di Piero Alonzo,
equity partner di Alonzo Committeri & Partners
Di fronte alla crisi generata dal lockdown per coronavirus, il mercato dei private equity, anche in Italia, ha subito un deciso rallentamento dovuto all’incertezza economica che ha visto coinvolte le aziende italiane che, da un giorno all’altro, si sono viste ridurre sensibilmente, se non addirittura azzerare, i propri ricavi, senza poter porre in essere qualsiasi tipo di reazione, a prescindere dalle capacità o dalla competitività delle aziende stesse.
In questo scenario è però doveroso fare una differenziazione tra le aziende operanti in settori che a oggi risentono in modo relativamente moderato della crisi, come ad esempio quello della catena alimentare, quello del farmaco e del parafarmaco, quello dei servizi essenziali, dagli altri settori quali ad esempio il settore turistico-alberghiero, della moda, del retail e/o che forniscono beni e servizi non essenziali, i quali vedono fortemente condizionata la propria attività e conseguentemente la propria valorizzazione.
Il ruolo dei private equity in questo contesto può assumere una rilevanza importante sia per tutelare le aziende già in portafoglio, utilizzando parte delle proprie risorse a sostegno delle esigenze finanziarie generate dall’epidemia, sia per garantire liquidità per i piani di sviluppo aziendali legati ai nuovi investimenti.
Oggi parlando di nuove potenziali acquisizioni ci si scontrerebbe con le aspettative economiche dei potenziali venditori, ancorati a una valorizzazione delle aziende pre-crisi, rispetto alle valutazioni dei private equity che non possono non tener conto della potenziale riduzione di valore generata dalla crisi dei questi mesi, nonché dai potenziali rischi futuri correlati alla stessa la cui stima, a oggi, è tutt’altro che facile da determinare.
La fotografia di queste settimane evidenzia come si stiano portando avanti operazioni o discussioni su aziende non particolarmente coinvolte dalla crisi sanitaria e che conseguentemente non vedono modificati i parametri di valutazione, ma che mantengono altresì sostanzialmente inalterata la prospettiva di monetizzazione dei venditori con le stime di valorizzazione effettuate dai fondi.
Non solo. Vi è anche una fetta di operazioni portate avanti dalle società già in portafoglio dai fondi, le cosiddette add-on, ovvero quelle che hanno l’obiettivo di acquisire nuove quote di mercato per linee esterne.
In futuro è certo che si dovranno ipotizzare e trovare formule contrattuali che da un lato consentano ai potenziali venditori di vedere riconosciuto, almeno in parte, una quota importante del valore delle proprie aziende e dall’altro ai fondi di limitare il rischio di incertezza sulla durata della riduzione dei ricavi nonché sulla sostenibilità dei piani di sviluppo.
Trattandosi di operazioni molto spesso strutturate a leva, dove l’indebitamento finanziario concesso dalle banche finanziatrici può rappresentare una componente significativa, con grande probabilità le considerazioni in merito alla valorizzazione dell’azienda e al rischio di incertezza saranno effettuate anche e soprattutto dagli istituti finanziari prima di concedere i finanziamenti.
È facile dunque immaginare che le prossime operazioni, nel mondo del private equity, possano prevedere dei meccanismi di riconoscimento del valore dell’azienda e conseguentemente del prezzo di acquisto diversi. Ad esempio una parte del valore potrebbe essere riconosciuta non immediatamente ma come componente differita di prezzo, cosiddetto earn out, che sarà condizionata al raggiungimento, negli esercizi successivi al closing, di specifici target di fatturato e di ebitda, basati su piani sostenibili. Questa soluzione può consentire ai potenziali venditori di mantenere un’aspettativa di prezzo sostanzialmente similare a quella pre-crisi nel caso in cui l’azienda recuperi il valore perduto mentre ai fondi di limitare sensibilmente il rischio di valorizzazione della stessa.