Al teatro Greco di Siracusa sono in corso le rappresentazioni delle tragedie e commedie nell’annuale stagione dell’Istituto del Dramma Antico: in scena si alternano La Pace di Aristofane, diretta da Daniele Salvo, con Giuseppe Battiston e Massimo Verdastro, e Medea di Euripide, per la regia di Federico Tiezzi, con Laura Marinoni e Alessandro Averone. Ce ne parlano i registi.
Da oltre cento anni non veniva rappresentata ma è stata scelta dall’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) per la 58° stagione delle tragedie e commedie al teatro Greco di Siracusa: La pace di Aristofane viene ascritta alle seconde, anche se alcune sue tematiche non sono affatto leggere, soprattutto in questo momento storico dove soffiano vicini venti di guerra. L’autore fa riferimento a quella del Peloponneso combattuta tra Atene e Sparta e, quando nel 421 a.C. con la tregua di Nicea sembrano aprirsi prospettive per la sua fine, compone la commedia. Immaginate che il vignaiolo Trigeo, esasperato per il cattivo andamento degli affari dopo che i contadini sono partiti per il fronte, decide di salire in cielo per conferire con gli dei e caldeggiare il
ritorno della Pace, imprigionata dal dio della guerra Pòlemos in un’oscura e profonda caverna. Serve però un mezzo di locomozione e ne sceglie uno davvero inconsueto: non il cavallo alato Pegaso ma un gigantesco scarabeo stercorario che i suoi servi sono costretti ad alimentare impastando enormi palle di feci, lanciandole nella gabbia in cui è rinchiuso. Una volta liberatolo, la spedizione può aver inizio sebbene tanti siano i pericoli, dato che l’animale, invece di puntare sulla meta, attratto da qualsiasi effluvio di natura scatologica, vorrebbe tornare sulla terra. Finalmente l’Olimpo è raggiunto, ma grande è il disappunto di Trigeo quando si rende conto che la dimora è deserta, dato che gli dei, esacerbati dal protrarsi delle ostilità, per protesta se ne sono andati altrove, lasciando solo Hermes a custodire le masserizie. Da lui apprende che Pòlemos, con l’aiuto del mostruoso sottoposto Macello, ha in progetto di triturare le città della Grecia in un mortaio: servono dunque i pestelli, ma l’ateniese Cleone e lo spartano Brasida, acerrimi nemici e iniziatori del conflitto, sono nel frattempo deceduti, quindi per compiere il misfatto sarà costretto a fabbricarne altri da solo. Bisogna allora sfruttare quel tempo prezioso e il vignaiolo implora tutti i greci di prodigarsi per far uscire la Pace dalla grotta: dopo dinieghi e discordie solo i contadini dell’Ellade accettano.
L’impresa è assai ardua ma, con immani sforzi e servendosi di grosse funi, alla fine è coronata dal successo. Emerge cosi la dea Eirene, accolta in tripudio dal popolo ma avversata dai mercanti di armi che vedranno precipitare le vendite: si rivolge al popolo con un forte e accorato appello a cui fa da contraltare l’indovino farlocco Ierocle che tenta di spiegare le ragioni del perdurare della guerra. I contadini possono far ritorno ai campi e Trigeo, oltre alla rassicurazione circa le proprie finanze, ha un doppio motivo per festeggiare dato che si è portato sulla terra due fanciulle: Opora, dea delle messi, e Theoria, dea della festa, e ha deciso d’impalmare la prima. Si allestisce così un goloso banchetto di nozze con libagioni e leccornie, dalle quali viene escluso Ierocle che, dopo aver tentato di sottrarne alcune, viene preso a bastonate.
Il regista Daniele Salvo, dopo che nella sua carriera aveva già affrontato Sofocle, Eschilo e Euripide (lo ricordiamo proprio a Siracusa nel 2002 assistente di Luca Ronconi per Le rane dello stesso Aristofane), oltre alle eccellenti prove come attore, si è assunto il non semplice compito di mettere in scena La Pace (al teatro Greco sino al 23 giugno), commedia che riserva alcune criticità. “Per me ha rappresentato una vera e propria sfida dato che da molti è giudicato un testo irrappresentabile o quasi. E’ pieno d’intenzioni e trovate. La mia provenienza ronconiana mi fa sempre essere rispettoso dell’autore che penso sia il regista occulto, quindi la prima cosa che cerco di fare è di decodificare il testo, senza sovrapporvi le mie idee ma partendo da ciò che l’autore vuole comunicare. Era poi necessario metter insieme un cast che potesse supportare una scrittura di questo tipo e poi, memore delle parole di Gigi Proietti il quale affermava che in Italia non si fa la commedia ma la farsa, ho cercato di evitare il cliché della battuta volgare o del ridanciano: solo in parte è una commedia ma sono presenti anche parti tragiche e drammatiche, del resto Louis De Funès diceva che per affrontare il comico bisogna sprofondare nel tragico.”
