Tematiche scomode come inclusione, diversità e identità al centro della Biennale Teatro appena conclusasi a Venezia nei suggestivi spazi dell’Arsenale: i direttori artistici Gianni Forte e Stefano Ricci scelgono il colore rosso (Rot) quale emblema per la seconda tranche del loro mandato triennale.
Ad aprire la rassegna è stato The Lingering Now (L’indugiare adesso), una pièce multimediale diretta dalla regista brasiliana Christiane Jatahy, insignita del Leone d’Oro. E’ questo il secondo tassello di Odissey, una trilogia ispirata all’Odissea di Omero, di cui Itaca era il precedente. Al posto di Ulisse troviamo i rifugiati o coloro che vorrebbero emigrare per salvarsi la vita da regimi dittatoriali e repressivi o più semplicemente per assicurare a sé e alla propria famiglia un futuro libero dalla fame e dalla povertà. Li vediamo nelle interviste proiettate su un grande schermo: ci parlano da paesi come la Palestina, Libia, Sudafrica, Grecia e Amazzonia, talvolta con le loro reali identità, altre volte con il volto e la parola di attori e attrici. Non esiste quindi una vera e propria azione teatrale se non quella affidata al alcuni performer che, mescolati tra il pubblico, a sorpresa irrompono in scena cantando e ballando con l’intento di coinvolgere lo spettatore in un momento liberatorio in cui, dopo l’angoscia causata delle tristi vicende narrate, trovare lo spazio per un sorriso. “Rimuoviamo i rifugiati” afferma Jatahy “dal nostro mondo, attaccando loro un’etichetta che li tiene a distanza di sicurezza dalla nostra realtà. E’ difficile immaginare che possano influenzare noi e i nostri cari. Questa vicinanza ci viene ricordata durante lo spettacolo dagli attori palestinesi e siriani, ora rifugiati in Libano. Questi viaggi hanno avuto un profondo effetto su di noi grazie al confronto con persone così forti che si sono aperte per portare un tocco di luce alla nostra finzione e che, attraverso questa stessa finzione, hanno illuminato la loro e la nostra realtà.” Uno dei viaggi fatti da Christiane – che sullo schermo diventa uno dei momenti emotivamente più coinvolgenti della serata – è quello in cui la regista visita un villaggio indigeno in piena foresta amazzonica che le dissennate scelte di Bolsonaro stanno letteralmente distruggendo col fuoco, mettendo a repentaglio la stessa vita dei pochi nativi sopravvissuti. Se a The Lingering Now manca forse l’intensità espressiva delle precedenti Tre sorelle cechoviane, è però scevro di quel senso di artificiosità che avevamo riscontrato in Entre Chien et Loup, ispirato al film Dogville di Lars von Trier e prima parte di una Trilogia dell’Orrore.
Meritoria iniziativa già ben rodata da qualche anno è la Biennale College, una finestra utile per portare alla ribalta giovani talenti della drammaturgia e della regia. Il vincitore dello scorso anno, Olmo Missaglia (31 anni) ha presentato Una foresta, un progetto alla cui scrittura hanno collaborato anche gli interpreti Lea Chanteau, Michele De Luca, Mizuki Kondo e Romain Pigneul. Manca una vera e propria trama con uno sviluppo consequenziale: tre giovanotti di lingue e da paesi diversi si ritrovano ai margini di una metaforica foresta (l’età adulta con tutte le sue problematicità?) dove le loro vite s’intrecciano per alcuni istanti in un vorticoso girotondo in cui non mancano slanci affettivi, cattiverie e gelosie. Le cose si complicano con l’arrivo di una ragazza che li prende in carico per portarli all’interno di quel misterioso spazio, ai confini tra realtà e finzione, trasformando la performance in una sorta di road movie. “Il mio timore più grande” dice Missaglia” è che disuguaglianze e disequilibri siano già così parte integrante del nostro DNA societario che siamo destinati a continuare ad accettarli, ad esserne de-sensibilizzati, a non intravedere più un’alternativa comune ma solo futuri esplosi e personali.”
Da sempre sperimentatore dell’uso combinato della ripresa video in diretta associata all’azione scenica, l’americano Caden Manson con Jemma Nelson e il suo Big Art Group ci sorprende piacevolmente con la sua creazione Broke House (Casa di spiantati), mostrandoci le vicende intrecciate dei suoi abitanti, ripresi nella loro quotidianità da un regista che ne vuole ricavare un corto. C’è l’intestatario dell’appartamento, gay maturo, che non nasconde un forte interesse per il giovane filmaker ma deve tenere a bada un’amica convivente assai borderline che sogna di incontrare online un ricco principe azzurro con il quale fuggire e due sorelle senza scrupoli (una trans e l’altra un travestito) che la derubano di tutti i risparmi. Come un fulmine a ciel sereno arriva l’avviso dell’imminente sfratto e, se già avevamo ritrovato echi del Giardino dei ciliegi di Cechov, il finale con gli scatoloni colmi e gli addii, ce lo riportano in pieno. Secondo Caden Manson “Broke House è in parte commedia, in parte rituale, in parte incantesimo d’amore. La performance esplora un processo di costruzione (una famiglia, un sistema di credenze, un’economia di valori) bruscamente interrotto da eventi come l’incoerenza sociale, il disastro climatico, lo sconvolgimento economico col risultato che gli attori entrano in uno stato transitorio di possibilità. Come tutti i nostri lavori vuole essere anche una riflessione sullo stato attuale dell’America che crediamo sia in continuo movimento almeno da quando il nostro ensemble è operativo.” Eccellente gioco di squadra di tutto il cast (David Commander, Nicholas Gorham, Heather Litteer, Willie Mullins, Matthew Nasser e Edward Stresen Reuter) e menzione speciale per la scenografia e le proiezioni che hanno illuminato le pareti del teatro Piccolo Arsenale a cura dello stesso Manson.
