Sono state solo nove le startup italiane o fondate da italiani che hanno annunciato quest’anno round di investimento da almeno 3 milioni di euro, contro un numero doppio di annunci in tutto il 2016. Lo ha anticipato MF Milano Finanza in edicola da sabato 21 ottobre, attingendo al database di BeBeez (clicca qui per il file pdf con tutti i deal e i link agli articoli).
Il dato è indicativo dell’atmosfera che si respira nel settore del venture capital italiano. Tanto più che alcuni di questi round sono stati resi possibili non dall’intervento dei fondi di venture, ma di investitori privati o soggetti comunque diversi dai fondi specializzati. Il tutto a indicare che c’è qualcosa che non va nella macchina, sebbene invece round di investimento di più piccole dimensioni non siano mancati: ce ne sono stati altri sette tra 1 e 3 milioni di euro, contro i 13 annunciati nel 2016.
D’altra parte i fondi di venture capital italiani hanno una potenza di fuoco limitata, pur essendo aumentata in maniera importante negli ultimi anni, ma stiamo sempre parlando di fondi da 70-80 milioni di euro, quando negli Usa e nei Paesi europei in cui il mercato è più sviluppato i loro colleghi hanno cartucce per svariate centinaia di milioni, se non miliardi. Così, quando si tratta di far fare il salto dimensionale alle proprie partecipate, il cosiddetto round Series B, quello in cui in genere la richiesta di investimento è dai 3 milioni di euro in su, i fondi italiani da soli non ce la fanno e così le startup devono per forza cercare aiuto all’estero, sperando negli investitori internazionali. Ma se questo non succede lo sforzo iniziale viene vanificato e mai si vedrà non solo nascere un unicorno, ma nemmeno un’azienda in grado di ripagare gli investitori con rendimenti interessanti tanto quanto accade all’estero.
“Il problema vero in Italia è il fatto che non esiste quasi un mercato per i disinvestimenti. Le aziende corporate, che all’estero insieme alla borsa sono gli acquirenti naturali delle startup di successo, in Italia non le comprano”, ha detto Andrea Colombo, ceo di U-Start, la società partecipata da Kairos Partners sgr, che organizza club deal di family office e investitori privati su startup e scaleup soprattutto estere, in coinvestimento con i principali fondi di venture internazionali. Colombo ha aggiunto: “Tutto questo crea un problema di fondo, perché se i disinvestimenti sono difficili, allora chi compra cerca di farlo a valutazioni basse e quindi i fondatori delle startup per incassare l’ammontare di equity sufficiente a finanziare lo sviluppo si vedono costretti a diluirsi in maniera molto più importante dei loro colleghi stranieri e l’imprenditore è sostanzialmente meno coinvolto, fatto questo negativo agli occhi dei venture esteri”.
Attirare fondi esteri sulle startup italiane per finanziarne lo scaleup, quindi, non è facilissimo. Più facile a volte attirare investitori privati organizzati in club deal e poi oggi c’è anche l’opzione fintech. SiamoSoci, società partecipata da Azimut Holding, prima di lanciare l’anno scorso la piattaforma di equity crowdfunding Mamacrowd, aveva organizzato più club deal sia settoriali sia generalisti tra investitori privati per scommettere sull’investimento in startup. “In fase di seed con un veicolo da 5 milioni si possono fare decine di investimenti”, ha detto Dario Giudici, cofondatore di SiamoSoci in occasione del suo intervento a un Caffè di BeBeez lo scorso 10 ottobre (vedi qui il video) in tema di club deal. Ha continuato Giudici: “Oggi, dopo la revisione del regolamento Consob sull’equity crowdfunding avvenuta l’anno scorso, per un privato retail è possibile costruire un portafoglio diversificato di startup che siano state oggetto di attenta selezione preventiva da parte della piattaforma, così come accadeva quando organizzavamo i nostri club deal. Non solo. Proprio con l’equity crowdfunding abbiamo aperto ai retail il capitale di un nostro precedente veicolo di club deal, Club Italia Investimenti 2, che aveva già un suo portafoglio completo di startup e che a breve riporteremo in raccolta su Mamacrowd per dotarlo di nuove risorse per seguire alcuni degli investimenti già in portafoglio”.
E qui torniamo al problema di base, cioè la mancanza di risorse per finanziare lo scaleup in Italia. Fortunamente ci sono operatori italiani che ora hanno deciso di cogliere la sfida. Come Fondo Italiano d’Investimento sgr, che con i soldi della Cdp ha appena lanciato la raccolta del nuovo fondo FII Tech Growth, destinato a investimenti di late stage venture capital, che ha un target complessivo di raccolta di 150 milioni e in cui la Cdp ha impegnato 50 milioni (si veda altro articolo di BeBeez). Sempre il Fondo Italiano d’Investimento, di recente ha investito in Vertis Venture 2 Scaleup, lanciato da Vertis sgr, permettendogli di annunciare un primo closing a 30 milioni di euro su un target di 60 milioni (si veda altro articolo di BeBeez).
In quest’ottica anche Tamburi Investment Partners è sceso in campo lo scorso settembre destinando 100 milioni di euro a StarTIP, il nuovo veicolo nel quale ha concentrato tutte le sue partecipazioni in startup e in società attive nel segmento del digitale e dell’innovazione e quindi quelle in Digital Magics, Talent Garden e Telesia, dopodiché StarTIP sarà il veicolo attraverso cui verranno promosse anche tutte le ulteriori iniziative in tali settori (si veda altro articolo di BeBeez).
Alessandra Gritti, amministratore delegato di TIP, intervenendo a sua volta allo stesso Caffè di BeBeez sui club deal ha sottolineato. “Con la nostra lunga esperienza nel trasmettere innovazione sulle aziende medio-grandi, oggi abbiamo la competenza e il network anche per supportare la crescita di chi l’innovazione la fa e quindi le startup. Ci siamo resti conto che in Italia trovare i 100-200 mila euro non è difficile, mentre è una missione impossibile trovare da uno a 10 milioni. E siccome a noi piacciono le sfide abbiamo deciso di lanciarci in questo progetto, anche perché sono convinta che presto vedremo molti più operatori stranieri su questo segmento”.
Gritti ha infatti sottolineato che “ negli Usa e nei paesi anglosassoni i fondi di venture capital hanno strapagato le startup e avendo un mercato molto grande si sono potuti permettere di sbagliare nove investimenti su dieci, perché quell’uno che andava bene era in grado di più che compensare quelli andati male. In Italia, invece, le valutazioni sono molto più basse e quindi i venture e gli investitori di seed non si possono permettere di sbagliare così tanto. Per questo sono molto più bravi a selezionare gli investimenti e per questo noi siamo molto interessati a guardare che cosa hanno in portafoglio oggi questi operatori per poter accompagnare in una fase di vita successiva queste aziende. Sono convinta che presto molti stranieri si accorgeranno di tutto questo e arriveranno qui molto più numerosi”.