La regista ungherese Kriszta Székely firma la regia di un’innovativa e ardita versione del Riccardo III di Shakespeare ambientandola ai giorni nostri; Leonardo Lidi affronta Cechov e mette in scena Il gabbiano in una personale e originale lettura, infine Emma Dante torna a Giambattista Basile con la fiaba Pupo di zucchero, dove vivi e defunti si riuniscono per una sola notte.
Insieme a Macbeth è la tragedia di Shakespeare dove la sete del potere da conquistare anche con i mezzi più turpi è al centro dell’azione: Riccardo III, composta tra il 1591 e 92 fa riferimento ai fatti, databili intorno al 1483, succeduti alla guerra delle Due Rose nella quale ha trionfato la famiglia York ai danni di quella dei Lancaster e che poi porteranno all’avvento dei Tudor. Riccardo è l’eroe negativo, il manipolatore sanguinario, l’assassino che non esita a sopprimere tutti coloro che si frappongono tra lui e la corona, compresi mogli e figli. La vicenda prende avvio quando sul trono è insediato Edoardo IV e il fratello Riccardo, duca di Gloucester, comincia a ordire il suo diabolico piano. Dopo averne blandito la furia e l’odio nei suoi confronti per averle ucciso padre e marito, riesce a sedurre e sposare Anna di Neville, vedova di Edoardo di Lancaster. Alla morte del fratello, l’unico non per mano sua, grazie ai complotti e con l’appoggio di una ristretta cerchia di nobili, Riccardo fa uccidere Clarence, il fratello maggiore e nuovo re in pectore, e fa rinchiudere nella torre di Londra i due figli di Edoardo per poi dichiarare illegittimo il naturale erede al trono, il dodicenne Edoardo V che insieme al fratello di 10 anni viene ucciso da un sicario. Nel 1483 Riccardo è incoronato re. Il barbaro omicidio dei piccoli comincia però ad alienargli il favore del popolo, scatenando le sue paranoie con la conseguenza di far strage anche dei fedelissimi, come il duca di Buckingham, suo complice in tanti efferati misfatti, e il corrotto Stanley. Nel frattempo Enrico Tudor, lontano parente dei Lancaster e dal 1471 riconosciuto capo della casata, raduna un esercito anche con l’appoggio dei francesi e nell’agosto del 1485 riesce a sbarcare
presso Bosworth dove sconfigge e uccide Riccardo, salendo al trono come Enrico VII.
Senza togliere nulla alla negatività del personaggio, va detto che Shakespeare ne accentua i tratti peggiori: la sua regina e benefattrice, Elisabetta I, era nipote di Enrico VII e, dato che la corte rappresentava spesso il committente delle opere del Bardo, è lecito immaginare che lui abbia sposato la verità storica proposta dai Tudor, motivati a dipingere nel modo più fosco possibile i nemici, vedi anche l’immagine del villain come “colui al quale i cani abbaiano quando gli arranca accanto” per metterne in risalto la deformità. Riccardo III non è tra i titoli scespiriani più amati dai nostri registi: ne ricordiamo quello diretto e interpretato Alessandro Gassmann nel 2014, poi la mente risale al 1990 quando Ian McKellen con il National Theatre e la regia di Richard Eyre da Londra arrivò a Milano nel suo World Tour, per poi realizzarne una versione per il cinema diretta da Richard Longcraine nel 1995, senza dimenticare l’originale film-documentario di Al Pacino del ‘96. Lunga era quindi
l’assenza dai nostri palcoscenici e a colmare questa lacuna ha benissimo provveduto la regista ungherese Krszta Székely per il Teatro Stabile di Torino per il quale nel 2020 aveva messo in scena Zio Vanja di Cechov. Lavorando sull’adattamento ad opera di Armin Szabò-Székely e la traduzione di Tamara Torok, la regista sceglie la multimedialità, una collocazione contemporanea e ovviamente abiti come i nostri. Il suo Riccardo si muove tra set televisivi usando i media per diffondere fake news in interviste prefabbricate o conferenze stampa congegnate dai suoi dignitari, più simili agli spietati componenti di un consiglio d’amministrazione che a servili aristocratici, cose che vediamo abitualmente anche sui nostri piccoli schermi.
