
Due romanzi portati sulla scena: un’immersione nella Napoli degli anni 50 con Ferito a morte di Raffaele La Capria per la regia di Roberto Andò e Il barone rampante di Italo Calvino diretto da Riccardo Frati, poi Remo Girone nei panni di Simon Wiesenthal, Katia Ricciarelli mamma terribile in un thriller e la ripresa di Il seme della violenza di Moisés Kaufman, firmato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia: queste le novità su alcuni palcoscenici milanesi e poi in tournée.
“Napoli ti ferisce o t’addormenta.” E’ l’amaro compendio tra amore e odio che Raffaele La Capria (1922-2022) riserva alla sua città in Ferito a morte, pubblicato nel 1961 e vincitore del Premio Strega di quell’anno. Singolare il fatto che l’azione abbia luogo in una sola giornata dell’estate 1954 ma che al contempo copra ben 11 anni, quelli del dopoguerra, con la città ancora piena di macerie e alla mercè dell’armatore e poi sindaco Achille Lauro. Si può definirlo un romanzo corale pur se incentrato sulla figura di Massimo che, dopo molti dubbi, ha deciso di lasciare Napoli per trasferirsi e lavorare a Roma, ma sono la sua famiglia e gli amici ad animarne la trama. C’è la madre possessiva, un padre debole, un fratello inconcludente, lo zio marpione, il suo professore di fede comunista che vagheggia Roma come fanno Le tre sorelle di Cechov per Mosca e la cameriera che lo vizia come fosse ancora bambino. In Massimo l’autore (che ha poi fatto la stessa scelta come altri illustri concittadini) raffigura un alter ego, inglobato in un ambiente alto borghese o di nobiltà decaduta e impoverita che trascorre le giornate tra chiacchiere, giochi di carte ai circoli esclusivi, pettegolezzi piccanti e gite a Capri e Positano. Sembrano allegri e appagati, intenti a godere dei piaceri del cibo, dell’alcol e del sesso ma in realtà a dominare sono ozio e noia che conducono a un’inevitabile senso di disillusione e disincanto e anche l’amore (quello di Massimo per Carla) non troverà sbocchi. Quando lui tornerà sei anni dopo per una breve vacanza, misurerà l’immobilità di quella società dove sembra che il tempo si sia fermato, ben lungi però dagli splendori del passato, con gli amici di gioventù che sopravvivono vivendo di espedienti.

Ad adattare il romanzo per la scena ha egregiamente provveduto Emanuele Trevi che ne ha quasi interamente rispettato la sostanza. Il regista Roberto Andò (che da poco abbiamo visto al cinema con l’eccellente Stranezza) ha intrapreso la non facile prova. “E’ sempre una sfida, forse un azzardo, ma vale la pena di correrne i rischi. Per chi come me si è innamorato del teatro nella stagione in cui grandi registi come Bob Wilson e Tadeusz Kantor contestavano l’idea corrente del teatro e ne riformulavano un’altra, totalmente diversa, affidata al tempo e allo spazio, il romanzesco rappresenta la possibilità concreta di acciuffare il tema dei temi del teatro: il fuggevole che è forse il grande tema del romanzo di questo meraviglioso scrittore, quel continuo sfumare in cui la vita perde ogni presunzione di forma solida e diviene per sempre evanescente e liquida.”
La sua regia è forte di due belle intuizioni: lo sdoppiamento del protagonista e il concerto polifonico di tutti gli altri personaggi. Ai margini della scena, disteso su un letto austero, vediamo il Massimo adulto (un misurato e sempre convincente Andrea Renzi) mentre a interagire con parenti e amici c’è il Massimo giovane (Sabatino Trombetta, ombroso e sensibile): solo nel finale si scambieranno di posizione, quando il ragazzo si sveglierà nella sua camera il giorno della partenza per Roma. Nel frattempo (e nel corso degli anni) avremo visto tanti frammenti della quotidianità della famiglia De Luca, con discussioni e ripicche tra la moglie (la risoluta Gea Martire), il marito (Giancarlo Cosentino), lo zio (Marcello Romolo), il fratello perdigiorno (l’istrionico Giovanni Ludeno), la nonna ferma nei ricordi (la struggente Aurora Quattrocchi) e le figure di contorno tra cui il prof Gaetano (Giancarlo Cresta), la cameriera Assuntina (Clio Cipolletti), tutti riuniti in un simbolico pranzo della domenica dove ognuno siede a un tavolo separato, quasi fossero sconosciuti in un ristorante, scambiandosi continuamente di posto, apparentemente conversando ma in realtà monologando in una solitudine solipsistica. Fanno contorno la delusa Carla (Laure Valentinelli) e l’amico sciupafemmine Sasà (il bravissimo Paolo Mazzarelli) che, approdato a Roma senza soldi né casa, conosciamo solo alla fine in un malinconico confronto con Massimo. Un’altra felice scelta è stata quella di affidare la realizzazione delle scene (strutture semoventi per ambientare i diversi quadri, una sorta di scatole che simboleggiano la mente di Massimo, sovrastate da una balconata incorniciata da specchi inclinati) e delle suggestive luci a Gianni Carluccio, mentre i video dove il mare ha il fascino del colore e del bianco e nero sono realizzati da Luca Scarzella, infine il suono onirico è ideato da Hubert Westkemper. Ferito a morte rimane in scena al Piccolo Teatro Strehler sino al 22 gennaio, poi al Bonci di Cesena (26-29/1) e all’Ivo Chiesa di Genova (8-11 febbraio). www.piccoloteatro.org www.teatrodinapoli.it

