E’ il dramma dell’incapacità di essere felici. Così potremmo in sintesi definire Zio Vanja, scritto tra il 1896 e ‘97 da Anton Cechov (1860-1904) e rappresentato per la prima volta al Teatro d’Arte di Mosca due anni dopo con la regia di Stanislavskij e Dancenko.
E’ un’infelicità esistenziale che attanaglia tutti i personaggi principali, dal protagonista Vanja che, giunto alla mezza età, traccia un bilancio fallimentare della sua vita: non è stato capace di dichiararsi a Elena, la donna che poteva diventare sua moglie, ha idealizzato Alexandr, il cognato accademico, ritenendolo un genio per poi ridimensionarne la statura e scoprirne la mediocrità. Dal canto suo il dottor Astrov, in preda a pulsioni autodistruttive, si è rifugiato nella vodka, ha smesso di credere alla sua professione intesa come missione e, single senza legami, l’unico interesse che lo mantiene vivo è l’amore e la cura per l’ambiente naturale che lo circonda. C’è poi Sonja che, rimasta orfana della madre Vera, conduce una vita di sacrificio con Vanja, occupandosi della tenuta di proprietà di Alexandr: è da sempre innamorata di Astrov ma non glielo ha mai confessato, temendo di essergli indifferente a causa della sua scarsa avvenenza. Infine ecco Elena, la bellissima e giovane seconda moglie di Alexandr: nonostante la grande differenza d’età lo aveva genuinamente amato ma ora la passione è svanita e deve fare i conti col suo carattere irascibile e prepotente, oltre alla salute malferma, ma è incapace di tradirlo pur avendo più di un uomo ai suoi piedi.
A cimentarsi con la pièce è il regista Leonardo Lidi che porta a compimento il nuovo tassello della Trilogia Cechov, iniziata lo scorso anno con Il gabbiano. “La seconda parte del progetto Cechov”, afferma Lidi, “abbandona il gioco e s’imbruttisce col tempo. Spazza via i contadini che citano Dante a memoria per consentire un abuso edilizio ambizioso e muscolare. C’era un grande prato verde dove nascono speranze e noi ci abbiamo costruito una casa asfissiante con troppe inutili stanze a occupare ogni spazio vitale. Avevamo uomini e donne che cercavano la vita attraverso l’amore ma abbiamo preferito prenderne le distanze. Se nel Gabbiano sprecavamo carta e tempo nel ragionare sulla forma più corretta con la quale passare emozioni al pubblico, divisi tra realismo e simbolismo, tra poesia e prosa, tra registi, scrittori e attrici, e ci bastava una panchina per tormentarci dei dolori del cuore, in Zio Vanja l’arte è relegata a concetto museale, uno sterile intellettualismo che non pensa più al suo popolo, che annoia la passione e permette agli incapaci di vivere di teatro. E allora che questa strana famiglia cantata da Cechov abbia la faccia di Gaber, la sua maschera irriverente, che sia stonata e sgrammaticata, sconfitta dai propri fantasmi, ripugnante e fastidiosa, più profonda del raglio di un asino messo a pilotare un aereo che sta per schiantare”.
La trama è nota e ne accenniamo per sommi capi. L’improvviso arrivo di Alexandr e di Elena nella tenuta di campagna sconvolge l’esistenza tranquilla e scandita dai compiti gestionali e amministrativi di Vanja e Sonja, al pari di quelle di Marija, madre di Vanja e nonna di Sonja, e della balia Marina, oltre a quella del dottor Astrov che, se in passato faceva solo fugaci visite per dovere professionale, ora sembra non volersene andare mai. Tutti/e gravitano intorno alla coppia, con Alexandr che li assilla con i suoi diktat e impone nuovi orari dei pasti, e con Elena che deve tenere a bada le avance amorose di Vanja e quelle sessuali di Astrov.
