Fino a marzo 2024, presso il Museo della Fanteria di Roma, l’Universo di Andy Warhol è in esposizione, racchiudendo l’intera essenza dell’uomo e dell’artista, re della Pop Art. Una mostra da non mancare e alla quale dedicare tempo e attenzione ben meritati per il numero e la complessità delle opere.
Alcune dichiarazioni di Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, sono illuminanti soprattutto sull’etica di Warhol definito il Raffaello della società di massa americana che ha dato classicità all’oggetto di costume trasportandolo dall’effimero in uno spazio di immortalità e ha donato pari classicità al linguaggio della Pop Art.
La mostra, assai articolata, documenta il percorso di un artista poliedrico che ha utilizzato tutti i mezzi possibili quali fotografia, pittura, scultura, musica, passando lui stesso attraverso diversi ruoli espressivi e professionali: grafico pubblicitario, talent scout, produttore, editore, fotografo e regista.
L’attività di Warhol, eclettica fino all’inverosimile, nel percorso della mostra si dipana attraverso 250 opere provenienti da collezioni private. L’artista ha toccato ogni ambito della industria artistica e culturale nel corso di una parabola ascendente di oltre 30 anni, dal suo arrivo a New York nel 1949 e fino al 1987 anno della sua prematura scomparsa.
La mostra ospita oltre 70 serigrafie tra le quali le seriali Campbell’s Soup, Marilyn Monroe, Mao, Flowers, Fish, Gems e Halston, cui si aggiungono le serie dedicate alle favole di Andersen e quelle del libro Cats. Nella esposizione trovano posto 24 ceramiche Rosenthal dipinte in color oro e firmate da Warhol. Grande talento nel business come nel glamour, Warhol trova spazio nella attività editoriale e fonda la rivista Interview nel 1969, la più ambita dalle celebrità, di cui realizza le copertine dedicate a personaggi famosi dello Star System, da Jack Nicholson a Salvador Dalì, da Annie Lennox a Jacqueline Bisset e Angelica Houston.
Dalla New York “underground”, della quale Warhol è ovviamente
parte integrante e dinamica, nasce la serie Ladies and Gentlemen del 1975, con 10 ritratti serigrafici e 20 acetati fotografici esposti in mostra, che parla di drag queen e travestiti neri e ispanici del Gilded Grape.
Non può mancare in mostra il video del film sperimentale muto e in b/n Empire diretto da Warhol nel 1965 e il docu-film Trash- I rifiuti di New York del 1970, prodotto da Warhol con la regia di Paul Morrissey completo di manifesti e foto promozionali.
Con Warhol, innovatore nel suo modo di intendere l’arte, viene stravolto il concetto della unicità dell’opera d’arte, della irripetibilità dell’opera autografa che diventa seriale, già vista ed esposta in altre collezioni, musei e gallerie, con un soggetto ripetuto che diventa icona riconoscibile. Al prodotto unico subentra l’opera ripetuta.
Warhol ha formalizzato e normalizzato l’oggetto quotidiano, dichiara Bonito Oliva, così che resti nella storia e duri nel tempo, gli toglie ogni profondità psicologica e lo rende in tal modo immediatamente fruibile, pronto al consumo come ogni prodotto che affolla il nostro vivere quotidiano. Warhol trasporta nell’arte l’idea del multiplo, dell’oggetto fatto in serie: l’individuo ripetuto in uomo massa, in uomo moltiplicato portato dal sistema in una condizione di esistenza stereotipata.
La serialità dell’immagine di consumo comporta, infatti, un adeguamento alla impersonalità e al conformismo.
Conformismo che, nella società di massa, non è un peccato mortale, aggiunge Bonito Oliva, non è inteso come perdita della personalità, bensì come adeguamento confortevole a standard di comportamento che permettono al corpo sociale di respirare un’atmosfera unanime, una maniera di sfuggire lungo la tangente della quantità a una solitudine altrettanto quantitativa. Lo strumento che Warhol utilizza è uno stile che non rifiuta il sistema meccanico di riproduzione dell’immagine.
In una intervista apparsa su “Art News” nel novembre del 1963, Andy Warhol dichiara:
“Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi. La pop art è amare le cose. Amare le cose vuol dire essere come una macchina, perché si fa continuamente la stessa cosa. Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina“.
Palcoscenico della Pop Art e di Warhol è New York e non potrebbe essere che New York.
Sono tutte immagini recuperate dallo spazio cittadino: una megalopoli sconfinata e proliferante, portato di una economia in espansione anche oltre i confini degli Stati Uniti. La metropoli è la culla naturale dell’American Dream, inteso come sogno continuo di opulenza organizzato dalla merce. La città è un grande happening, con un numero di eventi senza controllo in cui le immagini si associano tra loro, si scompongono, si sovrappongono e scompaiono all’interno di un paesaggio artificiale vissuto come l’unica natura possibile dell’uomo moderno. Lo spazio delle relazioni interpersonali è abolito ed esiste solo un luogo di scambio, puro passaggio di merci. Il paesaggio artificiale della città è lo sfondo naturale dell’uomo moderno.
