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Il Palazzo di Città di Cagliari, accanto alla cattedrale, ospita un’importante antologica dedicata all’artista Liliana Cano, con la quale i Musei Civici Cagliari proseguono il ciclo di mostre dedicate alle grandi artiste sarde, in scena fino al 19 maggio.
Il racconto di una vita, questo il titolo della nuova mostra in corso, nel quartiere di Castello, che espone le opere della pittrice allieva di Giacomo Manzù e di Felice Casorati, è una delle figure più interessanti del panorama artistico sardo, e non solo, della seconda metà del Novecento.
Nata a Gorizia da genitori sardi, trasferitasi a Sassari allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Liliana Cano scomparsa nel 2021 all’età di 96 anni, a un certo punto della sua vita ha sentito il bisogno di evadere dall’isola, di superarne quello che riteneva il provincialismo e dopo diversi soggiorni, si è trasferita per un periodo in Francia. Il Paese d’Oltralpe lo ha conosciuto e amato per la letteratura e per la mitologia.
Poi a 77 anni l’esigenza di tornare nella propria terra, di ritirarsi in campagna con un solo desiderio, dipingere, che l’ha guidata tutta la vita, come racconta in una video intervista collocata alla fine del percorso espositivo, e un afflato religioso forte, unito alle tradizioni popolari, forse perdendo quello spirito europeo acquisito nel tempo. Certo è che, come dice di sé, non si è mai fermata, sempre in movimento con la sua voglia di raccontare la storia dell’uomo e in tal senso anche di Gesù, perché cristiana, ma con il desiderio di leggerlo soprattutto come uomo, come modello di umanità.
La retrospettiva, curata dall’Archivio Cano, si inserisce a pieno titolo nel filone delle mostre che l’Assessorato alla Cultura sta dedicando in questi anni, sia nella Galleria Comunale sia nel Palazzo di Città, ad alcune donne e artiste di particolare rilievo come Lia Drei, Mirella Mibelli, Caterina Lai e ora, appunto Liliana Cano, pittrice di popolo, impegnata civilmente, innamorata della natura rigogliosa e selvaggia e attenta al sentimento del sacro, dal tratto fortemente materico dove il colore gioca un ruolo essenziale.
La sua lunga vita, trascorsa tra la Sardegna, la Francia, la Provenza e Barcellona, trova nella sua arte pittorica, spesso di grande formato e destinata agli spazi aperti (diverse le immagini dei murales disseminati nell’isola) la sua espressione più compiuta. È un’artista che appartiene a quella generazione in cui l’arte al femminile era spesso osteggiata e lei, con la sua pittura, è stata capace di andare oltre le barriere dei generi per raccontare la Sardegna, il mito e il paesaggio attraverso i volti di donne, bambini, pastori e cavalli.
L’antologica al Palazzo di Città restituisce un’immagine completa della Cano, con l’esposizione di più di cento opere, tra dipinti e disegni, provenienti da collezioni private, attraverso un percorso temporale e tematico esaustivo del suo lavoro, fortemente influenzato dal contesto storico e culturale in cui visse e operò.
Le opere, datate tra gli anni Quaranta e il 2021, sono suddivise in sei sezioni di cui le prime cinque ripercorrono cronologicamente il lavoro dell’artista, dal periodo degli esordi negli Anni Quaranta, a quello di forte interesse nei confronti delle avanguardie europee, tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, passando per il periodo francese (1978–1996) e concludendo col rientro in Sardegna (1996-2021); l’ultima sezione è invece dedicata ai disegni dedicati a Cagliari, nei quali Liliana Cano ha raffigurato alcuni tra gli scorci più belli della città, un omaggio al capoluogo descritto attraversi i suoi quartieri con un segno fremente, caldo ottenuto con una matita a pasta grassa, che suggerisce rapporti tonali e variazioni luministiche. Sono disegni di grande suggestione che evidenzia la grande abilità di disegnatrice.
