Nei 10 anni tra i 2013 e il 2022 l’81% degli operatori di buyout attivi in Italia ha inserito incentivi ai manager in almeno 3 operazioni su 4. E a ricevere gli incentivi non sono stati soltanto gli amministratori delegati e le prime linee dell’azienda ma anche il middle management. E’ il risultato principale della ricerca “Buy out e incentivi ai manager”, realizzata congiuntamente da AIFI, Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt, e lo studio legale internazionale DLA Piper, ie presentata ieri presso la sede dello studio nel corso dell’evento DLA Piper Private Equity Annual Roundtable (si veda qui il comunicato stampa).
Che i fondi di buyout chiedano ai manager delle aziende in portafoglio un allineamento di interessi e quindi un coinvolgimento diretto nelle sorti delle imprese attraverso qualche strumento di partecipazione al capitale non è una novità, ma è interessante capire quali siano gli strumenti più utilizzati oggi da un segmento di mercato che pesa in maniera importante sulle statistiche italiane del private equity. Ricordiamo che nel 2022 gli investimenti di buyout mappati da AIFI-PwC hanno raggiunto quota 10,9 miliardi di euro per 185 operazioni nel 2022, arrivando a pesare il 46% dell’ammontare investito complessivo di quell’anno, che aveva segnato un record di attività (si veda altro articolo di BeBeez), per un totale investito negli ultimi dieci anni ben 48 miliardi. Nel primo semestre 2023, invece, anche i buyout hanno accusato il colpo, insieme a tutto il mercato, restando comunque il tipo di operazioni con il maggior peso sul totale: 75 operazioni su un totale di 346) per 2,2 miliardi (su 3,2 miliardi complessivi) (si veda altro articolo di BeBeez).
L’analisi AIFI-DLA Piper è stata condotta su un campione di 40 operatori del private equity, di cui 24 domestici e 16 internazionali per un totale nel periodo 2013-2022 di 349 operazioni (il 32% degli investimenti di buy out nel mercato italiano) e 13 miliardi di capitale investito (il 28% dell’ammontare investito in buy out nel mercato italiano).
Quello che è emerso dalla ricerca è che le forme di incentivazione passano principalmente attraverso strumenti di sweet equity, cioè strumenti finanziari che permettono di ottenere ritorni più che proporzionali rispetto a quanto investito. Poiché questi rendimenti sono tendenzialmente correlati alla creazione di valore derivante dallo svolgimento di attività professionale, il tema del trattamento fiscale di questi strumenti assume particolare rilievo, in quanto, come noto, il regime fiscale dei redditi da lavoro è significativamente più oneroso di quello dei redditi di natura finanziaria e, a tal fine, occorre essere in grado di adottare soluzioni che non producano criticità.
Da questo punto di vista l’analisi di mercato dimostra che la modifica normativa in materia di carried interest (contenuta nell’art. 60 del decreto-legge n. 50/2017, si veda altro articolo di BeBeez) ha introdotto nel nostro ordinamento un elemento di grande utilità per gli operatori, tanto che per il 66% del campione interpellato lo strumento dello sweet equity, è diventato prevalente rispetto a quello dei bonus tradizionalmente tassati secondo le aliquote del reddito da lavoro. Tale struttura viene infatti inserita dal 40% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti.
Lo strumento del co-investimento/re-investimento, che prevede il re-investimento da parte dei soci/soci-manager in società del gruppo investitore o nella società target con finalità di allineamento di interessi, rappresenta una ulteriore modalità operativa che viene inserita dal 55% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti, coinvolgendo principalmente ad e prima linea dell’azienda. Questi re-investimenti possono arrivare ad ammontare fino al 10-30% del valore del deal.
Resta confermata poi la prassi dell’attribuzione del cosiddetto exit ratchet, cioè il pagamento in denaro ai manager di parte dei proventi derivanti dal disinvestimento da parte dell’investitore. La ricerca inoltre evidenzia la flessione, a scapito degli strumenti descritti in precedenza e soprattutto a seguito della introduzione della normativa sul carried interest, delle stock option.
“Lo studio mette in evidenza il ruolo fondamentale del private equity nella crescita e valorizzazione del management; Il 40% degli operatori ha inserito almeno tre nuovi manager e l’81% ha utilizzato incentivi almeno in tre operazioni su quattro”, ha detto Anna Gervasoni, direttore generale di AIFI., che ha aggiunto:“Il contributo dei fondi sul capitale umano permette una crescita delle competenze che è fondamentale per consolidare l’impresa e permetterle di affrontare le sfide dei mercati”.
