di Serena Torielli, cofondatore di AdviseOnly
Commento pubblicato su Linkedin il 29 settembre 2017
E’ davvero emozionante vedere come, seppur con qualche anno di ritardo il tema dell’innovazione tecnologica nel settore finanziario finisca per la prima volta sulle prime pagine dei media più importanti e domini le conversazioni su Linkedin anche in lingua italiana.
Questo sicuramente grazie alla recente inaugurazione del Fintech District a Milano, cui hanno partecipato il ministro dell’Economia, un rappresentante del Parlamento che coordina gli sforzi sul tema, il sindaco e rappresentanti dei regulator, oltre a molte figure di spicco del settore e tanti amici personali.
Per questo, però dobbiamo ringraziare in primis una banca privata di medie dimensioni, Banca Sella, una banca fondata da una famiglia di imprenditori (e questo non è un caso) di Biella che ha dimostrato ormai da molti anni come l’innovazione e la tecnologia siano scritti nel suo dna. Banca Sella forse per il carattere piemontese che predilige l’understatement, non ha mai riempito le prime pagine dei giornali, ma sono stati i primi in Italia a fare quasi tutto, dai conti online ai pagamenti elettronici, le app, il laboratorio per l’innovazione.
I risultati si vedono. Non è una caso che Banca Sella sia la prima banca in Italia e tra le prime in Europa ad aver realizzato le API in compliance con i dettami dell’open banking e della normativa PSD2, vero acceleratore dell’innovazione della tecnologia finanziaria, mentre le altre banche sul tema sembrano avere non pochi grattacapi.
Ma tornando all’evento cui ho partecipato in prima persona posso dire che è stato un evento bellissimo, a partire dalla location molto in stile Canary Wharf. Bravi tutti gli speakers. Tanta gente, tanti giornalisti. Eccellente persino il rinfresco.
In particolare ho apprezzato l’intervento di Paolo Galvani, uno dei fondatori di Moneyfarm, una delle startup più conosciute ,che per portare avanti il suo progetto ha scelto, o meglio è stata costretta, a spostarsi a Londra. Paolo ha esposto con grande chiarezza e semplicità il problema: per fare fintech servono capitali di rischio e un’infrastruttura che in Italia non ci sono. Non crediate che Paolo e Giovanni (Daprà, l’altro fondatore) si siano divertiti a montare la macchina e aspettare otto mesi per l’autorizzazione in Italia, poi quasi altrettanti per ottenere quella inglese e ora rischiano di dover cambiare ancora di fronte alle incertezze della Brexit.
I regulator italiani vengono sempre additati come i cattivoni della storia, ma questo è troppo facile, la regulation per la finanza è ormai da tempo europea e a breve anche le novità normative in arrivo per il fintech saranno di matrice europea.
La cultura del rischio e gli investimenti. E allora? Il punto vero sta nella mancanza di capitali e di finanziatori. In italia il settore del venture capital è quasi inesistente, stiamo parlando dello 0,00 qualcosa % del Pil. Spesso gli attori del settore, che dai grandi fondi di fintech stranieri sono lontani anni luce per dimensioni del portafoglio, exit di successo ed esperienza nel settore, ne condividono solo l’approccio arrogante.
In Italia i soldi ci sono eccome. L’Italia, forse ancora per poco, è un Paese dove c’è tanta ricchezza nelle mani delle famiglie, dei privati e delle grandi aziende. Il punto è culturale, qui non si rischia per scommettere sul futuro e innovare, da noi va la “scommessa sicura”, a volte anche la dritta giusta, alla peggio si mette insieme una bella operazione immobiliare e non se ne parla più. E’ una banalità ma Paypal, Amazon o Facebook non avrebbero mai potuto nascere e avere successo in Italia. Assumere rischi è parte dell’atto stesso di investire.
L’assunzione di rischio richiede metodo e capacità di misurare il rischio stesso, nonchè il valore e le prospettive di un’azienda. In Italia dominano le relazioni, non le valutazioni di merito, la prassi comune è quella di finanziare “gli amici” in assenza di appropriati strumenti di rating, il che, come ben sappiamo ha determinato l’esplosione delle sofferenze bancarie.
Il problema è chiaramente anche europeo e non a caso tra i grandi colossi del web non vi sono attori rilevanti in Europa. In Europa dominano beni industriali o servizi tradizionali.
La cultura dell’innovazione e la leadership delle banche. La parola “cultura” alla presentazione del Fintech District non è mai stata nominata, e a torto, secondo me.
Nei board delle istituzioni finanziarie e nelle prime linee che contano, non c’è traccia di profili di estrazione tecnica o di qualcuno che abbia un’esperienza nel settore tecnologico. Pieno di avvocati ed economisti tutti di una certa età, che nella maggioranza dei casi neanche utilizzano LinkedIn (ma magari si sono fatti scrivere un profilino su Wikipedia, che fa tanto uomo arrivato). La cosa triste è che alla maggior parte delle banche e istituzioni finanziarie il fintech sembra non interessare proprio.
