Si conclude oggi, 19 maggio, il Festival Presente Indicativo che per due settimane ha animato le tre sale del Piccolo Teatro di Milano: una panoramica su quanto di più interessante circola sulla scena mondiale.
E’ davvero un’occasione imperdibile per aggiornarci sulle novità teatrali, nuovi autori e registi mai apparsi sulle nostre scene, oltre a innovativi lavori sperimentali: dopo due anni è tornato il Festival organizzato dal Piccolo Teatro con una serie di spettacoli stranieri (sovratitolati in italiano e inglese), ognuno con caratteristiche diverse ma tutti di alto profilo. Ci soffermeremo su quelli che più ci hanno colpito, limitandoci per altri solo alla menzione.
Ad aprire la rassegna è toccato alla drammaturga e regista Caroline Guiela Nguyen, che ha scritto e diretto Saigon, un affresco su una piccola comunità franco-vietnamita che dal Vietnam (da cui lei stessa è originaria) lascia il Paese per emigrare o tornare in Francia. La vicenda attraversa ben 40 anni (dal 1956, anno in cui gli ultimi francesi lasciano la città che poi prenderà il nome di Ho Chi Minh City, al 2016) e viene collocata in un ristorante gestito dalla dinamica signora Marie Antoinette che aspetta invano il ritorno del figlio dalla guerra ormai conclusa. La vediamo cucinare, accudire i clienti e anche cantare prima nel suo locale di Saigon e poi in quello di Parigi. Le è accanto l’altra figlia Lam, presenza quasi sempre silente ma che, parlando bene il francese, negli anni dell’esilio si rivela indispensabile. “Insieme al collettivo di attori e attrici vietnamiti e francesi professionisti e non professionisti”, sottolinea Nguyen, “volevamo interrogarci sui legami tra Francia e Vietnam, tuttora presenti grazie ai Viet-Kieu, i vietnamiti emigrati all’estero. Ho cominciato a ricordare tutto di quell’epoca, soprattutto mia madre, gli zii e le zie, i miei nonni: la domanda che risuonava in ogni casa era se tornare o meno in Vietnam. A Saigon abbiamo fatto 300 repliche e in 3 anni lo spettacolo è un po’ cambiato ma lo ritengo sempre attuale. Le nuove generazioni si sono integrate però s’interrogano sul passato e vogliono sapere: questo accade a Parigi ma anche a Berlino, Londra o Lisbona. Quelle della nostra pièce sono persone che vivono in Francia da 50 anni e la loro storia fa parte della storia di quel Paese”.
Tante sono le vicende personali che si snocciolano in questo lungo lasso di tempo (suddiviso in quattro capitoli: partenze, esiliati, l’assente e ritorno), ad esempio quella di Mai e Hao che si separano dopo la partenza di quest’ultimo per Parigi dove intesserà una relazione con Cécile (destinata poi a perdere la vista), tornando poi in tarda età a Ho Chi Minh per ritrovare la fidanzata, scoprendo che i giovani parlano una lingua a lui incomprensibile e a loro volta non lo capiscono, oltre ad apprendere che per il troppo dolore Mai si è forse suicidata. C’è il francese Edouard che sposa Lihn la quale avrà seri problemi nell’integrarsi a Parigi, compreso l’ostracismo dei suoceri, cosa che influirà non poco sul loro ménage. Il loro figlio Antoine nel 2016 cerca di convincere la mamma a tornare nel suo Paese prima di morire; c’è, tra gli altri, Louise Gauthier, moglie di un diplomatico, a cui toccherà annunciare a Marie Antoinette la morte del figlio Jean sotto le bombe. Proprio con la grande festa nel suo ristorante che la donna organizza ogni anno in suo ricordo si conclude la pièce, ricca anche di intermezzi canori in cui a turno gli interpreti si esibiscono. La regia Nguyen orchestra un pregevole spettacolo corale che non fa pesare i continui salti nel tempo, riuscendo a dar compiutezza a ogni personaggio, benissimo supportata da tutti gli 11 attori e attrici.
Negli stessi giorni il festival ha dedicato un focus di tre lavori al giovane coreografo Marco D’Agostin, artista associato al Piccolo Teatro e molto apprezzato anche all’estero: in First Love, che lo vede impegnato in un assolo, celebra lo sci di fondo, sua grande passione da ragazzo, e l’impresa della campionessa Stefania Belmondo, medaglia d’oro in quella disciplina alle Olimpiadi di Salt Lake City nel 2002. In Avalance (dove Teresa Silva danza con lui) due creature esplorano un paesaggio lunare che è il deserto di un nuovo pianeta; infine Gli anni (vincitore lo scorso anno del premio Ubu per il miglior spettacolo di danza), con Marta Ciappina, prende spunto dall’omonimo libro di Annie Arnoux in cui la scrittrice immagina che la vita della protagonista sia su due linee perpendicolari, l’orizzontale con gli accadimenti ordinari e la verticale con gli eventi eclatanti.