Warhol fa propria questa visione e mentalità, con un occhio forse cinico, ma vive la città come matrice di immagini che possono essere assunte nel campo dell’arte e vive questa operazione con una coscienza serena perché priva di pesi ideologici
Se il palcoscenico è New York, il teatro di Warhol è l’America tutta dove la merce è la madre di ogni sogno e bisogno creando ulteriori sogni e bisogni. E l’arte è espressione/esibizione di tale sogno con le immagini, tutte uguali, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, pubblicità e altri strumenti di persuasione più e meno esplicita.
D’altronde la società americana è permeata da immagini accattivanti e da merci che affollano il panorama della città e i sogni della gente. Un mondo artificiale, omologato, privo di ogni psicologia individuale dove l’uomo produce e consuma seguendo il richiamo delle sirene.
Un mondo al quale non sfugge nemmeno l’artista. Così Warhol ribadisce e accetta lo stato di manipolazione di ogni cosa, anche dell’uomo, senza disperazione, senza possibilità di alternativa, applicando la considerazione irreversibile dell’uomo come “uomo consumato”.
Ma Andy Warhol non è solo questo. Nella sua opera c’è una percezione di inquietudine – ci dice Vincenzo Sanfo, curatore della mostra – che nasce da un desiderio di accettazione e approvazione che ha pervaso la sua esistenza in quanto figlio di immigrati e quindi, inconsciamente, non del tutto americano. E da questo retroterra nasce la sua volontà di appropriarsi dei miti dell’American Dream: le Campbell’s, le Marilyn, e tutti i simboli di una America popolare e riconoscibile che hanno arricchito l’iconografia dell’artista.
Warhol si appropria della quotidianità e del glamour a Stelle e Strisce che lo rende più americano degli americani, cantore di quella forma di “edonismo” che è parte integrante della cultura degli Stati Uniti, dove l’apparire è spesso più importante dell’essere. Le figure e i personaggi del Pantheon di Warhol non sono ritratti che ne rappresentano gli aspetti psicologici ma prodotti-icone di una società ricca, così come lo è la bottiglia della Coca-Cola, riproducibili e suscettibili di una diffusione planetaria.
C’è ancora un capitolo da citare nell’universo di Warhol: la musica che sottolinea lo stretto rapporto tra l’artista e l’industria discografica e anche con gli artisti della scena Pop, Rock e Jazz. Molto interessante la curatela di Red Ronnie che, nel corso della presentazione, ha raccontato episodi della vita di Warhol, ancora squattrinato nel 1949, quando disegnava copertine degli LP per la Columbia Records – in mostra i 60 vinili originali con le copertine di Andy Warhol entrate nel mito contemporaneo – mentre la rivoluzione è già nel fatto di avere copertine personalizzate.
Il primo volto che disegna è quello di Count Basie nel 1955, poi passa agli strumenti con il clarinetto di Artie Shaw, la tromba di Joe Newman e il sax di Johnny Griffin.
A metà anni ’60 Andy è già famoso ma continua a cercare nel mondo della musica una occasione speciale perché questo è il mondo che amplifica tutto ciò che tocca; la trova una sera del 1965 al Cafè Bizarre a New York con i Velvet Underground, perfetti sconosciuti al punto da essere licenziati quella stessa sera perché la loro esibizione è ritenuta volgare e scandalosa. I Velvet entrano a far parte della Factory, lo studio di Warhol, e questo è per loro la svolta, catapultati al centro del luogo più eccentrico dell’arte mondiale. La copertina dell’LP che i Velvet registrano, grande capolavoro, è quasi più importante del contenuto. Su fondo bianco una banana che si può sbucciare e sotto la pellicola appare una banana di colore rosa, chiaro simbolo fallico. Copertina unica che, oltre al disegno, porta solo la firma di Andy Warhol.
Altrettanto famosa la copertina nata nel 1971 per “Sticky Fingers” dei Rolling Stones con una vera zip cucita sulla foto dei jeans Levi Strauss indossati da Joe Dalessandro.
Andy Warhol disegnerà molte altre copertine con il volto di Paul Anka, Liza Minnelli, Diana Ross, Miguel Bosè, Yoko Ono e John Lennon. Il mondo della musica ha reso omaggio a questo artista geniale con la voce di David Bowie che crea un brano intitolato “Andy Warhol” e con quella di Lou Reed che torna a raccontare dell’amico nei suoi brani e ancora in una intervista del 1990 con Red Ronnie.
Tutto quello che l’esposizione mostra e racconta ci dice anche, per bocca di Vincenzo Saffo, che l’opera più riuscita di Warhol è Andy Warhol stesso, la sua immagine, il suo genio, il suo stile di vita che è quasi una religione laica, l’essere conosciuto nel mondo non solo come artista ma soprattutto come icona che ha lasciato dietro di sé una traccia indelebile.
a cura di Daniela di Monaco
La mostra è prodotta da Navigare srl in collaborazione con AICS Comitato Provinciale di Roma, Difesa Servizi e Art Book Web, con il patrocinio di Città di Roma.