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La Galleria Gracis di Milano, in collaborazione con la Richard Saltoun Gallery, galleria con sede Roma e a Londra che ha la specificità di recuperare il lavoro di artiste donne, dimenticate, presenta fino al 28 marzo la mostra personale di Franca Maranò, artista barese, classe 1920, scomparsa nel 2015, figura chiave della scena artistica dell’Italia meridionale del secondo Dopoguerra.
In esposizione circa 30 opere che ne ripercorrono la vicenda artistica, che combinava motivi organici e formali non figurativi negli anni ’60, per approdare poi, negli anni ‘70, al lavoro con le tele grezze di cotone e lino.
“Il tema della mia opera si riferisce al mio stato di donna matura che infilza la tela con uno strumento prettamente femminile, riandando al passato, alle sue attese, alle sue delusioni, ai momenti felici e ai pensieri che purtroppo si affacciano alla mente”, così Franca Maranò, pioniera dell’avanguardia femminista, si raccontava. Il suo corpus di opere è unico e include pittura, tessuto e ceramica. Infatti, Maranò è stata fra le poche artiste donne ad aver approfondito il medium della ceramica in un’epoca dominata dai “grandi” artisti uomini quali Fausto Melotti, Lucio Fontana, Michele Fabbricatore e Fausto Salvi.
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L’artista nasce a Bari nel 1920, in un meridione ancora imbevuto di cultura patriarcale in cui per le donne era ancor più difficile emergere rispetto ad altre zone dell’Italia. Un contesto di marginalità che ha fortemente influito sul lavoro dell’artista che, anche nella sua produzione più astratta, ha conservato la memoria delle suggestioni formali arcaiche e misteriose della sua terra d’origine. In un testo autobiografico del 2001 Di due vite una si racconta come donna e come artista, cercando di superare il ricordo di una giovinezza difficile, in una condizione di povertà, dopo aver perso presto il padre e il fratello, anni difficili da ricordare.
Il filo conduttore delle opere della Maranò appare essere l’urgenza di raccontare il suo vissuto personale, che diviene spunto per una riflessione di genere sul ruolo della donna.
Maranò si avvicina all’arte dopo gli studi liceali frequentando lo studio della pittrice Enedina Zambrini Pitti, una delle allieve di Giovanni Fattori. Le opere di questo primo periodo sono tecnicamente impeccabili, ma ancora lontane dall’assimilazione di un proprio linguaggio. Pittrice figurativa sceglie per dieci anni di smettere di dipingere quando il marito le fa notare che deve trovare se stessa. Nei primi anni Sessanta la Maranò rimane affascinata dalle ricerche informali che polarizzano l’ambiente artistico internazionale; ciò si traduce in opere di piccolo formato, con figure geometriche che si congiungono sulla tela in una gamma cromatica di bianchi, grigi e marroni. Tali segni calligrafici vengono poi trasposti nella ceramica, come naturale evoluzione del lavoro bidimensionale su tela, con toni scuri e terrosi, ricchi di rimandi culturali a un simbolismo magico-primitivo di sapore arcaico.
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La terra come origine della natura e di tutto il creato, che diviene ispiratrice della tavolozza prediletta dall’artista in una progressiva astrazione del reale. Le sue opere di caratterizzano per quadrature, riquadri, ora incisi, ora lavorati con un filo e la tessitura, mestiere tipicamente femminile, che richiede tempo, pazienza ed esige cura, diventa la metafora, di un femminismo non ideologico. Nel momento in cui questo tipo di lavoro, meccanizzato, sta sparendo, la Maranò vuole recuperarlo. Dopo l’informale e astratto che si ancora sempre alle forme geometriche, verso la metà degli Anni Settanta la ricerca artistica di Franca Maranò sfocia in una meditazione materica sui tessuti, un’operazione che l’artista definisce “una precisa scelta mentale”. Il lavoro con ago e filo, si ritrova in una nuova espressione artistica.
Maranò si fece anche sostenitrice del lavoro delle artiste donne esponendole al Centrosei, fra le prime gallerie d’arte contemporanea nel Sud Italia, nata nel 1970 dalla volontà di sei artisti: Umberto Baldassarre, Mimmo Conenna, Sergio Da Molin, Franca Maranò, Michele Depalma e Vitantonio Russo. Inizialmente costituita come associazione culturale, ha svolto un ruolo fondamentale nel sostenere e diffondere tendenze d’avanguardia nelle arti visive del Sud Italia. Tuttavia gli artisti, sei appunto, finiscono per litigare e dividersi, così il marito della Maranò, Nicola De Benedictis, trasforma l’associazione culturale in vera e propria galleria che avrà un suo spazio di tutto rispetto. Tra le artiste esposte figurano alcune delle più schierate impegnate protagoniste della scena italiana come Tomaso Binga, Maria Lai, Elisa Montessori, Mirella Bentivoglio e Renata Boero.
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A partire dal 1975 la tela cucita si trasforma in progetto performativo: nasce la serie Abiti mentali (1975–82), esposti per la prima volta alla galleria Centrosei di Bari a marzo 1977, opere da indossare realizzate in tela medievale, un misto di lino e canapa, che spingono ancora oltre l’incessante ricerca dell’artista barese. Appesi al muro come stendardi, questi lavori necessitano di essere indossati per attivarsi. Dei sai nei quali mascherarsi, da indossare e usare come strumenti di meditazione, espressioni di un misticismo laico, che celano un corpo represso e domato per secoli, come a denunciarne la marginalizzazione sociale. Un tema, quello del corpo della donna, che è ancora oggi di una triste e tragica attualità. Gli abiti mentali sono altresì un tentativo di riconnessione tra l’attività artistica e il mondo esterno che viene così inglobato nell’opera. Uno spogliarsi dalla propria veste pubblica, con tutto ciò che essa comporta, per rinascere nell’arte, simboleggiata dal saio: un abito puro che rappresenta una tabula rasa di Francescana memoria.
I suoi lavori sono raffinati, puliti e ben esposti nello spazio della Galleria Gracis che crea dei capitoli distinti senza fratture, con la sala centrale dedicata all’informale e un ambiente riservato a due Abiti mentali; in uno spazio di passaggio tre quadri monocromi, e una saletta dedicata al monocromo rosso e toni della terra.
Il lavoro di Franca Maranò è stato esposto in importanti mostre in Italia e all’estero, tra cui quelle al WIAC- Women’s International Art Club, Londra (1965); MIC Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza; Expo Arte, Bari (1976, 1977, 1989); K18- Stoffwechsel, Kassel (1981) e diverse edizioni dell’Art Basel a Basilea (dal 1981 al 1985) con Centrosei.
a cura di Ilaria Guidantoni