A turno quest’ultimo, Vanja ed Elena manifestano l’insoddisfazione per un presente che non li vede vivere ma sopravvivere: inizia Astrov che parla con Marina chiedendole se ora che “non voglio niente, non ho bisogno di niente, non amo nessuno” sia poi tanto cambiato rispetto a un tempo; poi tocca a Vanja che rimpiange i tanti anni trascorsi a lavorare per quel cognato ingrato che adesso con livore giudica aver sempre venduto aria fritta nelle sue pubblicazioni tanto ammirate dalla suocera Marija che invece lo adora; Elena e Sonja abbandonano la reciproca diffidenza e si confidano a cuore aperto: la prima con il suo scontento per un’esistenza senza amore e costretta nel vincolo matrimoniale, la seconda con la passione inespressa per Astrov, il cui disinteresse per la ragazza verrà confermato dopo che Elena ne ha sondato il pensiero per conto della figliastra. I loro dialoghi sembrano in realtà monologhi, veri “a parte” nei quali i personaggi si rivolgono a se stessi.
La situazione precipita quando Alexandr convoca la famiglia per annunciare la volontà di vendere la tenuta e trasformare il ricavato in azioni e nell’acquisto di una villa in Finlandia per lui e la moglie. Comprensibile la furibonda reazione di Vanja che, dando prima fiato a tutto il suo rancore, gli chiede dove mai lui, figlia, madre e balia andranno a vivere, poi per ben due volte impugna un revolver e gli spara, sempre mancandolo. A questo punto Alexandr decide di lasciare immediatamente la tenuta, rinunciando ai suoi propositi. Prima della partenza di Elena, Vanja vuole manifestarle per l’ultima volta il suo sentimento ma la coglie in un quasi amplesso con Astrov. Disperato, ruba una fiala di morfina a quest’ultimo per suicidarsi ma viene scoperto e convinto da Sonja a restituirla. Loro due riprenderanno la triste e solitaria vita di prima e anche Astrov si congeda da Vanja con la malinconica speranza che “quando riposeremo nelle nostre tombe, vengano a visitarci visioni almeno piacevoli”. E’ significativo che Cechov per i personaggi maschili usi spesso l’aggettivo “bislacco”: essi risultano infatti insicuri, goffi e inadeguati, mentre quelli femminili come Elena (ma anche la Mascia di Tre sorelle e Liubov del Giardino dei ciliegi) hanno più personalità, quasi siano delle protofemministe.
La regia di Leonardo Lidi (forse con meno interventi sul testo rispetto al Gabbiano) è di grande fascino e ci ha ricordato la coralità dei lavori del russo Lev Dodin. Non si contano le felici invenzioni che costellano lo spettacolo, gradevolmente orientato verso il grottesco e con qualche tuffo nella comicità, dall’assalto erotico di Astrov su Elena che prende il sopravvento e cavalca lo spasimante, a Alexandr che in mutande candide, le solleva osservando sconsolato l’inerzia della sua virilità, il richiamo al tragico presente con i disegni dei boschi amati da Astrov fatti da bambini, inframmezzati da un’immagine degli edifici bombardati in Ucraina, oltre al cagnolino nero che scorrazza indisturbato lungo il palcoscenico. Riteniamo questa prova del regista un’ulteriore conferma del suo talento di dare nuova, originale linfa ai classici. Altrettanto felice è la scelta della scena fissa (firmata come le luci da Nicolas Bovey): un fondale di pannelli lignei con panca sottostante dove siedono i personaggi e dal quale entrano ed escono con difficoltà, evidenziando il senso di claustrofobia e dal cui retro sembra che non perdano una parola di quanto accade all’esterno.
