di Simone Strocchi,
presidente e managing partner di Electa Ventures
articolo pubblicato su Linkedin
Stando ai multipli, oggi sembrerebbe molto più conveniente investire in Borsa, dove troviamo belle aziende a valori scontati che, a parità di settore e size, sono contese sui mercati privati da fondi di private equity a valorizzazioni a multipli significativamente più elevati. Guardando alle statistiche e alle aspettative sembra che il private equity, nonostante sopporti multipli di ingresso più alti, non conosca significativa battuta di arresto. Al contrario, viviamo una stagione di delisting spesso sponsorizzati da fondi private equity, che vedono nelle società trattate in borsa un vivaio di opportunità di investimento al lordo del premio d’opa (si veda qui l’inchiesta di copertina di BeBeez Magazine n. 15 del 25 novembre 2023, ndr).
Ma la società che in Borsa “non piace”, sulle cui azioni c’è più lettera che denaro, perché “piace” al private equity? Se l’oggetto è il medesimo e la ricerca di performance anche, la spiegazione va ricercata nella differenza di approccio di chi sostiene l’investimento.
Il private equity, che ha raccolto capitali in contenitori chiusi (fondi chiusi, non riscattabili), non deve rispettare indici di liquidità giornaliera sul proprio NAV, sostiene un numero di investimenti circoscritto e guarda nel medio lungo periodo, affiancando imprenditori e manager delle società in cui investe per sostenere progetti di sviluppo anche con m&a (aggregazione).
In Borsa, perlopiù, l’investitore è un trader che ragiona nel breve periodo, o un fondo Ucits aperto che deve garantire un indice elevato di liquidità sul proprio NAV, sostiene moltissimi investimenti e generalmente non assume un atteggiamento attivo e propositivo per quanto riguarda la realizzazione dei progetti di crescita aziendale. La liquidità è uscita dai fondi Ucits attratta da fixed income, determinando una pioggia di vendite che ha depresso soprattutto i titoli sottili delle pmi quotate a prescindere dai loro fondamentali. I fondi di private equity, essendo chiusi, non hanno visto una emorragia di capitali, ma devono ricorrere a una leva finanziaria inferiore a causa dell’incrementato dei costi del denaro (in sostanza devono sostenere prezzi di
acquisto con una componente maggiore di equity).
Gli investitori di Borsa sono quindi diminuiti in numero e in consistenza di capitali perché c’è stato un massivo spostamento di liquidità sui fixed income. Mentre i fondi private equity hanno resistito in numero, ma indirettamente hanno diminuito la capacità complessiva di sostenere investimenti per la contrazione del ricorso alla leva finanziaria. I capitali, comunque, ci sono ancora, sia da un lato sia dall’altro, e la vera differenza tra investitori di borsa e investitori di private equity è che i primi hanno strategie di breve periodo e sono in costante affannosa ricerca di liquidità, mentre i secondi hanno un approccio attivo, supportivo e di medio lungo periodo.
Da queste considerazioni mi sembra lapalissiano che sia urgente, opportuno e interessante approcciare le pmi sul listino in modo diverso rispetto a quanto fanno trader e fondi Ucits. La chiave di successo sta nell’implementare sulle pmi trattate in Borsa un approccio da private investor in public equity, ovvero mutuando le caratteristiche vincenti del private equity: fondi chiusi, pazienza, attenzione ai fondamentali e coinvolgimento nell’approcciare investimenti nel capitale di società sui listini, senza arrivare all’estremizzazione dell’opa.
Qualcuno osserverà che l’exit a termine, comunque, è più performante farla in contesti privati, avendo diritto di trascinamento di tutto il capitale della società nel momento di vendita/realizzo, prerogativa dei fondi private equity quando assumono una partecipazione nel capitale di una società privata. Operando nel PIPE, su società quotata, questa mancanza di boost al liquidity event è già scontata nel valore di ingresso sui titoli quotati e, lasciatemelo dire, rappresenta un investimento di sistema a beneficio della nostra comunità, per evitare di trasferire nel tempo la governance delle nostre più belle società in mani straniere. Un diffuso e ripetuto “trascinamento alla vendita”, che spetta per pattuizione parasociale ai fondi di private equity sulle proprie partecipazioni, può finire nel tempo per impoverire il Paese.