Di Italo Calvino, scomparso nel 1985, ricorre quest’anno il centenario della nascita e Il barone rampante, scritto nel 1957 e secondo tassello – con Il visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente – della Trilogia dei nostri antenati, rimane, insieme alla produzione compresa tra gli anni sessanta e ottanta, uno dei suoi capolavori. Collocato nel 1767, narra attraverso le parole del fratello minore Biagio la ribellione del dodicenne baronetto Cosimo il quale, dopo un litigio con la famiglia a causa di un piatto di lumache che aveva rifiutato di mangiare, decide di arrampicarsi su un albero nell’immaginaria località ligure di Ombrosa per non discenderne mai più, neppure da morto: sua dimora sono gli immensi boschi tra cui si sposta, cibandosi di quello che gli offrono i contadini o cacciando e vestendo indumenti fatti da sé. La messa in scena del giovane regista Riccardo Frati, anche responsabile dell’adattamento, fedele il più possibile alle parole del romanzo, rispettando la volontà della figlia Giovanna Calvino che non aveva mai concesso prima d’ora i diritti per la trasposizione teatrale (si ricorda solo il precedente di una mise-en-espace realizzata dallo stesso autore negli anni sessanta), intende approfondire il tema delle relazioni interpersonali in un momento storico antitetico a quello del presente, dove un personaggio si muove in alto sulle nostre teste e ci costringe a sollevare gli occhi dai dispositivi telematici in cui siamo isolati e a uscire dalla nostra individualità, salvaguardando la leggerezza della fantasia di Calvino. “Rileggendo il romanzo nel periodo del confinamento – afferma il regista – ho sentito che era perfetto per trasformarsi in uno spettacolo, seppure l’ascesa di Cosimo senza mai toccare più terra avrebbe costituito un elemento di crisi nel processo dell’allestimento teatrale. A torto confinato nel perimetro della letteratura per ragazzi, è invece un libro per tutti, ricco di spunti: dalla relazione con l’autorità al rapporto dell’uomo con l’ambiente, inoltre è un testo politico, nel senso più ecumenico del termine, un racconto nel quale ciascuno di noi può ritrovare se stesso.”
Interpretato da Mauro Avogadro, Giovanni Battaglia, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Marina Occhionero e Francesco Santagada, scene firmate da Guia Buzzi e costumi da Gianluca Sbicca, luci di Luigi Biondi e sound design curato da Davide Fasulo, Il barone rampante, nuova produzione del Piccolo Teatro, si replica alla sala Grassi sino al 5 febbraio.

Nonostante abbia girato numerosi film importanti, serie tv, oltre ad aver lavorato in teatro sotto la guida di celebri registi, Remo Girone resta involontariamente legato nella memoria di molti al personaggio di Tano Cariddi nella Piovra televisiva. Dimostrando ancora una volta la sua poliedricità, dal prototipo del “cattivo”, diventa ora sulla scena un “buono” e “giusto” per eccellenza in Il cacciatore di nazisti – L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal, in cui si racconta la storia dell’uomo (1908-2005) che, dopo essere sopravvissuto a cinque campi di sterminio, ha dedicato il resto della sua esistenza a dare la caccia ai responsabili dell’Olocausto. Con il suo lavoro d’investigazione è riuscito a consegnare alla giustizia circa 1.100 criminali nazisti, tra i quali Adolf Eichmann, colui che pianificò quella che Hitler definiva “la soluzione finale”. A lui si deve la fondazione e direzione del Jewish Documentation Center di Vienna dove intraprese le sue ricerche, senza dimenticarne l’opera di scrittore, autore di testi come The Murderers Among Us, Sunflowers e Sails of Hope. “Gi spettatori di una certa età – dice Girone – scopriranno fatti che non sapevano e i giovani si faranno un’idea di ciò che accadde. Nonostante i rischi che ha corso per le sue investigazioni e la fama ottenuta attraverso il film di Brian Gibson sulla sua vita, Wiesenthal era un uomo sempre disposto a prendersi in giro. Non è neppure certo di meritarsi i tanti riconoscimenti e anzi vorrebbe restituirli, perché non è riuscito a fare fino in fondo il suo dovere, consegnando alla giustizia solo il 5% dei 22.500 criminali nazisti inseriti nel suo schedario. Oggi alcuni sono ancora tra noi, altri speriamo siano morti di vecchiaia, ma in quell’elenco non sono conteggiati i neonazisti e i negazionisti. I suo messaggio alle generazioni future è quello di non dimenticare mai.”
Lo spettacolo, scritto e diretto da Giorgio Gallione con le scene e i costumi di Guido Fiorato, è basato sugli scritti e sulle memorie di Wiesenthal e si apre nel 2003, in quello che è il suo ultimo giorno di lavoro al centro di documentazione prima di andare in pensione. E’ l’occasione per ripercorrere gli episodi più emblematici dei 58 anni trascorsi a inseguire i responsabili della morte di 11 milioni di persone, tra cui 6 milioni di ebrei, e assume un significato particolare ora che siamo vicini al 27 gennaio, giorno della Memoria. Il cacciatore di nazisti rimane al Teatro Franco Parenti sino al 22/1, poi al Nuovo Giovanni da Udine (24/1), all’Auditorium di San Vito al Tagliamento (26/1), Comunale di Carpi (28 e 29/1), Massimo di Cagliari (1-5 febbraio), Vittorio Alfieri di Castelnuovo Garfagnana (9/2), Comunale di Lonigo (10/2), Teatro di Varese (23/2) e Bellini di Casalbuttano (24/2).

