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Centocinquant’anni ci separano dalla morte di Alessandro Manzoni, che scomparve il 22 maggio del 1873 a Milano, dove era nato il 7 marzo di ottantotto anni prima, nel 1785. Il Piccolo Teatro ha partecipato alle celebrazioni della ricorrenza il 20 novembre scorso, con una serata antologica di letture, realizzata in collaborazione con Casa Manzoni e con la consulenza scientifica del suo presidente, professor Angelo Stella. Uno spettacolo a cura di Davide Gasparro con Laura Marinoni e Roberto Latini,
Poeta, scrittore, drammaturgo, saggista, senatore del Regno d’Italia, il Manzoni ha esplorato i diversi ambiti della creazione letteraria, sempre mantenendo, anche per tradizione familiare, un forte legame con la società civile e con il contesto politico come si avverte chiaramente dalla scelta dei brani dai quali traspare l’anelito alla libertà.
La lettura è una sorta di dialogo serrato a due voci, come uno spartito dove la voce della lirica interpretata dalla Marinoni dialoga con la voce narrante interpretata dal Latini, mentre note soffuse legano i brani e immagini in dissolvenza sono proiettate sullo schermo. “Non mi è mai piaciuto parlare di me”, così inizia lo spettacolo, asserzione che diventa un refrain e anche un filo conduttore della confessione di Manzoni che si racconta in questa serata rivolgendosi al lettore-spettatore.
Nei brani il continuo intrecciarsi di virtù laica, virtù cristiana e universo della passione, all’interno di un’esperienza artistico-culturale che costituisce l’ideale sintesi, in ambito italiano, di Illuminismo, Neoclassicismo e Romanticismo.
Il primo quadro è l’Autoritratto del 1801 nel quale a dispetto della dichiarazione d’intenti confessa di aver parlato di sé in gioventù quando la solitudine, la mancanza della madre e l’assenza del padre si facevano sentire molto. Racconta così l’atmosfera tetra degli anni milanesi e poi Lecco dove ha imparato ad amare le montagne che ha trasferito negli scenari del suo Romanzo. Manzoni rievoca gli anni del Collegio dove non c’era altro da fare se non leggere e scrivere versi, così lo scrittore si dedica a comporre versi come Alla sua donna del 1802 che rileggendo poi trova ampollosi, ma il modello dei grandi poeti italiani pesava fortemente, condizionando l’autore. Manzoni, come si evince dai suoi scritti, fu sempre partecipe della storia e si ritrova nella condizione di figlio del secolo sotto titolo de La confessione di Alfred de Musset, una generazione senza padri. Il 1821 è un anno simbolo nella vita di Manzoni, fatto di passione che poi si rivelerà un’illusione.
Il teatro è un “pedaggio obbligato” scrive, e se a Parigi e in Francia comprendono la lingua di Molière, in Italia è forte lo scollamento tra la lingua orale e quella scritta, così lontana dal popolo da essere assimilata a una lingua morta. Ed è per questo che egli lavora “come un ossesso” all’Adelchi perché l’Italia resta un Paese senza potersi dire nazione, è un volgo che non riesce a essere un popolo, che dà vita a un “coro di schiavi”.
Se la lingua e la riflessione sul suo valore rappresenta uno degli aspetti della grandezza del Manzoni, la fede è l’altro elemento che lo caratterizza. In lui matura infatti l’evidenza della religione e il convincimento che doveva trasudare da tutti i suoi scritti come in Pentecoste che lo rese celebre.
E il dialogo tra la fede e la lingua diventa l’armatura del suo Romanzo al quale deve la sua notorietà ancor oggi tra continui rimaneggiamenti, che facevano irritare i tipografi, la sfida parlando di eroi del quotidiano, che eroi non erano, creando un modo diverso di raccontare la storia, attraverso la povera gente, quella a cui la storia con la s maiuscola passa sopra. Eppure Manzoni si rende conto che la sua scommessa è vinta perché la gente si è affezionata al suo racconto fin da Fermo e Lucia, la prima edizione del suo romanzo I promessi sposi, dal nome dei protagonisti secondo il modello inglese. Un’antologia di brani che creano un percorso nuovo nel tratteggiare Manzoni dal suo Autoritratto in poi.
a cura di Ilaria Guidantoni