“Chi è veramente questo personaggio che, senza scrupoli né morale – argomenta Székely – ambisce al potere e che poi viene corroso proprio dallo stesso potere conquistato e dal suo senso di colpa? Io lo conosco? E’ lui che governa il mio paese? E’ il politico che ieri sera ha parlato della guerra con le lacrime agli occhi e domani ne farà scoppiare una con un’espressione impassibile? O è un membro senza volto di quelle fondazioni che accumulano miliardi? O è mio figlio sull’altalena o nelle sue sanguinose liti al parco giochi? Non sarò mica io Riccardo III? Il viaggio di questo personaggio deve essere per tutti noi un esempio di quanto l’ardore e la ricerca sfrenata del potere non conosca limiti umani e chi pecca di prepotenza alla fine sarà prigioniero del proprio inferno. Si tratta di una parabola, uno specchio insanguinato, una preghiera oscura con la speranza di un mondo migliore.”
La sua regia privilegia la coralità dando il giusto spazio ad ogni personaggio, spesso ammaliato dal gioco seduttivo e dall’eloquenza del protagonista o costretto ad assecondare le sue trame, senza sfuggire a un destino che lo vedrà finire in un sacco nero, accatastato dal sicario Catesby come immondizia di cui disfarsi. Riccardo incarna il male ma gran parte di chi lo circonda non è da meno. A interpretarlo troviamo Paolo Pierobon, in una delle migliori performance della sua carriera: accennando appena alla diversità fisica, riesce a essere suadente come nel corteggiamento di Anna (Lisa Lendaro), disumano quando emette le sentenze di morte, ipocrita tartufesco quando si fa implorare, abbigliato in un austero saio e brandendo un crocifisso (ci ricorda qualcuno?), anche dagli spettatori in sala, prima di accettare la corona. La sua è una prova che rimarrà nella memoria. Lo affianca un cast di alto profilo, capace anche di sdoppiarsi in due personaggi: menzione per Jacopo Venturiero, Buckingham troppo tardi ravvedutosi, Marta Pizzigallo, potente, folle e veggente Margherita, Manuela Kustermann, dolente Cecilia, madre del malvagio, Elisabetta Mazzullo (Elisabetta) e Nicola Panelli (Stanley). Scena ipertecnologica di Botond Devich, video assai presenti di Vince Varga e costumi dai colori accesi di Dòra Pattantyus. Visto al teatro Elfo Puccini di Milano con straordinario successo di pubblico. Prodotto dallo Stabile di Torino, Emilia Romagna Teatro e Stabile di Bolzano, Riccardo III sarà in tournée al Comunale di Bolzano (fino al 16 aprile), poi al Municipale di Casale Monferrato (18-19/4), Fraschini di Pavia (21-23/4), Sociale di Trento (27-30/4), Storchi di Modena (3-7 maggio), Verdi di Padova (10-14/5) e Quirino di Roma (16-21/5).
Nella sua breve vita Anton Cechov (1860-1904), estimatore del vaudeville e della commedia brillante come si evince anche negli atti unici e nei racconti, temeva che i suoi lavori fossero considerati esclusivamente drammatici, infatti il suo capolavoro, Il giardino dei ciliegi, si ispira proprio a quel genere di teatro. Non sappiamo se il talentuoso e giovane regista Leonardo Lidi (di cui la scorsa stagione abbiamo apprezzato un’avvincente Signorina Giulia di Strindberg) terrà conto di questo allorché affronterà la pièce, ultimo tassello del suo Progetto Cechov, iniziato quest’anno con Il gabbiano, scritto nel 1895, destinato a proseguire con Zio Vanja (debutto in estate al Festival di Spoleto) e terminare appunto col Giardino.
“Tre case o forse la stessa – afferma Lidi – tre famiglie o forse la stessa. E mentre ci sforziamo per comprendere la forma giusta per parlare al nostro presente tormentato e mentre cerchiamo di vendere la casa di Vanja o salvare il nostro storico giardino, noi aspettiamo nella speranza di incontrare la vita attraverso l’amore. Attraverso il teatro, in attesa di un bacio.” Il gabbiano racconta una vicenda di amori non corrisposti, quello di
Konstantin per Nina che invece s’innamora di Trigorin, l’amante di Irina Arkadina, madre di Konstantin, di Semen per Masa e di quest’ultima per Konstantin, oltre che di illusioni perdute, quella di Konstantin di diventare uno scrittore celebre come Trigorin e quella di Nina di diventare un’attrice di successo, come lo era Arkadina.