Il portoghese Tiago Rodrigues, dallo scorso anno direttore del Festival d’Avignon e già insignito del Premio Europa, a quattro mani con il suo attore Tonan Quito (in scena) ha creato e diretto il progetto Entrelinhas (Tra le righe) in cui finzione e realtà si mescolano senza poter sapere dove finisca una e inizi l’altra. Lo spunto viene da un volume dell’Edipo re di Sofocle che Tonan Quito ha trovato per caso su una bancarella dell’usato. Il libro ha però una particolarità: proviene dalla biblioteca del carcere di Lisbona e appunto tra le righe delle pagine sono vergate delle chiose scritte e indirizzate idealmente alla madre da un carcerato che, in parallelo con la vicenda del parricida, commenta il suo tormentato rapporto con i genitori. La pena dell’ergastolo che sta scontando da oltre 40 anni gli è stata comminata proprio per aver ucciso, come Edipo, suo padre. “Ho bisogno del contatto con gli attori”, afferma Rodrigues, “perché mi dà una carica creativa. Ci siamo focalizzati su come si allestisce uno spettacolo che è finzione ma anche sul suo fallimento. Cerco di uscire dall’ambito limitato del teatro: ne voglio parlare come strategia poetica e affermare la sua importanza nel mondo, nella società e nella vita”. Ospitata ai Bagni Misteriosi del teatro Franco Parenti, la performance vede sin dall’inizio Quito interagire con il pubblico (a uno spettatore offre anche il caffè preparato da lui all’istante) e lo sollecita spesso a intervenire. Il suo è ovviamente un racconto in prima persona: ricorda quando si è recato al carcere per cercare di sapere chi potesse essere il detenuto che aveva vergato quelle righe e come abbia insistito con il regista per trarre una pièce da quello strano accadimento. Qui la realtà si scolora nella fiction: Tiago ritarda più del solito la consegna del testo, in seguito addirittura si nega all’amico e quando finalmente gli apre la porta di casa, Tonan lo trova al buio, bendato perché rischia di perdere la vista, al pari di Tiresia e Edipo. L’attore allora gli legge le riflessioni del carcerato ma invano, perché il regista sparirà con la figlia e il testo non vedrà mai la luce. Il lungo monologo mette in evidenza la capacità istrionica di Quito che alterna momenti drammatici a considerazioni esilaranti che spezzano la tensione che tiene avvinto il pubblico.
Ha avuto il grande privilegio di fare da assistente al Maestro Peter Brook, è artista associato al National Theatre di Londra e all’Odéon di Parigi: l’inglese Alexander Zeldin si è da tempo dedicato alla messa in scena di lavori dal forte impatto socio-politico come nella Trilogia dell’Intimità che comprende Love, ambientato in un centro d’accoglienza dove vengono ospitate famiglie e singoli che hanno perso la casa, Faith, Hope and Charity su un centro d’assistenza per bisognosi (visti entrambi al RomaEuropaFestival) e Beyond Caring, incentrato un gruppo di lavoratori interinali che svolgono mansioni di pulizia nel turno di notte.
Al Festival Zeldin ha presentato il recente The Confessions che ha diretto e scritto prendendo spunto da una lunga intervista alla madre Alice, nata nel 1943, che da giovane dall’Australia era emigrata in Gran Bretagna: a una storia personale che arriva sino ai giorni nostri lui intende dare un respiro più ampio, allagandola a tutte quelle donne che attraverso una faticosa presa di coscienza arrivano alla piena realizzazione di sé. “Collaboro da tempo con lo Yard Theatre di Londra”, racconta Zeldin, “che si trova di fronte a una fabbrica per la lavorazione delle verdure e questo mi fa sempre tener presente che il teatro deve collegarsi alla vita vera. Da tempo carezzavo l’idea di rappresentare sulla scena una vita intera: ho intervistato mia madre per otto ore, ascoltando cose che sono piuttosto trasgressive, rispetto a quello che un genitore dice a un figlio. Erano racconti che consentivano di narrare l’eccezionalità di una vita ordinaria: me li ha rivelati perché sentiva che ne avevo bisogno, come uomo e come autore. Il titolo dello spettacolo deriva da Le confessioni di Jean-Jacques Rousseau, colui che ha scritto che uomini e donne nascono liberi e vengono messi in catene dalla società: una visione del mondo tristemente attuale, ma sono stato influenzato anche dalla scrittrice Rachel Cusk e da Simone de Beavuoir“.