Per Alessandro Piermanni (DLA Piper), “l’incentivazione del management team costituisce un elemento chiave per il successo delle operazioni di buy out, queste forme di premio volte all’allineamento degli obiettivi tra investitori e gestori, contribuiscono alla creazione e sviluppo di una categoria professionale determinante per la crescita e la competitività delle imprese. Per i fini del buon funzionamento del sistema è molto importante che il quadro normativo di riferimento risulti chiaro e che a livello applicativo non vi siano incertezze”.
Christian Montinari (DLA Piper) sottolinea che “il Private Equity ricopre un ruolo chiave per la crescita economica e per la trasformazione tecnologica del Paese nonché per il rapido raggiungimento di obiettivi in ambito di sostenibilità delle imprese. Sono, quindi, necessarie norme fiscali volte ad agevolare il capitale umano e finanziario dedicato a questi cambiamenti. In questo contesto il ruolo e l’attività dei manager sono determinanti per il raggiungimento di questi obiettivi”.
La ricerca evidenzia poi che nelle operazioni di buy out una parte consistente degli operatori punta alla valorizzazione, stabilizzazione e incentivazione dei team manageriale interno alle aziende target. Nel caso vengano coinvolti profili esterni, vanno generalmente nell’area finanziaria e di direzione. La figura dell’imprenditore rimane, comunque, centrale in quanto oltre l’80% degli intervistati ha realizzato almeno un buy out con il coinvolgimento dell’imprenditore che rimane a ricoprire il ruolo di manager. La ricerca mette in luce, inoltre, il ruolo determinante degli head-hunter. Infatti in 3 casi su 4 la selezione dei manager esterni viene effettuata tramite queste società specializzate.
L’indagine dimostra, inoltre, che al momento il mercato non ha ancora elaborato in modo consistente indicatori di performance manageriale diversi da quelli finanziari (per esempio indicatori incentrati sulle tematiche ESG). I fattori del ritorno Cash-on-Cash (cioè il multiplo realizzato rispetto a quanto investito) e dell’IRR (cioè il tasso di rendimento del capitale investito) rimangono, infatti, preponderanti. A tal riguardo, il mercato evidenzia la predilezione per una combinazione delle due metriche in quanto, l’utilizzo di una sola delle due potrebbe non cogliere appieno il senso del risultato effettivamente ottenuto dall’investimento.
E ancora, lo strumento del management by objectives (c.d. MBO), ovvero l’assegnazione di obiettivi individuali ai manager il cui raggiungimento è premiato tramite pagamento di bonus, risulta essere particolarmente diffuso e legato al raggiungimento di obiettivi specifici e individualizzati, non strettamente correlati al ritorno sull’investimento: esso viene inserito infatti dal 65% degli operatori in oltre il 75% degli investimenti, coinvolgendo ad e prima linea dell’azienda nel 67% dei casi, mentre nel 28% dei casi si arriva a coinvolgere anche il middle management. Tra gli obiettivi specifici quelli relativi all’area di attività del manager o anche quelli complessivi (come principalmente ebitda e PFN).
Inoltre, un punto estremamente sensibile analizzato dallo studio è quello degli eventi interruttivi del rapporto di collaborazione con il management e del trattamento di tali circostanze in funzione delle cause che le hanno determinate. In quasi la totalità dei casi esaminati si prevedono condizioni di cosiddetto good/bad leaver dove, il good leaver ricomprende prevalentemente ipotesi di morte/invalidità, dimissioni per giusta causa e revoca senza giusta causa, mentre il bad leaver ricomprende prevalentemente revoca per giusta causa e dimissioni in assenza di giusta causa. Le cause di leavership precludono di regola la prosecuzione del rapporto sociale determinando pattuizioni di acquisto/riscatto delle partecipazioni e/o degli strumenti emessi e incidono sulle condizioni economiche di riacquisto: in caso di good leaver il riacquisto avviene nel 92% dei casi al fair market value, quindi, con modalità non penalizzanti, mentre in caso di bad leaver il riacquisto avviene nel 92% dei casi a un valore inferiore al fair market value. Interessante notare che il 95% degli operatori non ha affrontato un contenzioso sulla sussistenza di eventi di good leaver/bad leaver.