Lo sviluppo dell’impresa declinato in un progetto strategico appare raramente tra gli obiettivi dichiarati nel Documento di ammissione dagli emittenti di veri minibond quotati all’ExtraMot Pro. Veri perché su quel mercato ci sono anche titoli emessi da società molto grandi, seppur non quotate, che stravolgono il concetto di minibond in quanto obbligazione emessa da una pmi non quotata.
Lo sottolinea il secondo studio sui minibond quotati all’ExtraMot Pro condotto da Cse-Crescendo, boutique milanese di consulenza strategica, che he ha analizzato i 35 minibond quotati sull’ExtraMot Pro da metà febbraio a fine agosto per un totale di 1,193 miliardi di euro e che perviene alle medesime conclusioni del primo studio, pubblicato lo scorso marzo (si veda altro articolo di BeBeez).
Più in dettaglio (scarica qui il Rapporto minibond), delle 35 aziende emittenti considerate, però, ben 4 sono società quotate (per un totale emesso di 73,65 milioni di euro) e quindi avrebbero potuto emettere i titoli di debito anche senza la legislazione sui minibond, quindi CSE-Crescendo le ha eliminate dall’analisi. Sette aziende delle 31 rimanenti, per complessivi 818 milioni di euro emessi, citano poi nel Documento di Ammissione il rifinanziamento del debito quale unica finalità dell’emissione, con buona pace degli obiettivi del governo di fornire alle imprese uno strumento alternativo di finanziamento dello sviluppo.
Si tratta, è vero, di un’operazione di efficienza finanziaria che può anche essere utile, ma sicuramente non è un’operazione direttamente finalizzata all’esecuzione di un nuovo progetto. Per questo motivo, anche questi sette emittenti sono stati esclusi dall’analisi e di questi, peraltro, ben 5 sono società di dimensioni medio-grandi e non classificabili come pmi.
Dopodiché, CSE-Crescendo ha deciso di escludere dalla sua analisi anche i bond emessi dalle otto utility venete associate al consorzio Viveracqua che a fine luglio hanno emesso minibond per un totale di 150 milioni al fine di finanziare la manutenzione e il miglioramento delle reti idriche esistenti e la realizzazione di nuovi impianti. Ma non trattandosi appunto di finanziamenti allo sviluppo aziendale, appare dunque chiaro che anche queste 8 operazioni debbano essere escluse dall’analisi.
Restano quindi solo 16 le emissioni fatte dalle pmi, per 151,9 milioni di euro. Di questi emittenti, sono 12, per un totale di 127,7 milioni, a dichiarare nel documento di ammissione che i proventi del collocamento del bond saranno utilizzati esclusivamente per lo sviluppo del piano industriale o di progetti specifici, mentre i restanti 4 emittenti, per 24,2 milioni, dichiarano un utilizzo misto dei proventi tra sviluppo e rifinanziamento del debito. E delle 16 aziende, soltanto sei sono manifatturiere, le altre dieci operando nell’ambito dei servizi).
E non è finita perché, sottolinea ancora Crescendo, quando queste aziende parlano di sviluppo, lo fanno in genere solo con un accenno senza spiegare in che modo l’incasso dei proventi comporterà un aumento della capacità di generare cassa. Detto questo, è pur vero che gli investitori che sottoscrivono questi bond queste domande se le sono certo poste ed evidentemente hanno ottenuto risposte soddisfacenti, anche perché in genere questi bond sono strutturati di pari passo con l’affiancamento dei fondi specializzati che poi vi investiranno. In prospettiva, però, nel momento in cui si dovesse arrivare a vedere una certa liquidità, allora sarebbe auspicabile un maggiore dettaglio nei documenti obbligatori da mostrare agli investitori.