Tu sei l’epilogo di una certa contemporaneità, Teresa, io ne sono esponente; e forse darai a tutto questo un nome che altri per te sceglieranno. Quel che ti sarà contemporaneo sarà ciò che per me è oggi futuro, una profezia che tu vivrai come realtà e io come suggestione. Il tuo “c’era una volta” è l’avanguardia del mio adesso. Ma questa, Teresa, non è altro che la storia del tempo e della caducità dell’uomo. Quel che invece esula da una certa regolarità, dalla fissità del trascorrere delle generazioni, è la misura del loro valore. Quando penso alla letteratura a me contemporanea, e lo dico con pregiudizio, quindi accetta la menzogna sottesa, mi viene sempre in mente il pensiero di un filosofo che mi è molto caro, “io credo che un libro debba essere una ferita”, e poi “ciò che lo rende interessante è la quantità di sofferenza che contiene. […] Di regola, è falso tutto ciò che non nasce dalla sofferenza”. Un libro deve essere una ferita “capace di cambiare la vita del lettore, […] svegliarlo e fustigarlo”. Emil Cioran occupa le biblioteche del mondo nel ruolo di padre della misantropia, un giudizio forse non lusinghiero se non consideri che il misantropo è nient’altro che un “umanista” in potenza, trovo però che colga un punto centrale per comprendere il significato più intimo, e autentico, dell’arte: ciò che non dissangua non ha alcun valore. Il mio pregiudizio riguardo al “contemporaneo”, e ripeto che è un pregiudizio, non ha niente a che vedere con un aprioristico snobismo né con l’idea che “il meglio è sempre retrodatato”. Spesso noto grandi contorsioni sperimentali, distruzione della regola come se fosse, ancora, una cosa mai vista, e anzi è forse vero l’opposto, che non se ne può più della “rottura”. Quel che a mio parere manca nella maggior parte del contemporaneo è esattamente “l’idea”: può sembrare un controsenso nel concettualismo che dilaga, ma non lo è; e, oltre ancora, manca il sentimento, inteso proprio in una sua forma viscerale, ai limiti dell’integralismo. C’è differenza tra l’arte e l’intrattenimento, ed è una differenza non di carattere assiologico, ma ontologico. Ed è giusto che esistano libri da ombrellone, ed è giusto leggerli e apprezzarli e magari leggere quelli soltanto e magari da quelli farsi cambiare, rivoltare. Ma l’arte, per me, è un’altra cosa e ha l’odore del sangue. Certi autori contemporanei, è vero, descrivono carogne dall’inizio alla fine, ma non è che uno show, un esercizio di stile, un atteggiamento, un’opposizione allo status quo (anche se lo status quo è ormai il loro, quindi a cosa si oppongono?), un riverbero di altezzosità che sciorina il coraggio di mostrare lo scandalo. Ma una ferita emerge come emerge un pallore, non necessita di ostentazione. L’Occidente artistico, che di sofferenza ne vede ben poca, ha bisogno di spiattellarcela nuda e cruda, trasparente e senza freni. Ma anche senza sostanza.
Una volta si scriveva col sangue, Teresa, e questo bastava. Io non so, onestamente, quale sarà la cifra della tua contemporaneità, mi auguro solo (per te e per la letteratura) che riesca finalmente a travalicare i limiti superficiali dell‘entertainment e della forma violata. Confido nella tua generazione, affinché possa trattenere in sé, senza mai tradirla, la forza integralista di un nuovo radicalismo, caratteristica che non può mancare a nessuna vera avanguardia: siate dunque diffidenti e profondi. Uno scrittore che non sia un semplice narratore è a questo che deve infatti puntare, ed è questo che deve avere, anche più del talento: la verità. E la verità, si sa, è rivoluzionaria, perché conduce alla nudità più che all’orpello.
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Bernardo Giusti, nato a Firenze nel 1990, giovane speranza tra i romanzieri italiani ha pubblicato recentemente “Bivium” Edizioni Masso delle Fate. Teresa non è ancora nata e Bernardo Giusti ha scelto Bebeez per condividere l’attesa.