La vicenda prende l’avvio negli Anni Sessanta quando Alice che vive in una cittadina australiana non passa gli esami per accedere all’università e decide d’insegnare arte ai bambini. Si fidanza con Graham, un militare che poi sposerà, scoprendo presto di non essere felice con lui, maschilista e violento. Il sapere che partirà per la guerra del Vietnam è la spinta per lasciarlo e per decidere di dare una svolta alla sua vita andando a vivere in Inghilterra. Qui entra presto nell’ambiente artistico e familiarizza con un gruppo di amici tra cui la connazionale Lucy, Marina, Eve e Joss al quale si lega, mal tollerando (erano gli anni della libertà sessuale) le sue molte avventure. A Londra si iscrive all’università e incontra il pittore Terry che, nonostante sia un amico, la stupra in un bagno. Assai positiva sarà invece la conoscenza con Jacob, un assistente sociale più anziano di lei che sposerà e dal quale avrà due bambini. Raggiunta la serenità e l’appagamento professionale insegnando storia dell’arte, Alice e i figli ormai adolescenti dovranno affrontare il lutto per perdita di Jacob. Zeldin ha realizzato un bellissimo spettacolo, senza risparmiare linguaggio crudo e nudi integrali evitando sempre di cadere nella banalità o nella facile provocazione. Di grande impatto emotivo la scena in cui Alice (interpretata dall’attrice anziana e non dal suo doppio giovane) per umiliare Terry dopo lo stupro lo fa spogliare nudo come lei, immergendosi insieme in una vasca da bagno senza neppure toccarsi. Un’altra che ci ha colpito è quella dell’aspro confronto con la madre che le fa visita e la vorrebbe spingere a riallacciare i rapporti col marito e a condurre una vita secondo i suoi modelli da benpensante: Alice reagisce con veemenza difendendo le sue posizioni e la caccia via. Tutto il cast multietnico dà una prova eccellente, muovendo anche a vista la scenografia basica di materiali poveri, e merita la menzione: Amelda Brown, Kate Duchene, Jerry Killick, Lilit Lesser, Brian Lipson, Hannah Morrish, Gabrielle Scawthorn, Jacob Warner e Yasser Zadeh.
A rappresentare l’Italia è stato scelto Davide Carnevali, drammaturgo, regista e teorico teatrale, che, sostenendo la tesi secondo cui il territorio prende forma da chi guarda, ha proposto Limited Edition, secondo tassello del progetto Unlock The City, che intende abbinare la fruizione teatrale a quella museale in un’esperienza site specific: è infatti ambientato nella periferia milanese Sud-Est tra Corvetto, Nosedo e Porto di Mare, così chiamato perché un tempo sulla carta doveva sorgere una darsena per la navigazione lungo il Po fino a Cremona, sfociando poi nell’Adriatico, mai portata a compimento. Un’esplorazione del limite tra campagna e città, tra natura e cultura, tra realtà e finzione che permette ai partecipanti della camminata di interrogarsi sull’essenza dei luoghi, sulla vita dei quartieri e sulla nostra idea di città futura.
Uno degli spettacoli più amati nella scorsa edizione del Festival è stato Los Anos, scritto e diretto dall’argentino Mariano Pensotti che quest’anno è tornato con La Obra, da lui scritto e diretto. Potremmo definire questa pièce un esempio di teatro nel teatro: racconta infatti la storia di Simon Frank, un sedicente ebreo polacco scampato ai campi di concentramento che, approdato in Argentina nel 1962, va a vivere nella piccola città di Coronel Sivori e da solo inizia a ricreare la scenografia del villaggio della Polonia in cui viveva. La costruzione cresce e col passar del tempo questa novità incuriosisce i locali che vengono chiamati prima ad essere semplici spettatori ma poi anche interpreti di un simil presepe vivente dalle dimensioni ormai enormi. La cosa singolare è che i cittadini man mano introiettano le caratteristiche dei loro personaggi diventando quasi i loro alter ego. Dopo qualche anno lo spettacolo esce dai confini provinciali e, grazie alla stampa e alla tv, assurge alla fama nazionale. Grande è lo sgomento quando Frank viene arrestato: non è un deportato bensì un ufficiale nazista che ha assunto l’identità di un internato poi deceduto e che, al pari di molti colleghi, è riparato nel Sud America per sfuggire alla giustizia. Il merito di Pensotti è quello di presentarci i fatti con dovizia di documenti e spezzoni televisivi in apparenza originali mentre il tutto è frutto della fantasia pur sembrando assai realistico e vero allo spettatore. “Da qualche tempo”, puntualizza il regista, “sono affascinato dalle esperienze di teatro popolare che coinvolgono un’intera città nella rappresentazione di qualcosa. In America Latina e anche in Europa esistono diversi casi di centri abitati che, di solito una vola all’anno, mettono in scena eventi di massa, talvolta qualcosa di religioso (per esempio la Passione di Cristo) o un evento storico (una battaglia memorabile) in cui gli abitanti del luogo partecipano come attori. Mi sono sempre chiesto quanto di quelle finzioni si riflettesse nella vita quotidiana delle persone coinvolte e in che modo interpretare un personaggio modificasse le loro esistenze”. Realizzato con il team di sodali di Pensotti (la scenografa e costumista Mariana Tirantte, che ha ideato una splendida scena rotante dai vivacissimi colori, e il musicista Diego Vainer) lo spettacolo, oltre all’originalissima scrittura, ha il suo forte negli interpreti, tutti davvero talentosi: Rami Fadel Khalaf, Alejandra Flechner, Diego Velasquez, Susana Pampin, Horacio Acosta e Pablo Seijo.
