La Commissione Finanze della Camera ha allo studio norme per incentivare la ricapitalizzazione delle imprese e per estendere la garanzia dello Stato a supporto del credito, magari utilizzando i fondi strutturali Ue già stanziati, ma non ancora utilizzati. Lo ha rivelato ieri MF-Milano Finanza, a seguito di una chiaccherata con Marco Di Maio, onorevole Pd e membro della Commissione Finanze della Camera, intervenuto lo scorso venerdì 18 ottobre a un incontro organizzato a Forlì da Dvr Capital Lab, il laboratorio di idee lanciato da Dvr Capital, boutique di consulenza fondata da Carlo Daveri.
“In Commissione Finanze stiamo lavorando a un’indagine conoscitiva sull’accesso al credito per le imprese e più in generale sugli strumenti fiscali e finanziari a sostegno della crescita, che porterà a una proposta articolata che sarà formulata nei prossimi giorni”, ha spiegato Di Maio, precisando che “il credit crunch si combatte anche rendendo più solide le aziende dal punto di vista patrimoniale. Per questo stiamo studiando delle norme che rendano fiscalmente attraenti gli aumenti di capitale e il reinvestimento degli utili aziendali nelle imprese, sulla falsariga di norme già introdotte in passato, ma rendendole contemporaneamente più efficienti. L’idea, infatti, è prevedere contemporaneamente delle misure che potenzino le garanzie offerte dallo Stato tramite i Confidi. In particolare stiamo studiando un modo per indirizzare a questo scopo i fondi strutturali europei non ancora utilizzati”. Un’idea che, ha continuato Di Maio, “anche Giorgio Gobbi, capo della segreteria tecnica per l’eurosistema e la stabilità finanziaria della Banca d’Italia, nella sua audizione di qualche giorno fa ha mostrato di apprezzare”.
In effetti il testo dell’audizione è molto chiaro in questo senso (scarica qui l‘intero intervento di Gobbi). E a proposito Gobbi ha ricordato che sono anche i “fattori fiscali che, storicamente, hanno determinato un largo vantaggio del ricorso al debito rispetto al capitale di rischio. Questo modello di finanziamento presenta due rilevanti punti di debolezza. Il primo è legato agli effetti di retroazione che si innescano durante le recessioni tra fragilità finanziaria delle imprese e capacità delle banche di erogare credito. Nelle fasi negative del ciclo aumenta la quota di imprese che incontra difficoltà nel rimborso dei prestiti con ripercussioni negative sui bilanci delle banche. A sua volta l’aumento dei rischi ha l’effetto di indurre le banche a politiche di offerte più prudenti e la rarefazione del credito accresce le difficoltà delle imprese. L’esperienza più recente mostra che le aziende più colpite da questa sequenza di effetti sono quelle patrimonialmente più deboli e con minore capacità di accedere a fonti di finanziamento non bancario”. Il secondo limite di un modello di finanziamento eccessivamente sbilanciato verso i prestiti bancari, ha continuato Gobbi, “riguarda la capacità di destinare alle imprese risorse nelle forme che hanno maggiori capacità di sostenere percorsi di crescita. In particolare, i fondi investiti nelle imprese sotto forma di strumenti di capitale di rischio sono maggiormente idonei rispetto al debito a sostenere la ricerca e l’innovazione e, più in generale, progetti e strategie caratterizzati da elevato rischio e rendimento”.
Pare quindi che la Commissione Finanze della Camera abbia fatto proprio un concetto già sottolineato lo scorso maggio a MF-Milano Finanza da Marco Giorgino, ordinario di finanza aziendale al Politecnico di Milano, in occasione del primo degli incontri organizzati da Dvr Capital Lab. «Per recuperare competitività sul piano internazionale le imprese italiane devono innanzitutto rafforzare la struttura finanziaria. Il rapporto tra debito e patrimonio netto è ancora troppo alto e il paradosso è che spesso e volentieri le società che hanno più bisogno di essere ricapitalizzate sono quelle che negli anni precedenti hanno pagato dividendi molto ricchi agli azionisti», aveva detto Giorgino, precisando che «i fondi di private equity sono una possibile soluzione, ma anche gli imprenditori devono fare la loro parte. Forse il nuovo governo può spingerli in questa direzione, introducendo incentivi fiscali alla ricapitalizzazione, magari rispolverando le vecchie Dit e Superdit almeno per le aziende di piccola e media dimensione».
La Dual income tax (Dit) e la Superdit erano state introdotte a fine anni ’90 da Visco quando era ministro delle Finanze del governo D’Alema. In fondo oggi un imprenditore ha un vantaggio fiscale se si finanzia con debito piuttosto che con equity perché gli interessi passivi possono essere dedotti dai redditi sino a un valore pari al 30% dell’ebitda. Invece se ricapitalizza la sua società non deduce nulla. La Dit aveva proprio lo scopo di riequilibrare in parte il vantaggio fiscale a beneficio delle ricapitalizzazioni, permettendo alle imprese che si finanziavano con capitale proprio di assoggettare per tre anni a un’aliquota agevolata (19%) una parte dei propri utili. La Superdit invece era un’agevolazione studiata per le imprese che si ricapitalizzavano in vista di una quotazione, con un patrimonio inferiore a 250 milioni. In quel caso l’ aliquota sugli utili corrispondenti a un aumento di capitale veniva per tre anni ridotta al 7%. L’incentivo aveva avuto un enorme successo e negli anni tra il 1998 e il 2001 Piazza Affari ha registrato un vero e proprio boom di ipo: ben 105 matricole, di cui 16 nel 1998 e 27 nel 1999, quando ancora non si era vista l’ondata di ipo legate a internet. Forse qualche ragionamento sul tema deve essere fatto, tenuto conto però che nel 2002 Giulio Tremonti, allora ministro delle Finanze del nuovo governo di centrodestra, decise di cancellare Dit e Superdit, perché, in quanto agevolazioni, le riteneva responsabili del calo dell’Irpeg.