Gi interpreti mettono a segno un perfetto gioco di squadra, tutti centrati nei propri ruoli: da Massimiliano Speziani, tenero, impacciato, veemente Vanja, Mario Pirrello, disilluso ecologista della prima ora, Giuliana Vigogna, struggente e rassegnata Sonja, Ilaria Falini, Elena bramosa d’amore sotto la parrucca cotonata, Maurizio Cardillo, arrogante Alexandr, Francesca Mazza (Marina), Angela Malfitano (Marija), poi Giordano Agrusta e Tino Rossi. La fluida traduzione è di Fausto Malcovati, i costumi, una sinfonia di colori pastello, sono di Aurora Damanti e il suono di Angelo Visioli. Zio Vanja, prodotto dallo Stabile dell’Umbria in coproduzione con lo Stabile di Torino e il Festival dei Due Mondi, dopo il debutto la scorsa estate a Spoleto e la sosta al Piccolo di Milano dove l’abbiamo visto, rimane in scena sino al 28 aprile al Mercadante di Napoli e conclude la lunga tournée al teatro Dell’Unione di Viterbo (30 aprile). Insieme al Gabbiano e al Giardino dei ciliegi, ultimo capitolo della Trilogia, sarà nell’attesa maratona in cartellone al Caio Melisso di Spoleto il 7 luglio.
E’ uno dei nostri giovani registi più attenti alla drammaturgia contemporanea straniera. Jacopo Gassmann, dopo aver approfondito l’opera dello spagnolo Juan Mayorga in Nocturnal, La pace perpetua e Il ragazzo dell’ultimo banco, ha affrontato la drammaturgia inglese e americana con la traduzione e regia sia di Confirmation e There Has Possibly Been An Incident di Chris Thorpe che di Disgraced di Ayad Akthar, ha firmato la regia di Niente di me del norvegese Arne Lygre e ora si confronta con uno dei più noti e complessi autori britannici, Martin Crimp, mettendo in scena The City.
Crimp, scrittore e drammaturgo, classe 1956, è considerato l’erede morale di Harold Pinter e Samuel Beckett e questi Maestri già fanno intendere i temi e lo stile dei suoi lavori: la minaccia che dall’esterno può cambiare o sconvolgere le nostre vite, l’autoreferenzialità che finisce per non far conoscere se stessi né tantomeno gli altri, la presunta realtà di fatti che spesso risulta contradditoria, la lingua allusiva, frammentata, i dialoghi spesso non conclusi o lasciati a metà. La sua influenza ha segnato l’opera dei più giovani colleghi Mark Ravenhill e Sarah Kane. Dopo una parentesi come sceneggiatore per la Thames TV, dal 1997 ha iniziato a collaborare con il Royal Court Theatre di Londra, dalla fine degli anni cinquanta fucina della nuova drammaturgia inglese, dove hanno debuttato sia Attempts On Her Life (arrivato due anni dopo al Piccolo come Tracce di Anne, diretto da Katie Mitchell), rimasto il suo testo più celebre e tradotto in 20 lingue, che The City nel 2008.
“Crimp”, dice Gassmann, “va contro una certa tradizione britannica di naturalismo: il suo è un teatro che definirei post-apocalittico, che viene dopo la frammentazione della parola, lui rimette insieme le ceneri del linguaggio stesso. E’ un autore anomalo e anche molto duro, per certi versi enigmatico, che pone domande senza risolverle, lasciando al regista e agli attori il compito di farlo. The City è un testo formidabile, diverso rispetto ad altre sue opere più sperimentali come Attempts On Her Life. L’ho trovato particolarmente intrigante perché gioca a un finto naturalismo: ha infatti un suo intreccio narrativo ma al suo interno ci sono molteplici fratture. E’ interessante”, aggiunge il regista, “perché è un Crimp più morbido, che consente di seguire una storia che si dipana come un enigma, un mistero. Il titolo evoca tutti quei non luoghi delle metropoli contemporanee come i due che vengono citati sin dall’inizio: una stazione e un’azienda che sta riorganizzando il personale. C’è anche il tema attualissimo della disoccupazione o del rischio di perdere il lavoro in questo mondo di impieghi flessibili. Crimp è un autore cerebrale ma The City è un testo profondamente struggente ed emotivo: tutti i personaggi a un certo punto sembrano collassare su se stessi, di fronte all’impossibilità di procedere in un mondo che si fa sempre più complesso e farraginoso, evaporano dentro i loro tentativi di esistere, di darsi un’identità attraverso la parola”.
