Le società quotate che pubblicano periodicamente i piani industriali sono rarità e spesso, anche quando li pubblicano, sono esercizi quasi inutili, perché mancano quelle informazioni che possono realmente servire ad azionisti, finanziatori, clienti e fornitori per farsi un’idea di dove si sta dirigendo l’azienda. E’ quanto emerge dal Rapporto 2013 Rating Business Plan di Cse-Crescendo, che MF-Milano Finanza ha anticipato lo scorso 8 giugno e che sarà presentato mercoledì 19 giugno dalle ore 9,30 alle 12,30 a Milano in occasione di un convegno organizzato dalla stessa Cse-Crescendo (scarica qui il programma), società di advisory guidata da Cesare Sacerdoti, Francesco Zanotti e Luciano Martinoli.
Diciamo subito che il rapporto assegna un voto (in media basso) a tutti i business plan delle società che compongono gli indici Ftse Mib e Star, liberamente consultabili dal pubblico.
Crescendo ha potuto esaminare i business plan di 27 società delle 40 che compongono l’indice Ftse Mib, perché per le altre non ci sono documenti di questo tipo a disposizione del pubblico. Di questi 27, poi, Crescendo ne ha scartato uno, perché considerato non significativo. Allo stesso modo, su 68 società quotate allo Star solo 15 hanno pubblicato business plan e, di questi, 3 sono ormai obsoleti, mentre altri 3 sono stati scartati perché non significativi. In generale, quindi, molte delle società quotate più importanti non ritengono di dover raccontare il loro progetto agli investitori e alla comunità finanziaria. E, quando i business plan sono pubblicati, il loro contenuto è povero. Per questo motivo i 26 piani relativi ai gruppi del Ftse Mib esaminati si sono meritati in media un voto non superiore a 56/100. E le cose vanno addirittura peggio per le società dello Star, alle quali in media Crescendo assegna un rating di 47/100.
Le pecche del business plan, sul piano della completezza delle informazioni fornite, consistono principalmente nella mancanza di una valutazione del posizionamento strategico, definito come sintesi tra posizione competitiva (ovvero quanto si è forti) e appetibilità del settore industriale (cioè quanto si può potenzialmente guadagnare in quel settore). Se non si considera il posizionamento strategico, ma solo quello competitivo, può accadere che, pur essendo la più concorrenziali nel proprio settore, l’azienda non generi sufficienti margini o cassa. E questo perché se un settore non è più attraente, anche la riduzione di costi più dura non potrà portare ad aumentare la redditività e tutti sono destinati a perdere in prospettiva.
E non basta. Perché, spiegano i partner di Crescendo, in genere i business plan esaminati «non sanno giustificare le previsioni che hanno fatto sui risultati futuri. L’ipotesi più probabile è che estrapolino il futuro dal passato.
Infine, anche se un piano descrive bene il posizionamento strategico presente e futuro, è necessario che abbia un’alta probabilità di realizzarsi, misurabile valutando la qualità del processo attraverso il quale si è sviluppato quel piano. In particolare guardando a chi è stato coinvolto nella sua redazione e a come ne viene eseguita la realizzazione, cioè misurando la qualità del controllo. Ma da questo punto di vista ci sono solo due casi virtuosi, A2A e Banca Etruria.