Con l’inizio del nuovo anno molte sono le nuove proposte e i debutti nelle sale milanesi, da Lustrini di Antonio Tarantino, ai classici rivisitati da Toni Servillo e Giuseppe Montesano, un inedito Galileo Galilei proiettato nel futuro e infine Veronica Pivetti protagonista di un originale musical.
Il suo primo amore era stata la pittura e al teatro era arrivato tardi: Antonio Tarantino (1938-2020) è uno tra nostri drammaturghi contemporanei più valenti eppure, forse anche a causa del carattere schivo e riservato, non a sufficienza valorizzato dal nostro teatro. Il merito di averlo fatto conoscere a registi e addetti ai lavori è stato del critico Franco Quadri che per la sua casa editrice Ubulibri pubblicò ben tre volumi dedicati alla sua opera. Il primo, Quattro atti profani, comprende La passione secondo Giovanni del 1993, Stabat mater (testo vincitore del Premio Riccione di cui ricordiamo la folgorante interpretazione di Piera Degli Esposti), Vespro della beata vergine del ’94 e Lustrini del ’96, riassunti con il titolo di Tetralogia delle cure, messa in scena prima dal regista Cherif e nel 2009 da Valter Malosti per lo Stabile di Torino. La sua scrittura appare subito connotata da tratti che spaziano dal religioso al tragico e molto al grottesco ed è stata avvicinata a quella di Carlo Emilio Gadda per l’originale invenzione di parole miscelate tra dialetti, italiano e lingue straniere. Altro segno distintivo è la sua disincantata ironia: “Del teatro non m’importava proprio niente: l’esigenza di farlo è sorta alla fine della mia stagione pittorica quando cercavo un’altra strada che potesse giustificare la mia esistenza.” I suoi personaggi sono antieroi, emarginati e reietti, violentati e straziati dalla vita.
Un’altra importante fase del suo percorso è quella segnata da Materiali per una tragedia tedesca, ciclopica pièce su una delle pagine più oscure della storia recente della Germania: le bombe, i rapimenti e le stragi compiute dalla banda Baader-Meinhof negli anni settanta e la misteriosa morte in carcere dei due terroristi. “La Storia è come una sfinge: promette senza mantenere o getta sul piatto cose imprevedibili. Io sono giunto a una conclusione provvisoria: non c’è niente di prevedibile, non si possono avanzare certezze, non c’è nessun determinismo. Il nostro pensiero è traviato da molte idee rassicuranti, come oppio che ci impedirà di vedere le cose per quelle che sono, semmai sia possibile dotarsi di efficaci strumenti di analisi.” Anche questa pièce fu messa in scena da Cherif al Piccolo Teatro nel 2000 e si aggiudicò il Premio Ubu. A seguire ci sono state La pace nel 2002 e La casa di Ramallah, viaggio di una famiglia nella martoriata Palestina, oggetto prima di una lettura scenica di Cherif e nel 2010 diretta Antonio Calenda con Giorgio Albertazzi. Successivamente Tarantino si dedica ad alcune riscritture dei classici come Medea e Piccola Antigone del 2012; nello stesso anno Andrèe Ruth Shammah firma la regia di Esequie solenni (ripresa in questa stagione da Renzo Martinelli) dove si confrontano due vedove, Franca e Leona, interrogandosi su come gestire al meglio i funerali pubblici dei mariti, in cui l’autore adombra De Gasperi e Togliatti. L’ultima sua creazione è Doglie, un libretto d’opera, rappresentata al teatro Lirico Sperimentale di Spoleto con la regia di Sandra De Falco nel 2013 Angustiato negli ultimi anni vita da problemi economici, è assai triste pensare che una figura di così grande talento abbia potuto sostentarsi solo con il supporto della legge Bacchelli.
