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Post-Covid, un’occasione per la reindustrializzazione dell’Occidente?

bebeezbybebeez
21 Aprile 2020
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Corte
Gabriele Corte

di Gabriele Corte
Direttore Generale Banca del Ceresio

Covid-19, termine tanto sconosciuto fino a qualche mese fa, quanto pervasivo in queste settimane. Non penso serva l’ennesimo parere, non qualificato, su come ci abbia sconquassato la vita, frenato l’economia o costretto in situazioni coercitive impensabili per democrazie sedimentate come le nostre. Preferisco pensare a come si potrà andare avanti, facendo tesoro di quanto questa inattesa situazione ci sta insegnando, con una prospettiva positiva di miglioramento economico e sociale, fino a qualche settimana fa ancora futuristica.

Una banale prospettiva evolutiva: la mia bassotta ai giardini pubblici insegue le lucertole, non i dinosauri. Le prime si sono adattate alle avversità della natura, gli altri sono nei musei. Le leggi darwiniane sull’evoluzione della specie dicono chiaramente che in biologia vince chi si adatta, non chi è più forte. Anche in questo caso sapremo adattarci migliorandoci, non pensando di trovarci in un preludio alla “Interstellar”, ovvero alla ricerca di nuovi mondi abitabili. Ci adatteremo soprattutto nei comportamenti, che hanno un impatto sul mondo che ci circonda e condiziona.

Innanzitutto, siamo tutti stupiti di come il lavoro “in remoto”, satana del manager fordista, stia funzionando. Intere aziende del terziario e parte delle industriali si sono ritrovate di colpo a casa, senza eccessivi disguidi, a fare ciò che da anni svolgevano negli uffici. Da una concezione concentrata del luogo di lavoro siamo passati a un network di persone connesse. Processi fossilizzati, sovente ricchi di carta, in un batter d’occhio sono diventati elettronici, con sommo sollievo delle foreste. Forse abbiamo improvvisamente dato un significato all’aggettivo “smart”, sino a ieri messo in ombra dal “working”. Se da un’azienda ben organizzata ci si poteva attendere un solido piano pandemico, ha stupito il virtuosismo di svariati enti pubblici e della maggior parte delle scuole, che si sono rapidamente reinventati un modus operandi del tutto inusuale, ma a quanto pare al passo coi tempi.

È impensabile mantenere una struttura lavorativa o educativa per sempre decentralizzata, ma forse si potrebbe ragionare sul numero, in assoluto, di persone che realmente devono essere contemporaneamente in un luogo di lavoro, con una serie di vantaggi diretti e indiretti di notevole portata: dalla riduzione dei costi aziendali (spazi fisici, viaggi, materiali di consumo, manutenzione, ecc.) alla minor necessità di spostamenti con decongestionamento di strade e mezzi pubblici.

Pensando inoltre a un differente impiego dei tempi di spostamento, si aprirebbe una finestra importante su cultura, attività fisica, relazioni personali, spesso decimate dalla banale mancanza di tempo. Un benefit a costo zero, forse addirittura positivo per il conto economico.

Data la maggior utenza, si potrebbe finalmente instaurare un circolo virtuoso di sviluppo della banda larga anche in aree decentrate, dando fruibilità a servizi spesso limitati alle grandi aree urbane.

Indiscutibile anche l’effetto positivo sull’inquinamento acustico e atmosferico: magari apprezzandone tutti la diminuzione in questi giorni, si potrà stimolare anche la ricerca su forme davvero nuove di trazione per migliorare ulteriormente la situazione. Passeremmo a una ricerca stimolata dalla domanda e non dal legislatore.

Tutta questa voglia di cieli puliti fuori e potenza elettrica in casa forse stimolerà anche lo sviluppo e l’utilizzo di energie pulite. Magari potremmo addirittura capire che in Paesi come la Libia non esiste solo il petrolio, ma tanto sole, con qualche effetto positivo sulle tensioni internazionali che l’oro nero continua a generare.