Salvo ha cosi mescolato i generi, lavorando benissimo sulle scene corali con l’inserimento di canti e balli che spesso assumono le caratteristiche di un pregevole musical. “Non dimentichiamo – aggiunge il regista – che tragedie e commedie erano sempre arricchite da canti: è come recitare un libretto d’opera senza musica perché è andata perduta. In realtà, tranne alcuni frammenti con pochissime indicazioni, non sappiamo nulla di come le tragedie venivano rappresentate: Ronconi paragonava i tempi antichi alle stelle che, partendo da milioni di anni fa, ci arrivano da lontano e possiamo solo registrare il nostro stupore e la nostra distanza, apprezzando il mistero di quella luce. Volevo in qualche modo dare fruibilità e leggerezza alla commedia soprattutto in certi momenti d’insieme: il testo lo imponeva dato che a tratti è molto esile, non ha un plot pregnante e forte e quindi bisognava sostenere la narrazione con la musica.” In effetti c’è un certo scollamento tra la prima parte, compatta e d’indubbio valore, e la seconda, più frammentata e il lungo, un po’ ripetitivo intermezzo dei festeggiamenti e anche i finali sono più di uno. Pensiamo allora a un’altra celebre commedia che Salvo ha messo più volte in scena: La tempesta. “Ci sono dei punti di contatto e delle assonanze: quello di Shakespeare è un meccanismo perfetto, è il suo testamento, dove lui spezza la bacchetta e l’incanto e i sogni finiscono. In realtà è un testo drammatico, pieno di misteri e di esoterismo. Qui manca quest’ultimo ma c’è una grande ritualità: spesso il coro compie vere e proprie cerimonie e i riferimenti sono numerosi, ad esempio per il personaggio di Macello ho pensato a Calibano ma anche in Trigeo c’è qualcosa del Bardo che di certo conosceva e attingeva ai testi dei tragici e dei commediografi. La struttura della Tempesta è molto più solida e compatta. Sia quelle di Shakespeare che le tragedie greche sono opere violente: il teatro elisabettiano e quello tragico necessitano di una recitazione non borghese né educata perché l’uomo greco non lo era, la società era diversa ed erano diverse le pulsioni. In entrambe non c’è psicologia e non si può applicare il metodo Strasberg o Stanislavskij, infine ambedue richiedono una prestazione attoriale estrema e macroscopica, oltre a stati emotivi parossistici e una verità interpretativa assoluta.”
Sappiamo bene che Aristofane, il quale a un certo punto compare in scena lanciando frecciatine al collega Euripide, strizzava l’occhio all’attualità: anche qui non manca un riferimento a Putin (Vladimir Cleonte) e ai colonnelli greci, ma senza insistere troppo. Non mancano felici e originali idee di regia come l’affidare a Eirene il monologo di Giocasta tratto dalle Fenicie di Euripide, veemente monito affinché gli uomini non si facciano accecare dalla violenza, o le parentesi comiche come le schermaglie delle figlie di Trigeo o quelle dei servi intenti alla preparazione del cibo dello scarabeo oppure l’enorme fallo, singolare regalo di nozze. Inaspettata e condivisibile dato il momento storico, la conclusione che non vogliamo svelare, diversa e molto meno ottimista di quella prospettata dall’autore. Altrettanto felice è l’impiego della scenografia, firmata da Alessandro Chiti e dominata da una colossale sfera grigio argento, simbolo del monte Olimpo, con al centro una profonda fenditura, mentre la terra viene raffigurata da una cartina geografica che Pòlemos strappa a brandelli. I costumi, creati da Daniele Gelsi, sono atemporali e di fibre povere come canapa e paglia, virati sui toni del marrone e del beige. Le installazioni sceniche come l’imponente marchingegno che solleva Trigeo al cielo sono opera di Michele Ciacciofera mentre la cura del movimento è affidata a Miki Matsuse e le musiche originali sono di Patrizio Maria D’Artista che si concede un’incursione con la Traviata di Verdi A proposito del cast, come accennava il regista, diciamo subito che è di alto profilo, a cominciare dal coro (contadini e servitori) degli allievi dell’Accademia d’Arte dell’INDA, a seguire il perfido Pòlemos di Patrizio Cigliano, la conciliante Pace di Jaqueline Bulnés e quella accorata di Elena Polic Greco del monologo euripideo. Massimo Verdastro è prima l’esilarante Ermes dal forte accento lombardo, furbo e maneggione, e poi l’avido cialtrone Ierocle e si guadagna applausi a scena aperta. Trigeo ha la fisicità e il talento di Giuseppe Battiston che sa alternare registri burberi e riflessivi ad altri ricchi d’ironia e lepidezza, ma tutti gli interpreti sono impegnati in un vincente gioco di squadra, merito anche della scorrevole traduzione di Nicola Cadone che sceglie la giusta via tra modernità e rigore filologico. Si replica nella Valle dei Templi di Agrigento il 21 e 22 luglio.