Lustrini, ultimo tassello della Tetralogia delle cure, copre lo spazio di una sola serata. Siamo in un parchetto di periferia e su una panchina, infreddoliti dal gelo, due homeless architettano un piano per racimolare qualche soldo e passare almeno una notte al caldo. Sono Cavagna, un bullo, cialtrone e prevaricatore con i più deboli ma sotto sotto pusillanime e inconcludente: si proclama sciupafemmine invece è quantomeno bisessuale e ha una storia, che lui a stento ammette come unicamente di natura sessuale ma che è in realtà cementata da un rapporto d’amore, con Lustrini, il suo compagno di sventura. Quest’ultimo, cresciuto ed educato dai preti, seminarista mancato e poi maestro elementare, fervente attivista del fu Partito Comunista, ha poi attraversato una grave crisi ideologica e esistenziale che lo ha fatto man mano precipitare in una penosa deriva, causata anche dall’abuso di alcol, prima, ancora giovane, campando con le marchette nei cinema porno, per finire poi con la maturità come uno dei molti disgraziati che, come ben vediamo anche oggi, cercano riparo per la notte sotto portici, ponti o nei casolari abbandonati. Di Cavagna lui è da sempre innamorato, ne sopporta tutte le angherie e gli sfottò
sui suoi trascorsi in seminario: “Tu che sei venuto su dai preti che ti hanno insegnato a fare sesso con gli orfanelli…” tuttavia ne soddisfa gli impulsi sessuali che si manifestano con ordini perentori ogni volta che l’altro ne abbia desiderio. Anche in questa serata, purché debolissimo per il digiuno e minato nella salute, accondiscende a partecipare a un suo piano per estorcere del denaro a un primario all’uscita della sua lussuosa clinica. Come da consuetudine, Cavagna impartisce le direttive ma a entrare in azione delega Lustrini, pur vedendolo così malridotto, e quando si rende conto che l’amico non riesce più neppure a muoversi, viene preso da una furia cieca e gli si avventa contro, decidendo lui stesso di tentare l’estorsione. Le premesse di questa sortita sono negative e infatti la tragedia incombe nel finale. Scritto con un linguaggio crudo che non ricorre ad allusioni ma procede diretto senza risparmiare nulla, è però decisamente coerente con il vissuto e la quotidianità dei due personaggi e rende alla perfezione l’idea di degrado, disperazione ma anche di un rapporto d’amore puro e duraturo. Per la sua regia Cherif, che presentò nell’ambito della rassegna lgbt Garofano Verde a Roma nel 1997, aveva chiamato Paolo Bonacelli (poi sostituito da Giancarlo Condè) per Cavagna e Massimo Foschi per Lustrini. Nella sua messa in scena per il Teatro dell’Elfo Luca Toracca (che aspettava di cimentarsi in questo testo sin dal 2006) si riserva il ruolo di Lustrini e affida quello di Cavagna all’attore e amico salentino Ivan Raganato che presta fisicità, giusti accenti burberi e arroganti nonché violenza non solo verbale. Toracca dà al suo personaggio struggente dolcezza e remissività, concedendosi anche qualche tocco ironico che ridimensiona l’ego ipertrofico di Cavagna: insieme sono una coppia di grande alchimia e affiatamento in uno spettacolo, valorizzato dalle scene e costumi di Ferdinando Bruni, che si replica al Teatro Elfo Puccini di Milano sino al 22 gennaio e che merita sicuramente di essere visto in un’auspicabile tournée.
Quando, parlando di teatro, si cita Galileo, il pensiero corre subito a Vita di Galileo di Bertold Brecht, allestito al Piccolo Teatro da Giorgio Strehler nel 1963 con Tino Buazzelli superbo protagonista, di recente riproposto in video nella rassegna Strehler100. Alla sua figura, divisa tra la libertà e gioia del sapere e i suoi pericoli, fatiche e schiavitù, s’ispira la scrittura a quattro mani di Angela Demattè e Fabrizio Sinisi per Processo a Galileo con la regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici: tre storie composte da un prologo ambientato nel passato storico, quello dell’abiura forzata nel 1633, seguita alle vessazioni sopportate nel corso dei due mesi della causa intentatagli per eresia, in quanto sostenitore della teoria copernicana eliocentrica in opposizione a quella geocentrica, sostenuta dalla Chiesa cattolica. E’ questo il punto di partenza per affrontare i diversi temi in gioco: il rapporto tra la scienza e il potere, la tradizione e la coscienza. La seconda storia ci riconduce al presente: qui una donna, madre e intellettuale, è chiamata da una rivista divulgativa a illustrare le nuove sfide e i problemi della scienza. Il lutto familiare che sta elaborando provoca un corto circuito nei dialoghi che sta intessendo con uno scienziato e con sua madre, costringendola a mettere in discussione la sua visione del mondo. Il terzo tassello ci sospinge nel futuro in cui ogni realismo si frantuma e i personaggi danno voce a un’invettiva contro un Galileo che non è più solo visto come imputato di un tribunale ecclesiastico ma come il portavoce di un processo storico e culturale che ha unito in maniera indissolubile la ricerca scientifica alla capacità tecnica, assimilando così il concetto di progresso di una società alla potenza dei suoi dispositivi tecnologici. Tre processi che indagano i destini e gli interrogativi del mondo contemporaneo e di quella che oggi chiamiamo modernità. Frutto di un’inedita collaborazione artistica e produttiva tra importanti realtà del panorama teatrale, lo spettacolo vede in scena Luca Lazzareschi e Milvia Marigliano, insieme a Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi e Isacco Venturini; le scene sono di Daniele Spanò, i costumi di Margherita Baldoni, disegno luci di Pasquale Mari e progetto sonoro di GUP Alcaro. Al Piccolo Teatro Strehler dal 10 al 15 gennaio, poi al Civico di La Spezia (17/1) e al Sociale di Brescia (19 e 20/1).
