Il drammaturgo David Mamet racconta il turbolento ménage tra due donne nell’America di fine ottocento e l’israeliano Hanoch Levin descrive le peripezie di un anziano clochard che vuole concedersi un’avventura erotica: Aristofane e Apuleio ci riportano nel mondo dei classici greci e latini in una rassegna di teatro popolare ambientata in parchi e giardini.
Riassumere in poche righe il contributo che il drammaturgo e sceneggiatore David Mamet, icona americana, nato a Chicago nel 1947, ha saputo dare a teatro e cinema, è cosa davvero ardua. In Italia lo abbiamo conosciuto prima attraverso lo schermo: Il postino suona sempre due volte, Il verdetto e poi il cult Gli intoccabili, diretto da Brian De Palma, poi si è misurato anche come regista in La casa dei giochi, Le cose cambiano e il thriller Homicide. Altrettanto forte e significativa è la traccia che ha lasciato come autore per la scena, da American Buffalo, a Perversione sessuale a Chicago, Glengarry Glen Ross, Oleanna, che sono stati tutti allestiti con successo sui nostri palcoscenici, grazie anche al lavoro di Luca Barbareschi che ne ha curato traduzioni e regie.
I temi cari a Mamet riguardano le dinamiche psicologiche e sociali insite nel capitalismo, nella sessualità, il giudaismo e la mascolinità. Ci racconta una società contemporanea regolata dall’istinto di sopraffazione, dall’inganno e dal rancore in un contesto di rapporti difficili e complicati tra persone spesso odiose e
imperfette come gli agenti immobiliari di Glengarry Glen Ross che pur di vendere case non esitano a commettere le peggiori nefandezze sino ad arrivare al crimine. E’ un’America alla quale, attraverso i suoi personaggi, non risparmia feroci critiche: “Hollywood è un incrocio tra una SPA e una fogna” e anche al mondo dello spettacolo “Il miglior genere di drammaturgia prodotto dagli Stati Uniti sono le pubblicità del Super Bowl: in 10 o 30 secondi raccontano una storia magnifica e lo fanno in modo che il finale sia sorprendente e inevitabile.” Se le sue pièce sono quasi sempre caratterizzate dall’assenza di testo e dall’uso di un tipo di dialogo “spezzato”, nel 1999 desiderava evidentemente evadere per una volta dal suo cliché e. con un tuffo nel tardo ottocento, creò Boston Marriage, una deliziosa commedia brillante dove tiene banco un dialogo serratissimo e una vicenda ricca di colpi di scena. Il pudico e diplomatico titolo descriveva a quel tempo la condizione di due donne lesbiche che si amavano e decidevano di vivere insieme senza dipendere economicamente dagli uomini.
E’ quanto succedeva a Anna e Claire, amanti non più giovanissime, sino a quando la seconda ha deciso di separarsi dalla compagna: dopo un lungo silenzio fa però irruzione a casa sua per chiederle un grosso favore. Anna la riceve in déshabillé con una vestaglia dai toni pastello, sfoggiando una magnifica collana di smeraldi: è un regalo del suo nuovo protettore, un ricco gentiluomo sposato che la mantiene in cambio delle sue grazie. Ora che si è assicurata la tranquillità economica vorrebbe riallacciare la relazione con l’ex partner. Grande è la sorpresa di Claire al cospetto di un’inaspettata realtà ma è più importante la ragione della sua visita: ha conosciuto una ragazza che sembra interessata alle sue avances ma non avendo un posto dove fissare il primo appuntamento e godersi i piaceri dell’incontro con la fanciulla, chiede ospitalità all’amica. Questa dapprima rifiuta categoricamente poi propone un compromesso: vittima della gelosia e punta nell’amor proprio, accetterà solo se potrà osservare non vista il convegno galante. Ottenuto il sofferto consenso di Claire, le due preparano il setting aiutate dalla cameriera d’origine scozzese Catherine, vessata dalla padrona di casa ma meno sciocca di quel che sembra. Il sospirato rendez-vous però fallisce miseramente quando sulla soglia, ricevuta da Anna, l’ospite le vede al collo la collana della madre, donata furtivamente dal padre all’amante. Lo smacco subito da Claire e i timori di Anna di perdere quel prezioso sostegno finanziario segneranno la definitiva rottura tra le due oppure Claire, spenti gli ardenti bollori, capirà chi l’ama davvero e la desidera ancora?