La sua vicenda biografica si caratterizza sin dall’infanzia per un continuo peregrinare da una città all’altra (Roma, Barletta, Torino, Padova, Vicenza) in conseguenza delle esigenze professionali del padre. L’adolescenza vissuta all’insegna del nomadismo condizionerà per sempre la sua vita che sarà segnata dall’attitudine a una continua ripartenza.
Le prime forme che Liliana ritrae sono soggetti di caccia (beccacce, allodole, lepri, anatre) osservati con scrupolosa attenzione, mentre la ritroviamo negli Anni Quaranta a disegnare la natura, le campagne di San Benigno, la lussureggiante boscaglia, le acque fredde dei ruscelli. Presto inizierà a misurarsi anche con i ritratti dei vari componenti della sua famiglia, il padre, la madre, la sorella Luciana, che dipinge avvolti in un’aura di sospensione e con una particolare attenzione alla resa psicologica delle figure. Nel 1945, con l’arrivo in Sardegna e il matrimonio col giornalista Domenico Panzino, inizia una nuova fase per l’artista che viene a contatto con la pittura di Costantino Spada e di Libero Meledina. Come loro Liliana vuole essere pittrice di vita e di popolo, desidera raffigurare il quotidiano e sente l’esigenza di rappresentare l’intera vicenda umana nei suoi infiniti slanci, passioni e contraddizioni con realismo e impatto emotivo.
Dagli Anni Cinquanta sino al decennio successivo l’artista si rivolge con attenzione ai movimenti artistici europei, dall’Impressionismo alle Avanguardie del Novecento, sino agli impulsi più recenti dell’arte contemporanea. In questo contesto di particolare fermento, l’artista cerca di ritagliarsi uno stile autonomo e di connotare la sua pittura in modo determinato. Intanto continua l’interesse della pittrice per il mondo degli affetti, per il gusto del quotidiano, le composizioni spontanee e immediate di fiori, paesaggi e nature morte e poco dopo per il mondo corale, le persone, i bambini, rappresentati con molta tenerezza. La pittura di questa fase si caratterizza per l’uso di zone cromatiche diafane a macchia che investono i soggetti di un’intensa carica emotiva.
Negli Anni Sessanta alla visione frontale dei soggetti contrappone un’immagine più dinamica e a una maggiore compattezza del colore come nel ritratto Igino del 1964 dedicato al figlio, in cui sembra ruotare attorno all’adolescente in un approccio mobile e in cui le direttrici vanno verso l’esterno del riquadro. In questo momento iniziano a delinearsi alcuni elementi come la linea di contorno marcata, il segno spesso e robusto, un’architettura solida che contiene i personaggi e sembra iscriversi nelle figure geometriche del rettangolo e del quadrato. Lei stessa racconta il rapporto tra segno, che diventa spesso una cornice nera, e colore e l’abbinamento dei colori, a volte monotòno, talora con un tentativo di accordo armonico e a volte unendo colori in modo “furioso”.
Accanto a rappresentazioni plastiche in linea col suo stile consueto, registriamo anche alcune composizioni quasi informali di dissolvimento formale dove la pittrice pur rimanendo ancorata al dato reale, è suggestionata dai movimenti delle neoavanguardie artistiche sarde. Divisa tra gli impegni di madre e docente le vengono commissionate diverse opere pubbliche come L’ultima cena per la Parrocchia di San Francesco a Sassari del 1965.
Il tema sacro che riaffiorerà a più riprese nell’opera della Cano si caratterizza per la realizzazione di imponenti commesse pubbliche e di tavole con storie del Vangelo e la Passione di Cristo. Bisogna considerare però che tutta l’opera della Cano è attraversata da una profonda tensione religiosa che si intensificherà soprattutto dopo l’esperienza francese.
A partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta l’artista inizia a interessarsi al mondo agro-pastorale sardo. I temi sono il gioco della morra, la tosatura, le feste paesane sul filone di quel realismo sociale che in Sardegna viene portato avanti da numerosi artisti sardi come Foiso Fois. Tale attenzione la porta ad affiancare, alla matrice espressionista, i principali tratti dell’estetica neorealista. Questa corrente, che si sviluppò nel secondo dopoguerra come movimento letterario, cinematografico e pittorico, aveva alla base l’impegno ideologico di un linguaggio aderente alla tematica del realismo socialista e voleva essere fruibile da tutte le classi sociali. La Cano non si limita a rappresentare questo mondo in presa diretta ma vuole viverlo frequentando gli ovili, il Nuorese, il centro Sardegna. Al tema sardo si dedica grazie anche alle importanti commesse che Peppeddu Palimodde e sua moglie Pasqua le affidano per il ristorante Su Gologone e per la chiesa di San Lussorio a Oliena, dove come la stessa artista dichiarerà “lì ho dipinto la Sardegna”.
Presto la Cano parteciperà anche a quella forma di protesta e rivendicazione che si manifesterà attraverso il fenomeno del muralismo. Infatti tra i numerosi interventi pubblici si annoverano lo straordinario murale di Ozieri del 1971 e la grande tela Buggerru del 1972. Si tratta di opere impegnative e dal forte impatto emotivo. Nel primo, commissionato dai reduci di guerra, si esalta il dolore e la gioia del vivere umano. Buggerru invece nasceva dalle suggestioni di Paese d’ombre, il libro dello scrittore Giuseppe Dessì. Liliana Cano rappresenta la portata umana e l’enfasi emotiva dello scontro che in seguito allo sciopero del 3 settembre 1904 porterà alla morte di tre lavoratori e al ferimento di altri undici.
Questa pittura storica rappresenta un solco tematico frequentato dalla pittrice sino agli Anni Ottanta, la quale più che agli aspetti socio-politici sembra interessata alla dimensione antropologica dell’esistenza umana, scandita dai ritmi della natura, della semina, del raccolto, dal ritmo delle feste, delle occasioni religiose e di partecipazione popolare.
Stanca dell’ambiente artistico locale, ormai privo di stimoli, come accennato, per l’irrequieta pittrice arriva il momento di trasferirsi all’estero. Dopo le prime occasionali trasferte Liliana Cano si stabilizza in Francia nel 1978 dove rimarrà sino al 1996. Ormai conclusa la trentennale carriera scolastica l’artista sente l’esigenza di cambiare le proprie condizioni di vita e di lavoro e di soddisfare l’impaziente bisogno di rinnovamento fuori dalla Sardegna. Si apre così il momento più stimolante sotto il profilo quantitativo – arriverà a dipingere anche cinque, sei quadri al giorno – soprattutto qualitativo.
La pittrice si dedica a grandi cicli pittorici in cui riflette sulla condizione umana, dove figure mitiche vengono inserite in una dimensione avulsa da ogni riferimento spazio-temporale.
Alla tensione espressionista della fase sarda ora contrappone toni narrativi più intimi, delicati, con una tavolozza rivitalizzata da tonalità primarie e calde sottolineate dal disegno con una dimensione della luce a tratti incendiaria.
Durante il periodo francese scompaiono i riferimenti alla società contemporanea e la pittura si popola di silenti figure femminili, solitarie coppie di innamorati e un universo arcaico, lirico e visionario fa da sfondo a narrazioni spesso ispirate a testi letterari. In questa fase nascono i cicli pittorici che traggono linfa dai versi poetici di Neruda, La espada encendida del 1970, sulla rifondazione del mondo a opera di due giovani, con Rhodo scampato alle devastazioni che hanno distrutto l’umanità e Rosìa, la ragazza fuggita dalla fantastica Città dei Cesari.
Un altro ciclo si riferisce invece alla lettura di alcuni testi di Albert Einstein come il Testamento Spirituale in cui la pittrice immagina l’Uomo all’indomani di una guerra nucleare che ha incenerito il pianeta e che ha portato l’estinzione quasi totale delle razze viventi. Nel paesaggio desolato privo di vegetazione si aggirano i sopravvissuti all’ecatombe, malati, scheletrici, trasformati in alieni.
Nelle opere successive prevale il sentimento di sacralità della vita, il bisogno di un contatto diretto con la natura rappresentata ora dalle ampie distese del Midi, ora dal paesaggio silenzioso della Camargue con il gruppo di giostrai, circensi e musicisti che si spostano con le loro roulottes.