Chris e Clair sono una coppia di coniugi della media borghesia: lui è impiegato in un’azienda informatica e lei fa la traduttrice. Avvertiamo che la loro relazione è in crisi, anche a causa della motivata preoccupazione di lui di perdere il lavoro dal momento che la sua divisione ha intenzione di operare tagli allo staff, cosa che lo rende teso e irritabile anche nei confronti dei figli. Si aggiunge poi la scarsa empatia di lei, chiusa nel suo mondo e reduce da un misterioso e ambiguo incontro alla stazione con lo scrittore vedovo Mohamed che le ha consegnato un diario intonso, in origine destinato alla figlia di lui, dalla quale afferma di essere stato separato senza ragione dalla cognata. Lei lo rivedrà a Lisbona dove a un congresso le viene chiesto di fare l’interprete e questo provoca in Chris un moto di gelosia. A destabilizzare ulteriormente la situazione compare poi la vicina Jenny che si lamenta per le urla dei loro bambini nel giardino: è un’infermiera e fa il turno di notte, quindi ha necessità di riposare durante il giorno. Una volta sciolte la tensioni, Jenny racconta che il marito è impegnato in una guerra segreta all’estero, in cui le città vengono letteralmente polverizzate e gli abitanti uccisi o torturati, con le madri che si vedono strappare i figli dal seno: per questa e altre ragioni lei lo odia. Trascorre del tempo: Chris è stato licenziato e ora lavora come macellaio con l’amico Sam; Clair è tornata da Lisbona dove racconta di aver condiviso la camera d’albergo con Mohamed ma di non aver fatto sesso con lui, inoltre l’uomo le ha confessato che ad allontanare la figlia da casa è stato lui stesso. Il diario regalatole forse servirà a Clair a fare i primi passi per soddisfare la sua ambizione di diventare una scrittrice, ma è evidente che il rapporto con il marito è compromesso e si sta man mano sgretolando. Il finale è ovviamente aperto e ne ignoriamo gli sviluppi.
Crimp, che ha dichiarato di essere stato influenzato per la pièce dalla lettura di L’uomo flessibile di Richard Sennet e da Il pomeriggio di uno scrittore di Peter Handke, ha scritto una commedia nera, dove la città del titolo è forse una metafora della città interiore di Clair, dove trama e linguaggio sono stratificati a più livelli e l’ambiguità e il mistero sono note costanti: la figlia adolescente, ad esempio, indossa, adattati alla sua taglia, gli stessi abiti di Jenny e ha anche lei un comportamento straniante.
La regia di Jacopo Gassmann procede con mano ferma e mette benissimo in evidenza tutte queste componenti con il nitore e l’essenzialità che ben conosciamo e che sono una sua pregevole caratteristica. Lo spettacolo è anche una gioia per gli occhi grazie alla splendida scena (una sorta di scatole cinesi a incastro o di obiettivo fotografico che si allarga e rimpicciolisce) ideata da Gregorio Zurla che firma anche i costumi. Merito dell’ottima riuscita va anche all’eccellente interpretazione di Christian La Rosa, inquieto, umbratile ma mai piegato Chris, Lorenza Guidone, dura, sprezzante ma forse insicura Clair, e Olga Rossi, enigmatica Jenny, oltre alla piccola debuttante Lea Lucioli, la Ragazzina. Le luci perfette e livide sono di Gianni Stampoli e il congeniale disegno sonoro di Zeno Gabaglio. The City, prodotta da LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Stabile del Veneto, Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro e Teatro Piemonte Europa, dopo il debutto al LAC in febbraio ha concluso nelle scorse settimane la tournée all’Elfo di Milano ed è auspicabile la ripresa nella prossima stagione.
a cura di Mario Cervio Gualersi