Si legge per imparare e per evadere, nonché certamente per provare emozioni. Quest’ultime vengono da tante fonti indubbiamente. L’apprendimento, soprattutto su sé stessi, trae a mio parere un grande nutrimento dai classici, ma ancor più è assicurata l’evasione. Sempre più infatti la nostra cultura è modellata sui parametri televisivi, così anche il cinema, dove si vola poco e comunque si raccontano storie della porta accanto con tutto il fardello, talvolta perfino malcelate allusioni, se non nomi e cognomi, talora banalmente ‘corrotti’ ma fortemente riconoscibili della realtà che ci circonda. Il mondo della fiaba, anche con il suo lato nero è sempre più lontano e la proliferazione – una produzione fuori misura, risaputo che si pubblica più di quanto si legge – crea uno stato ansiogeno del rincorrere e consumare. Ora i classici sono definiti: quello che è scritto in greco attico e poi comunque nella lingua ellenistica e nel latino dei Romani è compiuto, una volta per tutta. Teoricamente quindi si può leggere tutto, ‘dominarlo’. Non solo ma leggendo anche testi molto profondi ci si ritrova, e si conosce qualcosa di sé con un lavoro maieutico quasi psicologico. La forza dei classici è proprio questa, che ci appartengono come Dante è nel dna di un italiano anche senza che lo abbia studiato, mescolato perfino alle battute. E’ questo lo spirito che ha anima Nicola Gardini, scrittore e traduttore italiano sostenitore dello studio della lingua classica che ha scritto, tra l’altro, Viva il latino, storie e una bellezza di una lingua inutile e Viva il greco, alla ricerca della lingua madre. Forse non è un caso che in questo periodo il Corriere della Sera abbia scelto di pubblicare una collana dedicata alla felicità, che riunisce opere filosofiche a cominciare dai classici Epicuro e Seneca. Proprio a Seneca è dedicato il primo volume, Sulla felicità. La tranquillità dell’animo, due testi molto sintetici – presentati con il testo latino a fronte – è di grande pregnanza e, al tempo stesso, relativamente semplice. Una lettura che non deve spaventare gli addetti ai lavori, molto più comprensibile (grazie anche le note ben fatte e ai saggi critici, rispettivamente di Alessandro Schiesaro e di Gianfranco Lotito, che commentano i due testi, di tanti libri contemporanei apparentemente più abbordabili. Si tratta di testi che pongono il quesito fondamentale del senso della vita, dalla parte dell’uomo, del proprio senso, ovvero della ricerca della felicità. Tutti indubbiamente vogliono vivere felici anche se difficile è capire cosa sia la felicità autentica, tanto che spesso più la si cerca, più, se ci si trova sulla via sbagliata, ce se ne allontana. Una domanda fondamentale da Socrate in poi che rappresenta il centro della società, se non altro di quella cosiddetta occidentale. E’ impressionante la modernità psicologica ante litteram e quanto nella manualistica, precettistica e nella cultura del buon senso sia penetrata la dottrina di questo filosofo di Cordova, cives romano, nato nel 4 a.C. e morto nel 65 d.C. Di famiglia nobile, il padre era un grande retore, fu avviato alla carriera politica, ottenendo un successo tale da destare l’invidia dell’Imperatore Caligola. Fu poi precettore di Nerone accompagnandone l’ascesa al trono fin quando l’Imperatore non mutò di indirizzo. Seneca allora se ne allontanò e condannato perché sospettato della congiura dei Pisoni, preferì darsi la morte con dignità. Una delle vittime più note di Nerone, autore prolifico, stoico, seppe trasferire la filosofia greca in una modalità molto pragmatica, adatta al mondo latino, una filosofia spicciola e pragmatica diremmo oggi. I due scritti sono redatti sotto forma di lettera – il primo al fratello Gallione – e presuppongono anche una sorta di dialogo immaginato che ci rimanda certamente ai dialoghi platonici, divenuti poi un vero e proprio genere letterario. Al di là del confronto più o meno esplicito con Democrito, Socrate, Platone, Aristotele e l’epicureo Lucrezio, al centro la felicità e il suo rapporto con il piacere e la virtù e la difficoltà della pace interiore. Emerge dal testo l’importanza di avere una guida, di affidarsi a un maestro, non semplicemente come fonte di informazione ma di formazione. Il testo è molto denso e prende in considerazione l’importanza dell’indipendenza dai piacere e dalle passioni per una felicità duratura; la ricerca dell’atarassia, dell’assenza di turbamento del saggio; l’importanza di accettare la vita anche con la sua necessità e razionalità che nella visione stoica riduce molto la libertà dell’uomo. Accanto a considerazioni più filosofiche, considerazioni sull’etica sociale e in particolare sulla ricchezza che di per sé non è un male e sull’opportunità di non ostentare e non destare invidia, dando vita ad un vero pe proprio manuale del buon vivere. Al centro delle riflessioni il legame della virtù con la libertà dalla passione e, al contrario, l’infelicità che deriva dalla soddisfazione dei piaceri che generano una dipendenza. L’approccio polemico mette in evidenza anche la condizione di Seneca che fu attaccato per aver accumulato una grande fortuna. Più complesso il De tranquillitate animi dedicato a Sereno e al suo turbamento, all’oscillazione e al degrado del suo animo con particolare attenzione al distacco dal mondo; alla libertà ‘negativa’, come non dipendenza, una sorta di ‘euforia del negativo’, fino a uno slancio verso il mondo che sembra più pensato che reale rispetto alla socialità aristotelica. Certamente interessante a livello di spunto di riflessione l’oscillazione tra euforia e depressione e l’idea che la virtù sia una conquista faticosa. L’uomo che emerge alla fine è una visione del mondo che genera l’annientamento del singolo e della sua libertà. Perfino la collera verso l’ingiustizia accettata da Aristotele, viene – attraverso l’esempio omerico di Achille addolorato per la perdita dell’amico Patroclo, iroso verso Ettore, contestata perché è comunque una passione. Infine vale la pena spendere qualche parola sullo stile asciutto di Seneca che non rinuncia al bell’eloquio, non assumendo mai i toni del saggio filosofico, con un ampio ricorso alla similitudine in particolare con il mare – soffriva di mal di mare – e con il mondo militare (al quale apparteneva, come ordine equestre).
a cura di Ilaria Guidantoni