“In scena – continua Lidi – c’è la drammaturgia dell’amore e dell’assenza di esso, un disegno raffinato di personaggi ed emozioni. La relazione tra forma e arte. Tra loro e noi. Il pubblico e il suo eterno specchio. Individui mai abbandonati, indecisi sull’azione, privi di muscoli, fagocitati dalla paura delle domande e dalla semplicità delle risposte. I ricordi e la nostalgia, l’infanzia, l’incontro che ci ha fatto male e quello che ci ha cambiato la vita.” La sua lettura nasce sotto un segno coerentemente non convenzionale ma non esente da qualche forzatura: tutti personaggi sono sempre in palcoscenico, la scena (di Nicolas Bovey) è minimale, gli attori vestono abiti moderni, Sorin, il fratello di Arkadina è affidato a un’attrice, la bella voce di Gigliola
Cinquetti che canta La Bohème irrompe all’improvviso. Il finale è aperto: Konstantin si spara un colpo di pistola alla tempia ma invece di morire legge le ultime battute del testo. Molto suggestiva l’idea di sfruttare la capienza dell’intero palcoscenico e far avanzare gli attori verso il proscenio, quasi fossero miniature che lentamente prendono forma. Il regista conferma la sintonia con il gruppo di attori con i quali è solito lavorare: tra loro Christian La Rosa, sognante e malinconico Konstantin, Giuliana Vigogna, prima fiduciosa e poi disillusa Nina, Francesca Mazza, autoreferenziale e fatua Arkadina e Massimiliano Speziani, pavido ed egoista Trigorin. Il Gabbiano, prodotto dagli Stabili dell’Umbria e di Torino e da E.R.T., conclude tra gli applausi al teatro Strehler di Milano, dove è in scena sino al 16/4, la lunga tournée seguita al debutto estivo a Spoleto.
E’ antica usanza nel nostro meridione cucinare in vista della ricorrenza del due novembre, giorno dei morti, dolci e biscotti per i defunti che tornano a visitare i loro cari portando anche regali ai più piccoli. Il mangiare quei dolci diventa poi una sorta di rituale antropomorfo in cui simbolicamente ci si ciba delle anime dei familiari scomparsi. Questa tradizione viene citata in una fiaba nella raccolta di Giambattista Basile (1583-1632) Lo cunto de li cunti a cui si è ispirata la regista Emma Dante per il suo Pupo di zucchero, dopo che dello stesso autore aveva messo in scena La scortecata. Vediamo un vecchio intento appunto a preparare un dolce con le sembianze di un pupazzo: vive in totale solitudine ma d’incanto compaiono le sue tre figlie, Rosa, Viola e Primula, suo padre marinaio mai tornato da un viaggio e la madre marsigliese, Pasqualino, il ragazzo nero da lei adottato, Pedro, il ballerino spagnolo che conquistò Viola e la coppia degli zii Rita e Antonio, amanti tormentati e sensuali con lui violento e lei succuba ma innamorata. A turno s’impossessano della massa lievitata, forse un simbolo del legame tra vita e morte, l’assaggiano e ci giocano come fosse una palla. E’ la
tribù dei defunti che festeggia e coccola l’anziano ma è la morte che alla fine torna a vincere: i personaggi scompaiono lasciando al loro posto fantocci a grandezza naturale (di Cesare Inzerillo) che li raffigurano, tutti appesi come in una macabra processione, illuminata dai lumini che il vecchio di nuovo solo accende, prima di sedersi e addormentarsi, forse di un sonno eterno.
Emma Dante firma, oltre a scene e costumi, uno spettacolo vibrante, pieno di passione e pulsioni vitali, dove molto spazio è riservato al canto e alla danza, ricco di splendide immagini e suggestioni visive giocate tra luci e ombre, buio e squarci di colore come in un quadro in perenne movimento. Alla perfetta riuscita contribuisce l’energia e la generosità dei suoi attori e attrici: in primis Carmine Maringola che assume sembianze, tic e movenze dell’anziano, poi Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (il padre), Stephanie Tailandier (la mamma), Tibeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Maria Caracappa (zia Rita) e Valter Sarzi Sartori (zio Antonio). Pupo di zucchero, produzione Sud Costa Occidentale, rimane al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano sino al 23 aprile, poi sarà all’Ivo Chiesa di Genova dal 26 al 29/4.
a cura di Mario Cervio Gualersi