Daniele Salvo ha citato Ronconi e Proietti: non si può non chiedergli un ricordo sul suo rapporto professionale e umano con entrambi. “Gigi era una persona semplice, di una disponibilità assoluta, aveva uno sguardo disincantato sul mondo: discutevamo per ore su come dire una battuta o un’intonazione, era un vero artista come oggi ce ne sono pochi, aveva una necessità divorante di fare questo lavoro, mettendo al primo posto le preoccupazioni artistiche, proprio come Luca: ho lavorato quasi 18 anni con lui, è stato il mio maestro e mi ha insegnato tutto, ad alzare l’asticella e sfidare l’utopia. Era un instancabile sognatore, un utopista, non aveva paura di nulla e osava l’impossibile: vedeva sempre le cose da un punto di vista non allineato e anche nella realtà quotidiana trovava angolazioni inedite, ma anche un uomo dalla dolcezza ineffabile che coltivava la propria innocenza e la propria infanzia.”
Della Medea di Euripide ben sappiamo la vicenda. Emigrata a Corinto dalla barbara Colchide per seguire e sposare l’amato Giasone che aveva aiutato a conquistare il Vello D’Oro e con il quale in seguito avrà due figli, viene da quest’ultimo ripudiata per unirsi in matrimonio con Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto, al fine di assicurarsi la successione al trono. Comprensibile è la reazione della donna, lacerata tra dolore e sete di rivalsa. Il sovrano, sapendola dedita ad arti magiche, teme possa compiere qualche irreparabile misfatto e quindi decide di esiliarla all’istante con i bambini. Lei riesce a farsi concedere un giorno in più e architetta il suo diabolico piano: prima ottiene la garanzia di essere ospitata, da sola, da Egeo, re di Atene, con la promessa di guarirlo dalla sterilità e renderlo padre, poi manda in visita da Glauce marito e figli con in dono un prezioso mantello e una ghirlanda, entrambi avvelenati. La ragazza viene presto avvolta dalle fiamme e con lei muore anche il padre nel tentativo di prestarle soccorso. Al loro ritorno, dopo averli baciati e stretti a sé, Medea uccide i piccini e, incurante della sollevazione dei cittadini di Corinto e delle maledizioni miste a disperazione di Giasone, vola verso Atene a bordo del carro del Sole, trainato da draghi alati.
Rappresentata per la prima volta ad Atene nel 431 a.C. nell’ambito delle Grandi Dionisie, la tragedia viene riproposta con la regia di Federico Tiezzi che torna a Siracusa dopo aver diretto nel 2015 Ifigenia in Aulide e da lui era lecito aspettarsi un approccio non convenzionale. “Quando si parla di Medea si arriva subito all’infanticidio – afferma il regista – ma questo non è il punto d’arrivo bensì quello di partenza. E’ come se questa violenza inventata da Euripide sia stata poi ripetuta da tutti quelli che hanno inquadrato il personaggio dopo di lui: Seneca, Corneille, Corrado Alvaro, Jean Anouilh e Christa Wolf. C’è persino una Medea cubana di Rinaldo Monteiro sullo sfondo della rivoluzione castrista. Il suo passato è la Colchide, dove c’è quel pezzo del nostro inconscio che non teme il sangue: nei sogni non si ha paura dei mostri. Così tolgo a Medea quel substrato di gelosia coniugale: la sua mostruosità ha radici antiche. Potremmo paragonarla a un’eroina dei drammi di Ibsen o Strindberg: c’è una donna, un marito e l’altra, sembra il classico teorema borghese tanto che, influenzato da Freud, ero arrivato a sognare contaminazioni realistiche viscontiane. Mi sono ispirato ai quadri del nipote, Lucien Freud, e ho sviluppato l’idea di una Medea regina di un mondo naturale e violento dove il diritto è del più forte e ho trasformato la tragedia in dramma borghese, la violenza ancestrale diventa capitalista.”