La pièce ha debuttato nel 1999 all’Hasty Pudding Theatre di Cambridge (Massachussetts) diretta dallo stesso autore
per poi approdare nel 2001 alla Donmar Warehouse di Londra con la regia Phyllida Lloyd e pochi mesi dopo off Broadway al Public Theatre in una produzione firmata da Karen Kohlhaas. Lo stesso anno andava in scena da noi con la regia di Franco Però e l’interpretazione di Valentina Sperlì, Veronica Pivetti e Caterina Marcella Formenti. A riproporla oggi è il regista Giorgio Sangati che prende alla lettera l’intenzione di Mamet di parodiare la prosa ampollosa dell’epoca vittoriana attraverso il paradosso, forse esagerando un po’ con i toni enfatici e melodrammatici richiesti alle attrici. Risultano gustose le citazioni bibliche che fanno anche riferimento alle origini ebraiche di Mamet, così come la stravagante leggerezza dei preparativi per la seduta spiritica che le due donne si apprestano a organizzare per porre riparo all’increscioso incidente della collana.
Il motore e punto di forza dell’operazione sta nel talento delle interpreti: nei sontuosi panni di Anna si cala Maria Paiato, perfetta sia nell’amplificare languori, struggimenti e battute alla Eleonora Duse (come il “saziati d’imene” rivolto all’amica), sia nei tratti più aggressivi e autoreferenziali. Alla sua esasperata femminilità, Mariangela Granelli oppone la determinazione e la postura quasi mascolina di Claire, sapendo però dar benissimo anche voce alle spinte del desiderio e dell’infatuazione. Tra loro si destreggia la Catherine di Ludovica D’Auria che disegna un personaggio dai molti aspetti comici, finge una disarmante ingenuità ma sfrutta invece le debolezze delle due complici, concedendosi anche una focosa parentesi erotica con un operaio di passaggio. La scena con le pareti rosa confetto del salotto di Anna (intenzionalmente finte e precarie a sottolineare l’illusorietà) sono di Alberto Nonnato, gli sfarzosi costumi di Gianluca Sbicca e le musiche di Giovanni Frison. Prodotto dal Centro Teatrale Bresciano in collaborazione con il Teatro Biondo di Palermo, abbiamo visto Boston Marriage in un’applaudita replica al bel teatro Sociale di Brescia: in definizione il seguito della tournée nella prossima stagione.
www.centroteatralebresciano.it
Non sono state molte le occasioni di veder rappresentate sui nostri palcoscenici le 56 opere (22 dirette da lui) del prolifico drammaturgo israeliano Hanoch Levin (1943-1999): ricordiamo almeno Il lavoro di vivere, messo in scena nel 2014 dalla regista Andrée Ruth Shammah con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto in cui due anziani coniugi, Yona e Leviva, colti nell’intimità della loro camera da letto, si scambiano insulti in una sorta di rituale masochistico, lamentano l’usura del loro rapporto e temono l’avvicinarsi della morte, prigionieri dei loro insuccessi e delle convenzioni sociali. All’improvviso si trovano a fronteggiare l’intrusione nella loro privacy dell’invadente amico Gunkel che paradossalmente finirà col rinsaldare il legame tra i due, destinati però a un finale tragico. Questa pièce si può ascrivere al filone delle commedie domestiche di Levin in cui si focalizza sugli interni familiari, le dinamiche del matrimonio e la vita di quartiere, miscelando sapientemente dramma, feroce e urticante ironia oltre a note di pura comicità. L’immergersi nella realtà, la distruzione di alcuni tabù e un pensiero libero spesso non condiviso non erano però graditi a molti in Israele, tanto da causargli censure e pesanti critiche.
Un altro filone è quello delle opere più filosofiche, spesso basate su antichi miti e testi biblici, incentrate su trame in apparenza realistiche per poi sfociare nel campo del paradosso e dell’irrazionale. E’ questo il caso di La puttana dell’Ohio, scritta nel 2008 e definita dai critici del suo paese “commedia cruda”. L’aggettivo si spiega visto che l’azione ruota intorno al desiderio di un amplesso da parte del maturo Hoibitter, un clochard che per festeggiare il suo compleanno vorrebbe concedersi uno svago a poco prezzo: per questo si rivolge alla prostituta Brontsatski che si vende in un tetro vicolo dove potersi appartare. La trattativa fra i due è lunga e complessa, dato che la donna non cede sul suo compenso che l’altro vorrebbe invece decurtare drasticamente. Alla fine si accordano ma Hoibitter ha problemi forse dovuti all’età e non riesce a portare a termine l’agognata impresa: i soldi sono però stati consegnati in anticipo e l’uomo chiede che della prestazione possa usufruire il figlio Hoimar, anche lui senza fissa dimora e lavoro. Dopo un’altra sofferta trattativa la donna accetta e il giovanotto ottiene la sua gratificazione. Brontsatski intuisce che l’anziano nasconde gelosamente i suoi cospicui risparmi, decide di andare a cercarlo fingendosi innamorata e, con la scusa di dover pagare il suo protettore che altrimenti l’ucciderebbe, lo depreda di tutti i suoi averi e sparisce. Giustificata è l’ira di Hoimar nei confronti del padre quando viene messo a conoscenza del fatto: volano insulti, botte e per punizione lo lascia letteralmente in mutande.
