I portali di equity crowdfunding in Italia dall’avvio della legge a oggi hanno raccolto 1,76 milioni di euro. Al momento i portali operativi sono 15, sui quali sono stati pubblicati 22 progetti. Di questi solo 5 si sono chiusi con successo, mentre 7 si chiusi senza raggiungere il target e altri 10 sono attualmente in raccolta.
I numeri, aggiornati allo scorso 7 maggio, sono dell’Osservatorio sull’Equity Crowdfunding del Politecnico di Milano e per il momento, quindi, non sono proprio brillanti, se confrontati con i dati internazionali.
Nel suo European Alternative Finance Benchmarking Report, la Cambridge University spiega che peer-to-peer ed equity crowdfunding hanno raccolto quasi 3 miliardi di euro in Europa nel 2014 con una crescita del 144% dagli 1,2 miliardi al 2013. Un dato, quindi, in linea con quello registrato per le piattaforme europee da Massolution di 3,6 miliardi di dollari (appunto poco meno di 3 miliardi di euro al cambio medio del 2014). Escludendo il Regno Unito, che è il Paese leader sul fronte della finanza alternativa online, il mercato per il resto d’Europa è passato dai 338 milioni del 2013 ai 620 del 2014 (si veda altro articolo di BeBeez).
Prometeia stima che siano circa 628 mila le famiglie che hanno un patrimonio finanziario superiore a 500 mila euro per un patrimonio totale di quasi mille miliardi di cui, stima l’Associazione Italiana Private Banking, sono 503 miliardi quelli in gestione di istituti di private banking.
Ragionevolmente, si può ipotizzare che il 5% di questo patrimonio, cioè 50 miliardi, possa essere potenzialmente investito in capitale di rischio, almeno in un arco temporale di 3-5 anni. E capitale di rischio significa private equity, venture capital ed equity crowdfunding.
Sulla base di questi numeri, Marco Bicocchi Pichi, amministratore delegato di Symbid Italia, piattaforma di equity crowdfunding che sarà lanciata nei prossimi mesi e frutto della joint venture tra Symbid e Banca Sella. Symbid, ipotizza che anche “coloro che hanno un patrimonio compreso tra 0.5 e 1 milione di euro, avrebbero una disponibilità da investire con l’equity crowdfunding in singole opportunità di circa 3mila-5mila euro che, guarda caso, è anche l’investimento medio nelle maggiori piattaforme europee. L’investimento con una strategia di portafoglio di una ventina d’investimenti d’importo uguale abbassa il rischio d’insuccesso rispetto alla “puntata” secca su di una sola opportunità”.
Bicocchi Pichi, intervistato dalla rubrica Crowd4Fund di KeyBiz, tenuta da CrowdfundingBuzz.it, ammette che “naturalmente la cifra di 50 miliardi sembra largamente esagerata, ma a chi mi dice questo io rispondo che è una stima di potenziale, è come le riserve petrolifere, per poterle poi estrarre occorrono molte condizioni da soddisfare che oggi non sono ancora neanche avvicinate”.
D’altra parte, prosegue Bicocchi Pichi, “solo una piccola parte del proprio patrimonio dovrebbe essere dedicata a questo tipo di operazioni. Symbid ha iniziato in Olanda con l’ambizione di essere aperta veramente a tutti con un investimento minimo di venti euro. Questa opzione però non è aperta in Italia a causa del nostro quadro di riferimento giuridico diverso (in Olanda viene utilizzata come società veicolo per l’investimento della crowd una cooperativa di capitali”.
Il problema italiano, infatti, è che l’attuale regolamento Consob frena gli investitori invece di agevolarli. Se è vero, infatti, che l’Investment Compact ha ampliato, come chiesto da molti, la rosa delle società finanziabili alle pmi innovative e agli operatori di private equity e di venture capital (si veda altro articolo di BeBeez), e che ora anche Consob dovrà recepire questo passaggio nel suo Regolamento, è anche vero che gli addetti ai lavori continuano a segnalare una serie di altri punti ritenuti cruciali per far partire davvero il mercato (si veda altro articolo di BeBeez).
In particolare, in Italia per investire più di 500 euro all’anno in equity crowdfunding, chi investe deve compilare un modello per profilarsi (Mifid), firmarlo a mano, e consegnarlo fisicamente alla banca indicata dalla piattaforma, dove deve anche aprire un conto. Il che, ovviamente, nella pratica risulta un deterrente, perché si tratta di un meccanismo che complica le cose e obbliga appunto l’investitore ad andare in una banca che non è la sua ad aprire un nuovo conto, solo perché questa non si può accontentare del fatto che un’altra banca abbia già profilato l’investitore. Inoltre questo pregiudica investimenti da parte di stranieri che non potrebbero proprio adempiere a questa procedura. Il paradosso è dunque che un italiano può agevolmente p.es. investire nel Regno Unito, ma un Inglese non riesce a investire in Italia.
La soluzione migliore sarebbe abolire il limite, ma non potendo, almeno si potrebbe alzare a un livello adeguato a quello dell’investimento medio in Europa o in Italia (dove peraltro la media è di 10mila euro contro i 3-5mila europei). L’alternativa sarebbe quella che Consob autorizzasse le piattaforme, per chi vuole investire sopra soglia, a fare una e una sola profilazione Mifid e che i documenti necessari possano essere autorizzati alla firma elettronica.
C’è poi il fatto che, affinché un finanziamento si chiuda, almeno il 5% deve essere sottoscritto da un investitore istituzionale, cioè da una banca, da una sim o da un fondo. Un accorgimento introdotto dalla legge per garantire l’investitore retail. Ma certo, sarebbe più semplice e adeguato che il concetto di investitore professionale fosse allargato in questo caso agli operatori specializzati in questo settore, dagli incubatori ai network di business angel.