Dopo aver calcato i palcoscenici dei teatri lirici di tutto il mondo, Katia Ricciarelli ha intrapreso nel cinema la carriera di attrice: la ricordiamo infatti nei film di Pupi Avati La seconda notte di nozze e Gli amici del bar Margherita in cui è stata assai apprezzata da critica e pubblico, senza dimenticare le molte apparizioni nelle serie tv. Non poteva però non sentire il richiamo del teatro e infatti ha debuttato sulla scena nel 2008, diretta da Enrico Maria Lamanna in Gloriosa di Peter Quilter, seguito da Altro da me di Maurizio Costanzo e Enrico Vaime per la regia di Marco Mattolini. La ritroviamo ora in un thriller di Amanda Sthers e Morgan Spillemaecker, Riunione di famiglia, dove si cala nei panni di una matura mamma, imprevedibile e piena d’energia e risorse. I suoi tre figli sono giustamente tenuti a mantenerla ma uno di loro, Massimiliano, adducendo le ristrettezze economiche in cui tutti loro versano, propone agli altri due di sopprimerla, versando un potente sonnifero nel suo cocktail preferito durante la prossima visita. Beniamino e Fanny sulle prime pensano a uno scherzo e si adirano, poi cominciano a prendere in considerazione lo sciagurato piano… E’ una commedia assai disinibita con battute al vetriolo e momenti di commozione, un gioco al massacro il cui finale è ovviamente una sorpresa per lo spettatore. Diretta da Claudio Insegno (che è anche in scena), Ricciarelli ha accanto anche Fabio Ferrari e Nadia Rinaldi. Riunione di famiglia è all’Ecoteatro sino al 22/1, poi al Dehon di Bologna (3-5/2) e al Kennedy di Fasano (9/2).

Nell’ottobre del 1998 Matthew Shepard, un giovane studente gay di 22 anni, viene massacrato da due coetanei nella cittadina di Laramie nello stato del Wyoming. Dopo averlo adescato in un bar, gli assassini lo conducono in aperta campagna, abusano di lui e lo torturano inscenando una sorta di crocifissione: ritrovato il giorno seguente e portato in rianimazione, muore 5 giorni dopo. Questo episodio nato dall’odio omofobico ha spinto l’ensemble del Tectonic Theatre Project, di base a New York e guidato da Moisés Kaufman, a recarsi sul posto per intraprendere una serie di interviste alla popolazione locale affinché si esprimesse su quanto accaduto nella loro comunità, raccogliendo i giudizi più disparati, dalla condanna senza riserve, alla ricerca di attenuanti o addirittura alla giustificazione del crimine, adducendo la falsa tesi che i due erano stati provocati e sollecitati da Matthew ad appartarsi insieme. Questo materiale, compresa la toccante testimonianza dei genitori, è stato poi rielaborato da Kaufman (anche autore di Atti osceni sui tre processi a Oscar Wilde) e ha dato origine a Il seme della violenza – The Laramie Project, prezioso esempio di teatro civile che ha avuto il grande merito si spingere i legislatori degli Stati Uniti a varare una legge contro i crimini d’odio, legge che in Italia aspettiamo da anni e che probabilmente non vedremo mai nascere. La versione italiana del testo è opera del drammaturgo Emanuele Aldovrandi e lo spettacolo, prodotto dal Teatro dell’Elfo e Fondazione Campania dei Festival, ha debuttato nel 2020 al NapoliTeatroFestival dove l’abbiamo visto, per essere poi ripreso l’anno successivo e tornare adesso in scena sempre con la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Gli otto attori (Margherita Di Rauso, Giuseppe Lanino, Marta Pizzigallo, Marcela Serli, Umberto Petranca, Nicola Stravalaci, Umberto Terruso e Francesca Turrini) si calano in un vasto numero di personaggi che agiscono nella palestra di una scuola e sono tutti assai motivati, appassionati e empatici. Il seme della violenza rimane in scena all’Elfo Puccini sino al 5 febbraio.
a cura di Mario Cervio Gualersi