Dopo questo intreccio realistico, la pièce vira nel surreale e nell’inconscio: nella mente di Hoibitter e del figlio la prostituta viene trasfigurata nella mitica meretrice del titolo: una creatura che vive in una grande villa negli Stati Uniti, circondata da un immenso parco in fiore, cavalca un purosangue nel suo bosco privato e non chiede denaro ai tanti che si presentano con la speranza di procurarsi i suoi favori. Le aspettative di padre e figlio vengono però presto frustrate: lasciati davanti al cancello a osservare da lontano quella “terra promessa”, vengono allontanati in malo modo da un gigantesco custode nero. Brontsatski sta al gioco e tutti e tre i personaggi appaiono coinvolti in questa allucinazione: poi la dura realtà ha di nuovo il sopravvento e impone un prezzo davvero pesante da pagare.
Nonostante il linguaggio ovviamente ardito che chiama col loro nome parti del corpo di solito taciute e atti che abitualmente si consumano solo in privato, la sapiente scrittura di Levin fa sì che non si scada mai nella volgarità o nel pecoreccio, inframmezzata com’è da alcuni “a parte” pieni di lirismo e supportati da una costante vena umoristica. Felicemente impegnati in un gioco di squadra sono i tre affiatati interpreti che firmano anche la regia collettiva a sei mani, Stefania Ugomari di Blas, prosaica e avida Brontsatski, Antonio Gargiulo, rivendicativo e sconsolato Hoimar, e il protagonista Mario Sala che efficacemente presta a Hoibitter la sua consumata mimica facciale, la postura incerta e le pulsioni erotiche che il corpo non sa più appagare. La scena è opera di Gianluca Sesia e ci conduce nel lugubre vicolo (dove gli enormi bidoni della spazzatura richiamano quelli di Finale di partita di Beckett) e nel misero rifugio del clochard, musiche a cura di Ariel Bertoldo e luci di Saba Kasmanei. Applausi al teatro Out Off di Milano, anche produttore, dove La puttana dell’Ohio rimane in scena sino al 4 giugno.
E’ una rassegna di teatro popolare dedicata ai classici greci e latini giunta alla sua quarta edizione: Palchi Fioriti, sessione primaverile (a cui farà seguito Racconti d’Autunno) del Festival Le mille e una piazza, curata da Atelier Teatro, è in programma sino al 10 giugno con spettacoli gratuiti fruibili da un pubblico di ogni età. Protagonisti di questa edizione sono i luoghi di aggregazione spontanei come parchi e giardini urbani nelle periferie della città di Milano. Il Festival ha come obiettivo il recupero della dimensione pubblica in cui ebbe origine il teatro: i classici greci e latini recitati all’aperto, rivolgendosi a una società stratificata che rifletteva sui conflitti
sociali mettendoli in scena. “Perché la comunità continui a rispecchiarsi e a ripensare a se stessa – afferma Giulia Salis, fondatrice di Atelier Teatro – è necessario che le storie continuino a essere raccontate: per questo il nome della rassegna è un omaggio alla mitica Shahrazad la cui sopravvivenza dipende dalla capacità di raccontare ogni giorno storie vecchie e nuove.” I parchi cittadini sono lo scenario ideale per i capolavori di Apuleio e Aristofane allestiti da Atelier Teatro che come novità assoluta di questa sessione propone L’asino d’oro di Apuleio nella riscrittura di Carlo Bosio (sabato 3 giugno in Piazzale Selinunte) e Le rane di Aristofane (10/6 al parco delle Memorie Industriali), mentre Le nuvole è in cartellone domenica 28 maggio nello splendido parco dell’ex ospedale Paolo Pini. Sempre per domenica 10 è prevista una grande festa di chiusura al parco Trotter con uno spettacolo di ritmi e danze dell’Africa occidentale eseguiti dai gruppi Djembappel & Siradoncse, a cura dell’Associazione Siraba Italia.
a cura di Mario Cervio Gualersi