E’ una delle più grandi attrici francesi di teatro e cinema, stella della Comédie Francaise: Dominque Blanc, dopo averlo recitato in tutto il mondo, per l’ultima rappresentazione di Le Douleur di Marguerite Duras ha scelto Milano e il Piccolo, teatro nel quale aveva lavorato negli anni settanta il regista della pièce, il grande e compianto Patrice Chéreau. Fu lui, dopo i cinque spettacoli insieme, a strapparla a un periodo di forte depressione in cui pensava di non poter più salire su un palcoscenico, proponendole il testo della Duras, dapprima letto a tavolino da loro due e dallo scenografo e collaboratore di Chéreau Thierry Thieu Niang, ora responsabile della regia ripresa da quella del Maestro. Il dolore è un romanzo autobiografico che deriva da un diario nascosto e dimenticato per anni, pubblicato per la prima volta n Francia nel 1985. Duras, militante nelle file della Resistenza, era sposata con Robert Antelme, figura di grande rilievo nella stessa organizzazione, che fu arrestato nel giugno del 1944 e deportato nel campo di sterminio di Dachau. Il testo racconta l’attesa straziante della scrittrice che si conclude solo nell’aprile del 1945 quando, orami perse le speranze dopo intere giornate trascorse a seguire il rientro in patria di deportati e prigionieri ridotti allo stremo, Francois Mitterand le comunica che Robert è vivo e lo stanno andando a prendere per riportarlo a Parigi. L’uomo che arriva sul pianerottolo di casa è praticamente irriconoscibile: pesa circa 35 chili, è distrutto dalla dissenteria e non parla. Ci vorranno giorni e cure di ogni tipo per prolungargli la vita: la pièce si conclude con un barlume di speranza quando l’uomo, alimentato forzatamente solo a pappe per lattanti, dice di aver fame. Blanc è straordinaria nel dar voce alla disperazione, alternando però momenti di vero furore ad altri di rassegnazione, seduta a una piccola scrivania o misurando a passi veloci le tavole del palcoscenico dove si trova solo un’infilata di sedie. Un’interpretazione indimenticabile (da noi a misurarsi con il testo sono state Marisa Fabbri e Mariangela Melato) nel ricordo di Chereau e nel giorno, il 14 maggio, del 77° anniversario della fondazione dl Piccolo.
A conclusione della kermesse troviamo Rohtko, uno spettacolo multimediale diretto dal polacco Lukasz Twarkowski che prende spunto dalla vendita per 8 milioni di dollari di un dipinto del pittore Mark Rothko risultato poi falso, per parlare di falsi nell’arte e non solo, come di evince dal titolo in cui il cognome dell’artista è volutamente diverso. Marta Gòrnicka, anche lei polacca, propone invece Mothers, A Song For War Times nel quale sono raccolte le testimonianze di 21 donne ucraine, bielorusse e polacche tra i 10 e i 71 anni fuggite da guerre e persecuzioni. Infine la compagnia Fanny & Alexander con Nina ricorda la vita, le canzoni e l’impegno politico di Nina Simone, la cantante, pianista e scrittrice americana morta in Francia nel 2003. Ideazione, regia e luci sono a cura di Luigi De Angelis mentre la drammaturgia e i costumi portano la firma di Chiara Lagani. Di questi tre spettacoli contiano di parlare più diffusamente in un’altra occasione.
a cura di Mario Cervio Gualersi