Le origini stesse del maledetto virus ci danno anche una prospettiva alimentare diversa, riportando maggior consapevolezza su produzione, ingredienti e distribuzione di ciò che quotidianamente mettiamo in tavola. Siamo ciò che mangiamo quindi ben venga una riflessione più approfondita sul rapporto tra cibo e salute e sul giusto tempo da dedicare all’alimentazione, spesso attività reietta tra le tante da svolgere in una giornata congestionata.

Ritengo, infine, che la situazione creatasi possa condurre a una reindustrializzazione occidentale, in un momento storico in cui c’è spazio per ripensare alla globalizzazione produttiva. Gli effetti negativi di catene di produzione eccessivamente decentrate è stato piuttosto evidente e i motivi originali del loro sviluppo molto indeboliti. Ripartiamo da una prospettiva evolutiva per meglio comprendere il presente.

La prima rivoluzione industriale si muove dall’Inghilterra di metà Settecento, non più competitiva sul costo della mano d’opera se confrontata con l’allora concorrenza cinese e indiana. Dopo secoli di divieti all’utilizzo di molte invenzioni “labour saving” per timore di rivolte popolari, ci troviamo di fronte a un Paese che capisce di dover recuperare competitività, acconsentendo alla diffusione di svariate innovazioni, permettendo di fatto i primi sviluppi industriali in senso moderno. Pensando ai concorrenti dell’epoca, non è quindi un caso che il settore tessile fu il primo beneficiario di tale sviluppo. La risposta inglese al basso costo delle maestranze asiatiche nel XVIII secolo si basò su competenze tecniche e su una riallocazione del capitale che ne permise la messa in opera. A quasi tre secoli di distanza, l’Occidente si trova nella possibilità di riguadagnare una sua capacità produttiva, in quanto il livello raggiunto dalla robotica industriale permette oramai la sostituzione del lavoro manuale con bracci meccanici, capaci di attività impensabili fino a qualche decennio fa. Se aggiungiamo a ciò tecniche radicalmente nuove di produzione, tipo la stampa tridimensionale, ne concludiamo che oggi abbiamo bisogno di investire in mezzi moderni di produzione per ricondurre l’Occidente alla competitività.

Diventa nuovamente predominante la competenza tecnica e la disponibilità di capitali rispetto alla ricerca del minor costo umano. In questa prospettiva va letto il tentativo, fallito, del governo tedesco di vietare nel 2016 la vendita di Kuka AG, uno dei leader nella robotica industriale, ai cinesi di Midea. Se i governi mostrano oggi la voglia di tornare a un controllo pubblico del diritto di proprietà, abbiano almeno la lungimiranza di capire cosa è “strategico” nel 2020.

Il tempo per una reindustrializzazione occidentale è arrivato, anche perché buona parte delle economie asiatiche, trasformate dalla globalizzazione in centri di produzione mondiali, hanno sviluppato una loro classe di consumatori in grado di partecipare attivamente a un continuo sviluppo della propria economia locale. Questo non deve essere un processo “no global”; si tratta di mettere a regime competenze, oramai esistenti, per generare un vantaggio complessivo per tutto il pianeta.

Rivediamo quanto sopra: cosa vuol dire in termini economici ed ecologici produrre un computer in Europa rispetto a fargli fare 16 mila km su una nave con un viaggio di due mesi? In questo contesto dobbiamo vivere anche la bellezza logistica della vecchia Europa: se puntassimo un compasso su Milano, con un raggio di 2mila km copriremmo tutta l’Europa, parte della Russia, i Paesi affacciati sul Mediterraneo e parte del Nord Africa atlantico. Ragioniamo ancora in termini di costi economici e ambientali e riflettiamo su cosa possa significare ridurre i trasporti a un ottavo rispetto alla provenienza asiatica.

Non è facile pensare positivo in un momento come quello attuale ma ci sarà un mondo post Covid-19, anche se richiederà sforzi e pazienza per tornare a funzionare: probabilmente però, sarà ancora più bello di prima.

Tags:Banca del CeresioCOVID-19reindustrializzazione

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