A eventi e convegni, anche ben organizzati da università o organizzazioni specializzate partecipano sempre profili junior, tanto per garantire una presenza. Quando si organizzano incontri delle aziende con le startups, magari anche a seguito di serie iniziative di scouting, mi è capitato varie volte di veder scarsa o nulla partecipazione da parte degli istituzionali. Come ad un grottesco evento cui ho partecipato qualche giorno fa, dove le startup che dovevano incontrare banche e asset manager se ne sono dovute tornare a casa, perchè senza preavviso l’incontro è andato deserto. L’agenda dei manager della finanza è sempre piena sì, ma di cose che poco hanno a che fare con l’innovazione del loro business.
Se vuoi avere un meeting con una banca che potrebbe essere interessata alla tua rivoluzionaria innovazione ci sono due possibili outcome: 1) o non conosci nessuno, e a quel punto mai avrai neanche una risposta ad una email, 2) oppure se ti va bene in soli due mesi potrai avere l’onore di incontrare qualcuno che, di fretta e rispondendo al mobile, ti darà ascolto, ma probabilmente nessuna forma di feedback.
Ancora peggio è la sensazione strisciante che tanti personaggi vestiti di grigio e belli imbullonati alle loro sedie di manager di istituzioni finanziarie un po’ obsolete e autoreferenziali siano addirittura compiaciuti delle difficoltà e fallimenti delle startup fintech, che più che come possibili partner per rinnovarsi, vedono come noiose seccature.
I talenti e le competenze in Italia. Ecco, io sulla frase del Ministro Padoan l’altro giorno, che diceva che la scuola italiana è inadeguata per fornire competenze come quelle del fintech non sono d’accordo. In Italia ci sono una marea di giovani davvero in gamba, preparati, creativi, flessibili come quelli che ho nel mio team e che ho conosciuto in altre startup, Ragazzi per cui un lavoro in una startup e’ molto più attraente di quello in una grande azienda, anche al prezzo di orari più lunghi e compensi inferiori. Il problema per le giovani aziende sono il costo e la rigidità del lavoro, non il capitale umano. Ogni volta che invio gli F24 dovuti, mi viene un “coccolone”. E i ragazzi stessi preferirebbero più soldi e meno contributi per una pensione che non avranno. E poi se c’è qualcuno che non va è impossibile mandarlo via, e credetemi, in un team di 10 persone, qualcuno non adatto avvelena l’ambiente.
Superare l’approccio “del condominio”. Bellissima l’iniziativa di Banca Sella ma, diciamola tutta, senza la partecipazione di aziende come Banca Intesa, Generali e Unicredit in Italia il fintech non andrà lontano. E conoscendo il modo di pensare italico ciascuno dei big vorrà fare da sè, dimostrando di essere il più bravo. Questo modo di pensare da condomini litigiosi è perdente, perchè un eco-sistema di innovazione, di cui tanto si parla anche a sproposito, non funziona se non c’è un sistema Paese attorno ad esso, fatto di standard, guidelines e prassi comuni. Poi il più bravo, il più veloce, il più innovativo, potrà fare meglio dei concorrenti ma intanto il sistema finanziario italico si potrebbe rinnovare e crescere.
Io, il fintech in Italia lo vivo quotidianamente da quasi otto anni, esattamente quando con altri 4 coraggiosi ho fondato Virtual B, l’azienda, ora pmi innovativa, che detiene e ha sviluppato AdviseOnly , dopo aver lasciato una più confortevole carriera nell’investment banking per fare qualcosa che mi appartenesse davvero.
Da imprenditore che ha finanziato in prima persona l’azienda fintech che gestisce, posso dire che la realtà è decisamente meno glamour di quanto viene dipinto sui media. Il fintech sarà anche cool oggi, ma la sensazione di chi prova a fare fintech in Italia è un po’ quella di essere un virus, che viene combattuto dagli anticorpi del sistema.
Io la mia azienda l’ho fondata in Italia per scelta e perchè l’Italia mi piace tantissimo, e da inguaribile ottimista che sono, credo che le potenzialità e il talento che ha questo paese non vadano sprecati . Però con l’inutile senno di poi, non sono sicura che rifarei la stessa cosa. Un amico nel settore, che stima me e il mio team, mi dice sempre che se AdviseOnly fosse stata negli Usa sarebbe assai meglio di Wealthfront; io non ci credo fino in fondo, ma penso che gli amici di MoneyFarm abbiano fatto la scelta giusta e il consiglio che do a chi inizia ora è quello di guardare anche fuori dallo stivale.