e fotografie che illustrano l’estrema poliedricità della sua arte che ci viene presentata nella successione delle sale senza una segmentazione rigida. Si parte dal recupero della cultura autoctona antica rivisitata in una chiave giocosa e stilizzata, dalla storia della nascita degli Stati Uniti all’epopea del Far West, dai vernacoli e le espressioni artistiche etnografiche degli indiani d’America alla cultura pop esplosa in seguito all’espansione dell’economia mondiale del secondo dopoguerra, dalla cultura artistica europea delle avanguardie allo spirito contemplativo dei paesaggi orientali. Il cammino continua con gli oggetti di uso quotidiano, tipici della Pop Art, che però questo pittore inserisce in uno schema quasi classico di composizione, riecheggiando la natura morta tradizionale; quindi gli interni legati all’attenzione al mobile, da sempre interesse dell’artista americano che negli anni Cinquanta comincia a diventare anche un gusto diffuso, accompagnato dalle riviste. Si passa poi all’esplorazione del mondo femminile, che riunisce alcuni temi classici del nudo, della quotidianità del ritratto in una chiave pop, che lascia spazio al colore, al gioco, alla persona che diventa fumetto. I comics altresì rappresentano un ambito importante che si va però esaurendo intorno al 1964 quando comincia un altro filone – i primi tentativi sono del 1963 – la reinterpretazione dei grandi maestri del Novecento. Si tratta di un citazionismo che a detta dello stesso Lichtenstein non è né un falso né una semplice copia ma una reinvenzione come nel caso del Picasso in mostra, che definisce “da discount”, in vernacolo. Accanto a quest’attività c’è il posto per l’astrazione, dove il colore prende il sopravvento e la Brushstroke, la pennellata che rappresenta il tentativo di rendere concreto qualcosa di effimero e che trova nel gesto un suo senso ma senza la prevalenza dell’azione sulla pittura come nell’Action painting di Pollack ad esempio. L’esposizione presenta anche tappeti tessuti a mano e sculture che completano l’opera di questo autore che dal 1965 comincia ad avvicinarsi al soggetto del paesaggio, contemporaneamente agli ultimi fumetti figurativi. Interessante il fatto che l’ispirazione venga da altri, spesso da opere d’arte, come da alcune tele che sembrano paesaggi di pittori giapponesi ma con la tecnica dei pois, quasi un suo marchio di fabbrica. A Lichtenstein non interessa l’originalità del soggetto quanto dello sguardo che rende la copia, segnatamente l’oggetto di uso comune spesso prodotto in serie, unico grazie all’arte: un processo inverso a quello tradizionale. La fascinazione per la “forma stampata”, cioè la riproduzione meccanica come fonte di ispirazione, che è alla base del lavoro di Roy Lichtenstein e che nella sua pittura viene attuata in un percorso che parte da una copia che viene trasformata in un originale, viene presentata in questa mostra nel suo processo inverso: da un’idea originale a una copia moltiplicata. Una ricerca che l’artista condusse nel corso di tutta la sua carriera attraverso la stampa e la manifattura, realizzando lavori pensati ad hoc (la realizzazione di una stampa o di una scultura partiva da disegni e studi preparatori, come per i dipinti) e impiegando tecniche e materiali innovativi; una pratica che diventa una forma di espressione artistica e un’estensione della sua visione estetica, costruita metodicamente da Lichtenstein in parallelo alla pittura e di cui la mostra presenta l’evoluzione a partire dai primi lavori degli anni Cinquanta.
(Sunrise 1965)
Così i suoi Landscapes, poco visti, sono di grande suggestione grazie anche all’uso del Rowlux, pellicola di plastica lenticolare, un materiale ritenuto dall’artista molto interessante per la sua qualità riflettente che simula il cielo e l’acqua.
La mostra è l’occasione per apprezzare l’arte sofisticata di Lichtenstein, riconoscibile al primo sguardo e apparentemente facile da comprendere, che ha affascinato fin dai primi anni eroici della pop art generazioni di creativi, dalla pittura alla pubblicità, dalla fotografia al design e alla moda e il potere seduttivo che essa esercita sulla cultura visiva contemporanea è ancora molto forte.
A cura di Giada Luni.