A Palazzo Esposizioni a Roma è di scena Jim Dine (qui a sn.), artista che fa riferimento alla Pop Art, superandola, uscendo dal circolo vizioso di essere al servizio della società di massa. Una mostra di alto profilo, sorprendente, prorogata fino al 26 luglio, un’occasione per visitare anche l’esposizione della World Press Photo con i migliori scatti del 2019, una delle iniziative dedicate a Gianni Rodari qui insieme a Bruno Munari, nel centenario della nascita del primo,con un progetto dedicato a due grandi protagonisti della cultura per l’infanzia del Novecento.
La mostra Jim Dine, titolo asciutto che riporta solo il nome e cognome di un artista versatile che si è cimentato in tecniche, soggetti e modi diversi di espressione, dalla poesia alla figurazione agli happening, è a cura di Daniela Lancioni, ed è promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale
Azienda Speciale Palaexpo. Artista meno noto di altri che hanno fatto parte della Pop Art, meno consumato anche dall’immaginario collettivo, meno sfruttato dalla pubblicità e da quella società consumistica tanto contestata, Jim Dine, è nato nel 1935 a Cincinnati, nello stato dell’Ohio, per poi a New York alla fine degli anni Cinquanta e attualmente vive tra Parigi e lo stato di Washington. Nell’arco del 1960, nei luoghi ormai mitici della Judson Church e della Rueben Gallery, realizza i suoi memorabili happening che lo rivelano, insieme ad altri pochi artisti sodali, una delle presenze più incisive e radicali della giovane arte americana.
Ci sono momenti di grande successo e anche qualche insuccesso, dove il pubblico si annoia e se ne va. Sarà una stagione importante – presente in mostra con i video – ma a termine. Al Palazzo delle Esposizioni è stata ripercorsa l’intera storia degli happening di Jim Dine iniziata e conclusasi nell’arco del 1960 con cinque lavori: The Smiling Workman ideato contemporaneamente all’environment The House alla Judson Gallery; la performance effettuata in occasione della mostra personale alla Rueben Gallery dove si svolsero anche i successivi Vaudeville Collage, Car Crash, A Shining Bed. Ad eccezione della partecipazione al “First Theater Rally” nel 1965 con The Natural History (The Dreams), dovuta all’invito dell’amico Alan Solomon. Per la ricostruzione dei suoi happening – alla quale ha collaborato lo stesso artista – sono state raccolte tutte le immagini reperibili di quei fotografi che per primi hanno testimoniato la nuova forma d’arte: Robert R. McElroy, soprattutto, Fred W. McDarrah, Martha Holmes e Peter Moore. Le immagini e i racconti dalla viva voce di Jim Dine sono ora diventati sei video grazie al montaggio di Monkeys VideoLab.
Come dichiara lo stesso artista in un ricordo inedito raccolto per la mostra romana, “ho voltato le spalle a quel mondo delle performance, volevo impegnarmi nel mio lavoro di pittore e di scultore”.
Ai primi anni Sessanta risalgono le opere con gli indumenti e con gli utensili da lavoro, vere e proprie icone della cultura visiva contemporanea: martelli, seghe, vanghe, asce, ma anche tavolozze, pennelli, spatole da pittore e scalpelli da scultore, così come accappatoi, cravatte, scarpe, bretelle, il mondo del lavoro umile messo in scena con un iperrealismo intriso di forza e drammaticità, lontano dalla caricatura fumettistica tipica della Pop Art. Un inventario circoscritto di cose che costituiscono il suo personale lessico ricco di valenze autobiografiche.
Molti importanti critici – da Lawrence Alloway ad Alan R. Solomon, da David Shapiro a Marco Livingstone, a Germano Celant – si sono cimentati nell’interpretare queste presenze assegnando loro, come lo stesso artista suggerisce, la funzione di “autoritratti”.
La sua è una biografia artistica costellata da importati riconoscimenti e da forti legami con l’Europa. Nel 1964 è stato tra gli artisti invitati nella celeberrima mostra del Padiglione americano alla Biennale di Venezia, che sancì nel mondo l’affermazione della Pop Art. Nel 1970 il Whitney Museum di New York ha ordinato la sua prima mostra retrospettiva. A questa sono seguite numerose altre mostre monografiche nei musei di tutto il mondo, come quella ospitata nel 1999 al Solomon R. Guggenheim Museum di New York e, in anni più recenti, quelle organizzate alla National Gallery of Art di Washington (2004), all’Albertina di Vienna (2016) e al Centre Georges Pompidou di Parigi (2018).
Con grande semplicità l’artista ha dichiarato di immaginarsi impotente al di fuori dell’ambiente dal quale trae nutrimento. A riprova di questo, innumerevoli indizi collegano le sue opere al resto del mondo: strumenti di lavoro, abiti senza tempo o alla moda, statue e pitture antiche, maschere, personaggi immaginari, compositori… Un artista colto, disponibile all’incontro e consapevole delle dinamiche della trasmissione culturale, ma anche umile, spesso criticato perché non ‘abbastanza’ assoluto nel suo essere pittore e scultore, un’espressione a suo parere senza senso, per chi trova una connessione forte tra parole e immagini, superando ogni catalogazione.
Nella selezione delle opere, ricca e di qualità, che si sposa molto bene con lo spazio del Palazzo Esposizioni, monumentale e in contrasto con l’arte di Dine, ci sono tra le altre la serie dei Pinocchi e dei Cuori, ma anche delle teste.
Lo spazio di stile neoclassico incontra tra le colonne la Venere nera, senza testa, in legno dipinto, quasi bruciato, e corpi senza teste vestiti di attrezzi, in un effetto suggestivo di dialogo tra moderno e antico. D’altronde la materia e la matericità sembra al centro del lavoro dell’artista come nei Pinocchi, che occupano una stanza intera, sinonimo della materia morta che si anima grazie all’arte.
Il poeta e studioso Valerio Magrelli prende l’abbrivio per un racconto sulle innumerevoli interpretazioni e metamorfosi di cui è stato investito il personaggio di Collodi. Un precipitato di varianti e di trasformazioni che condividono con il semiologo Paolo Fabbri la tesi del “mitismo” di Pinocchio: dalle analisi giuridiche alle tesi del filosofo Emilio Garroni, dal Pinocchio ultraterreno e occulto visto da Giorgio Manganelli, al Pinocchio sciamanico di Jacqueline Risset, dalle traduzioni di Pinocchio in lingua latina al tautogramma di Umberto Eco, dal Casanova di Fellini definito dal suo autore “un Pinocchio che non diventa mai uomo”, alla Calamita cosmica di Gino De Dominicis e ai Pinocchio di Jim Dine. Anche sui cuori vale la pena soffermarsi in un’antologia di sentimenti che attraverso un elemento simbolo si declina nel tempo e nello spazio: cuori che sembrano usciti dalle tele degli Espressionisti, altri da quelle dei Surrealisti, ammiccanti al fumetto che precorrono le emoticon, ma sempre palpitanti, emozionalmente reattivi, mai un puro esercizio di stile.
a cura di Ilaria Guidantoni