Toni Servillo ci ha abituati a vederlo alternarsi tra cinema (è ora sugli schermi in La stranezza, diretto da Roberto Andò, in cui interpreta Pirandello) e teatro. Lo ritroviamo alle prese con tre capisaldi della letteratura, Baudelaire, Dante e i greci, rivisitati da Giuseppe Montesano, nello one-man-show Tre modi per non morire. In Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte? si racconta come la bellezza combatta la depressione e l’ingiustizia; Le voci di Dante ci rende partecipi della trasformazione della poesia in romanzo e nel Fuoco sapiente ci mostra come poesia e filosofia greche facciano scaturire una visione che preconizza il futuro. E’ un viaggio teatrale che Servillo compie nelle evocazioni di Montesano ma anche un cammino che vuole essere un antidoto alla paralisi del pensiero, alla non vita che tenta di ingoiarci. Se i greci hanno inventato il teatro per conoscere se stessi e trovare quel respiro della mente che apre nuovi orizzonti, questo recital è una via per ritrovare quelle parole che un attore dice con corpo e mente per nutrire la sua e la nostra interiorità. Nuova produzione del Piccolo Teatro, Tre modi per non morire è al teatro Studio Melato dall’11 al 22/1 e al Bellini di Napoli dal 24 al 29/1.
Nel periodo delle festività natalizie, appena terminate, il pubblico apprezza spettacoli d’intrattenimento e premia soprattutto i musical: ci sono quelli già celebri come Sister Act ma trovano spazio e consensi anche proposte inedite come quella di Stanno sparando sulla nostra canzone, una black story musicale di Giovanna Gra su musiche di Alessandro Nidi e con l’ideazione scenica di Gra&Mramor. Facendo un bel salto temporale ci ritroviamo a Manhattan nel 1926, quando si è da poco spenta l’epidemia della spagnola, con la città in pieno
proibizionismo e dilaniata dalle rivalità a ritmo di mitra fra bande di gangster. Qui Jenny Talento (Veronica Pivetti) è una fioraia che sottobanco, assoldata dal malavitoso Micky Malandrino (Cristian Ruiz), smercia oppio con l’intento di arricchirsi. Suo malgrado s’innamora dello spiantato ma fascinoso giocatore di poker Nino Miseria (Brian Boccuni): il pressante corteggiamento di quest’ultimo alla fine viene premiato e la passione divampa. Presto però la reciproca gelosia prende il sopravvento e cominciano anche i problemi: Micky, che vorrebbe Jenny tutta per sé, le chiede di rimborsargli il debito contratto con lui da Nino e, visto che lei non è in grado, propone un pagamento rateale… in natura. Jenny rifiuta, convinta del supporto di Nino in questa scelta ma deve amaramente constatare che lui invece acconsente. E’ chiaro che a queste condizioni l’amore tra i due ha vita breve e infatti lei decide di lasciarlo per diventare l’amante di Micky. Il finale riserva però ben altri colpi di scena che non si possono svelare. La scelta decisamente singolare degli autori è stata quella d’innestare su una vicenda collocata negli anni venti hit pop e rock dei nostri giorni come I will survive della Gaynor, Delilah e Sex Bomb portate al successo da Tom Jones, I’ll never fall in love again di Dionne Warwick o addirittura Renato Zero, in un’apparente contraddizione che però funziona e avvince gli spettatori. Veronica Pivetti, già vista in Victor und Victoria, dona a Jenny la sua voce calda, l’esuberanza e la presenza scenica, Cristian Ruiz è un malandrino simpaticamente sopra le righe e Brian Boccuni (il più completo nella specificità del genere musical) mette a profitto fisicità e talento nel ballo e nel canto. Al teatro Franco Parenti di Milano sino all’8 gennaio e il 14 e 15/1 all’Alfieri di Torino.
a cura di Mario Cervio Gualersi