Non capita certo tutti i giorni di entrare in sala e, avviandosi verso il proprio posto, notare due pornostar in piena attività in un angolo del palcoscenico. E’ quanto accade al teatro Alle Tese in una sorta di “vivace” prologo a Brief Interviews with Hideous Men – 22 Types of Loneliness (Brevi interviste con uomini odiosi – 22 tipi di solitudine) tratto dall’omonimo libro di David Foster Wallace (lo scrittore americano suicidatosi a soli 46 anni) che la regista di origine russa ma cresciuta in Lettonia Yana Ross (ora attiva tra Berlino e Zurigo) traspone sulla scena, proprio in nome dell’amore per il suo pensiero. Il testo è strutturato su una serie di domande spinose che una giornalista rivolge a un congruo numero di individui: noi però non sappiamo quali siano le sue domande ma ascoltiamo solo le risposte. Il sesso nei suoi aspetti più articolati è il tema dominante e il maschio nei confronti del genere femminile esce alquanto ammaccato: misoginia, sopraffazione e violenza caratterizzano il suo comportamento. Gli “imputati” provano a giustificarsi, si arrabbiano, a volte litigano con l’intervistatrice: se da un lato Wallace sembra chiedersi sin dove possono arrivare gli uomini e la mascolinità tossica, collocando la disumanizzazione nella sfera privata e quindi invisibile, dall’altro sembra nutrire una sorta di empatia (comprensione o pietà?) verso di loro che la regista intende sottolineare – pur non condividendola – rendendo questi inquietanti ritratti spesso talmente estremi da risultare grotteschi e perfino comici, quindi apparentemente innocui. “Mi sarebbe piaciuto discutere con Foster Wallace dei limiti dell’empatia. Alla sua fiducia nell’infinita possibilità di empatizzare con il prossimo, avrei voluto ribattere che non possiamo comprendere e investigare tutto se ci manca la fisicità dell’esperienza, se non abbiamo sperimentato certe cose in prima persona. Wallace conosceva bene la sofferenza del vivere: soffriva di depressione, alcolismo e dipendenza dai media. A proposito di questo suo pamphlet disse che il principio unificatore è la solitudine: tutto ciò che ha scritto a che fare con questo”. A differenza dell’asciutta messa in scena in italiano proposta di recente dal regista Daniel Veronese, Ross gioca sull’accumulo di citazioni, colori, musiche e ammiccamenti erotici (che peraltro non turbano il disincantato pubblico) per vivacizzare al massimo Il testo che a volte rischia però di cadere nella verbosità. Gli interpreti (Lena Schwarz, Michael Neuenschwander, Iknur Bahadir e Urs Peter Halter, affiancati dalle pornostar Katie Pears e Conny Dachs) sono tutti davvero bravi, recitando, cantando e ballando ai limiti della resistenza fisica.
Il Leone d’Argento è stato assegnato a Samira Elagoz, trentenne artista e regista finlandese-egiziana, operativa tra Amsterdam e Berlino, che ha presentato la sua creazione Seek Bromance (Cercando un’amichevole storia d’amore) in cui mette in scena la sua transizione dal femminile al maschile iniziata 3 anni fa. “Ho un rapporto estremamente complesso con la femminilità e con l’essere donna. Ho dato tutto a questo aspetto. Mi sono identificato con l’essere donna come esperienza ma non come identità. Il fatto di essere cresciuta come donna ha plasmato ciò che sono oggi e non sarei quello che sono se non fosse stato per il mio essere donna, ma allo stesso tempo non è qualcosa che voglio continuare a essere.”
Nel ricchissimo cartellone non si può dimenticare la personale dedicata al regista svizzero Milo Rau, direttore artistico del teatro di Gent in Belgio, comprendente lo spettacolo La Reprise (La ripresa) e una rassegna del suo teatro filmato, gli workshop e le masterclass nell’ambito della Biennale College e l’appuntamento quotidiano sotto le stelle con Late Hour Scratching Poetry (Graffiante poesia a tarda ora), un ciclo di letture dedicato alle opere in prosa di Alda Merini in collaborazione con L’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, aperto da Asia Argento e curato da Galatea Ranzi che ha dato voce a passioni, tormenti e gioie della poetessa: accanto a lei giovani attrici e in conclusione Sonia Bergamasco. Un modo eccellente per concludere la serata a cui hanno partecipato tantissimi giovani: segnale quanto mai incoraggiante per il futuro del nostro teatro.
a cura di Mario Cervio Gualersi