La scena (firmata da Marco Rossi) si presenta nera e spoglia con al centro due tavoli e sedie altrettanto neri, illuminati da luci a led (di Gianni Pollini), ma che poi si vedrà occupata da una pedana mobile, emblema del palazzo. Ci accoglie il canto di un inno in greco antico da parte del coro, per contrasto tutto in bianco. La nutrice (a cui Debora Zuin conferisce toni di autentico affetto per Medea) racconta l’antefatto e predice sciagure ma non la morte dei piccoli. I bambini, accompagnati dal giovane pedagogo (l’austero Riccardo Livermore) compaiono con candide mascherine di conigli sul capo e infine entra in scena la protagonista che calca una verde testa d’uccello dal lungo becco ed è avvolta da un sontuoso mantello con strascico piumato. Qui dirà il primo, di natura vagamente femminista, dei cinque monologhi, contraddetto da uno successivo in cui “le donne sono incapaci di azioni nobili ma esperte di ogni male”. L’azione procede ed ecco sopraggiungere Creonte (Roberto Latini che anche qui applica il suo consueto, straniante registro vocale), tutti con maschere da coccodrillo (già usate da Tiezzi nel Freud di Stefano Massini), seguito da Giasone (Alessandro Averone, pragmatico, autoreferenziale e decisionista pro domo sua e con la giusta fisicità) in cappotto nero (gli eleganti costumi di taglio moderno tranne quelli di Medea sono opera di Giovanna Buzzi), invocando Afrodite come responsabile del suo tradimento, mentre lei gli rinfaccia di aver ucciso il serpente che difendeva il Vello d’Oro. Egeo (Luigi Tabita portatore di una nota di leggerezza con aggraziata mimica e postura) espone con franchezza il suo problema e fa la sua offerta interessata. A renderci partecipi di quanto è accaduto nella dimora sono poi il Nunzio (Sandra Toffolatti che dà voce alla comune infelicità delle donne) e la prima Coreuta (Francesca Ciocchetti, irruente e grintosa) e sempre persuasivo è l’affiatato coro degli allievi INDA. Agile e fluente la traduzione di Massimo Fusillo; musiche originali di Francesca Colasanti e maestra del coro Francesca Della Monica. Il personaggio è stato ed è un banco di prova per grandi attrici, ma non solo: ricordiamo infatti la Medea interpretata da Franco Branciaroli, diretto da Ronconi. A Siracusa ci si sono cimentate, tornando indietro nel tempo, nel 1996 Valeria Moriconi con la regia di Mario Missiroli, Maddalena Crippa diretta da Peter Stein nel 2004 e Elisabetta Pozzi nel 2009 con Krzysztof Zanussi. Laura Marinoni ha accentuato con bravura da una parte la debolezza della donna al cospetto dei potenti e del potere maschile, dall’altro la cieca pulsione di vendetta per l’oltraggio subito che non conosce limiti, proponendoci una Medea più di pancia che di testa, accolta sempre con entusiasmo dal pubblico in ogni sua uscita. Si replica al teatro Greco sino al 24 giugno con successiva tournée nazionale.
Il ciclo di questa stagione si era aperto con il Prometeo Incatenato di Eschilo per la regia di Leo Muscato e chiuderà con Ulisse, l’ultima Odissea, tratto da Omero e diretto da Giuliano Peparini, in scena dal 29/6 al 2/7. Già annunciato il cartellone del prossimo anno che comprende gli allestimenti dell’Aiace di Sofocle, Ippolito di Euripide e il Miles Gloriosus di Plauto.
A cura di Mario Cervio Gualersi