Seguiranno numerose opere dalla componente simbolica e narrativa, sintesi perfetta tra linea e colore, segno grafico e gesto pittorico, con un recupero della realtà per frammenti.
Il rientro in Sardegna si caratterizza per alcuni grandi nuclei tematici: la rappresentazione di una natura rigogliosa e vivace, il recupero del tema sacro che la pittrice raffigura in modo nuovo e il tema dell’acqua. La tavolozza viene semplificata e si riduce talvolta a composizioni bicrome e monocrome, la linea è curvilinea, le composizioni armoniche come se riproducessero uno spartito musicale.
La pittrice affronta il tema dell’acqua con una stesura planare del colore blu, creando una spazialità ideale quasi mitica, dove il segno grafico curvilineo e il colore creano un effetto di armonie quasi sonore.
La suggestione musicale accompagna anche altre tele di questa fase legate al tema della
ciclicità del tempo con il paesaggio protagonista. La natura è ricca e fiorita e ogni elemento, compreso quello umano, vi si inserisce in modo equilibrato evidenziando la serenità della vita campestre.
Ancora negli ultimi decenni di attività riemerge una profonda tensione religiosa che porta la Cano a realizzare numerosi cicli pittorici di carattere sacro e in particolare sulla Passione di Cristo. Se un tempo il tema era affrontato in modo più realistico in virtù della sua serietà, ora la pittrice tenta nuove sperimentazioni con le suggestioni che giungono da un linguaggio più contemporaneo e con i modi della cultura popolare.
Fede, vita, gioia sono stati questi gli elementi che hanno accompagnato il percorso creativo di questa pittrice passionale, volitiva e coraggiosa, capace di rappresentare il mondo nelle sue infinite declinazioni in un legame indissolubile tra arte e vita.
Chi è Liliana Cano
È nata a Gorizia nel 1924 da genitori sardi, il padre era ingegnere e la madre insegnante. Visse i primi anni di vita seguendo la famiglia in vari spostamenti nella penisola. Nipote dello scultore Attilio Nigra, ereditò dalla madre la passione per l’arte, che la seguiva con sguardo severo, e studiò all’Accademia Albertina di Torino; successivamente alla Facoltà di Architettura che lascerà dopo aver sostenuto il primo esame. Giunta a Sassari nel 1945 alla fine della guerra, iniziò a insegnare disegno ed entrò in contatto con alcuni dei più importanti artisti sardi, partecipando ad una mostra collettiva nel 1950. Quasi un decennio dopo espose i suoi lavori in una mostra personale a Sassari e nei primi anni Sessanta iniziò a esporre anche nella penisola, a Roma e a Milano, e dagli anni Settanta in numerose altre città come Treviso, Venezia, Firenze, Siena, dove ottenne importanti riconoscimenti. Nel 1978 andò a vivere all’estero, prima in Spagna, a Barcellona, e poi, per diciotto anni, in Francia, stabilendosi in diverse città della Provenza, pur mantenendo sempre i contatti con l’isola dove ritornava periodicamente. Per la sua vasta produzione si è ispirata a soggetti narrativi della letteratura e della religione, ma anche alle tradizioni popolari della Sardegna e della Provenza. Prediligeva dipingere su grandi superfici, che fossero pannelli o tele, o anche pareti intonacate.
Rientrata in Sardegna nel 1996 si stabilì in una residenza nella campagna di Sassari dove, spinta dalla fede religiosa e dall’amicizia col padre osservante Francesco Sechi, riprese a realizzare diversi cicli pittorici di carattere sacro. Nel 2006, per il lavoro profuso nel campo delle arti figurative, le venne conferito dalla città di Sassari il premio “Candeliere d’oro Speciale”. Nel 2011 venne aggregata alla Famiglia Francescana OFM. Nel 2023 fu inaugurato a Ittiri il Museo a lei dedicato e istituito dalla Fondazione Liliana Cano, nata dall’incontro tra padre Francesco Sechi e la pittrice.
L’artista si è spenta nel 2021 all’età di 96 anni.
a cura di Ilaria Guidantoni