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Fino al 23 dicembre alla Galleria Gracis di Milano si terrà la mostra Soluzioni immaginarie, dedicata al grande artista milanese Enrico Baj a 20 anni dalla scomparsa. Erede dello spirito surrealista/dadaista – ha avuto lo studio in condivisione con Marx Ernst – Baj sperimenta nell’arco della sua carriera tecniche e soluzioni stilistiche inedite, avvalendosi dei materiali più disparati, come stoffe, medaglie, frammenti metallici, perline, lustrini, specchi e vetri colorati. Le sue opere dissacranti, e dalle sottili implicazioni politiche, esprimono tematiche ancora estremamente attuali. Il titolo della mostra fa riferimento alla Patafisica, ovvero “la scienza delle soluzioni immaginarie”, coniata dal drammaturgo e poeta francese Alfred Jarry alla fine del XIX secolo, che tanto influenzerà l’opera di Baj. Essa è fondamentalmente la reinvenzione delle leggi che regolano la società stravolgendone i codici acquisiti. L’ironia e l’irriverenza di questa scienza costituiscono per Baj “gli anticorpi dell’uomo contemporaneo contro l’oppressione e la massificazione della burocrazia”. Si intuisce quanto il lavoro di Baj si sia basato proprio su questo assunto, con una lettura sempre ironica, ma estremamente pungente, nei confronti della contemporaneità. Fin dagli esordi con il Movimento
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Nucleare, nato nel 1951 come risposta agli orrori della Bomba Atomica, passando per la passione ritrattistica di generali e dame, figure in cui l’apparire prevale sull’essere e da cui traspare la sua natura antimilitarista, al grande capolavoro dei Funerali dell’Anarchico Pinelli, per Baj la critica sociale ha rappresentato l’elemento propulsore del suo fare arte. Un artista che ha sempre rappresentato una feroce voce fuori dal coro e le cui opere risultano ancora oggi di un’assoluta attualità con un significato che si rafforza giorno dopo giorno. Una poetica definita da Crispolti “tipicamente ironica-contestativa-farsesca” delineando così un personaggio/artista che ha guardato al mondo con gli occhi di un bambino, in un continuo gioco di assimilazione e restituzione sarcastica e ironica del dato reale. In mostra una serie di opere che raccontano la tendenza dell’artista ad antropomorfizzare la realtà. Baj attua un recupero sistematico del genere del ritratto, nel quale il soggetto perde, però, ogni individualità; esso è svuotato di ogni psicologia, per essere rivestito di medaglie, onori e attributi dal vano significato. Pomposi nomi affibbiati a personaggi effimeri, la cui importanza risiede solo nell’essere stati soggetti del ritratto stesso. Come nella serie dei Guermantes, ampiamente rappresentata in mostra con circa 40 pezzi, realizzata da Baj dal 1999 al 2000, ispirata al terzo volume di Alla Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Qui sfilano re, regine, marchesi, poeti, dignitari, artisti, medici e generali, effigi della vanità. Baj applica una moltitudine di soluzioni immaginarie a tutta la sua produzione, dai disegni, ai dipinti, ai collage, agli specchi fino a giungere ai multipli, alla cui produzione l’artista si dedica con passione, in una ricerca di democratizzazione del suo lavoro, giungendo a declinazioni del concetto di opere d’arte in edizione con modalità espressive inedite.
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Ogni opera appare sempre unica, sebbene realizzata in serie, perché ogni tecnica che mette a punto non gli permette la riproduzione anastatica. Ogni conchiglia è difatti diversa da un’altra per sua stessa natura, ogni taglio di tessuto, ogni pezzo di passamaneria, rivelando la passione per un lavoro artigianale, tecnicamente estremamente accurato. Anche quando la mano di Baj si posa sugli specchi, essi non riflettono l’esistente ma scompongono, per la loro natura frammentaria, il soggetto riflesso, trasformandolo in qualcosa di grottesco e tornando ancora una volta sul tema del ritratto. In opere come Personaggio allo specchio, infatti, si è allo stesso momento spettatori e soggetti. “L’ottimismo e il pessimismo, ai suoi occhi, devono essere annoverati tra le cose profondamente comiche. L’insoddisfazione per il presente stato delle cose, sociali, politiche, scientifiche, agisce per lui da stimolo. Crea il suo universo di allegria sarcastica e di iconoclastia grazie a questa insoddisfazione, che non tende mai alla cupezza e meno ancora alla depressione. Una risata immensa, questa è la sua risposta personale al pervadente nichilismo universale, e questa risata si sente in tutti i suoi quadri” (Alain Jouffroy, Un Manifesto permanente contro la stupidità).
Il percorso espositivo
Il colore di Enrico Baj è avvolgente, squillante, talvolta confusionario ma è tremendamente vivo e spicca tra i pannelli bianchi che guidano il visitatore all’interno della Galleria. Il primo incontro è con un generale che prende in giro perché un anarchico non può che prendere di mira il mondo militare. Incontriamo una serie di opere realizzate con conchiglie e medaglie che restituiscono l’unicità dei multipli di Baj: ogni multiplo è un pezzo unico, ossimoro che svela come ogni opera sia un lavoro artigianale e quindi mai identico, anche se solo per un particolare minimo. Da anarchico d’altronde sposa l’idea dei multipli perché sostiene l’arte per tutti. Era anche il periodo, tra gli Anni ’60 e ’70 del Novecento quando però in Italia soprattutto la scelta è snobbata.
Dagli Anni ’80 Baj affronta le maschere tribali, prendendo in giro la Pop Art
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che critica perché, nata come anima ribelle a una società consumistica, alla fine ne rimane intrappolata e “ne approfitta”; così la famosa Zuppa Campbell’s di Andy Warhol viene citata in un’opera in mostra ma sul barattolo scrive “zuppa della nonna”.
In mostra anche una delle due specchiere rotte che trova nella soffitta della casa di famiglia che visita nel 1959 e che si intravede nella foto dell’artista nel suo studio in mezzo agli specchi usata dalla Galleria per la comunicazione della mostra. Nel lavoro esposto la ricerca del volto umano, la revisione del ritratto, genere ripresa in un’ottica innovativa.
Nella serie dei generali, sia multipli sia pezzi unici, che possiamo ammirare in una versione irriverente con i capelli scompigliati dopo la siesta. Interessanti le cornici realizzate dalla Galleria, allora Studio Marconi, di Milano dove Baj era solito esporre e che ha curato i cataloghi generali dell’artista, create ad hoc per i soggetti dei quadri. Per un ritratto con il lego ad esempio, nella cornice si ritrova la stessa citazione che colpisce la plastica con la quale è realizzato il celebre gioco e che rappresenta la società dei consumi.
Tra le opere da segnalare un ritratto che rivela la fascinazione dell’autore per Pablo Picasso, che cita anche in alcuni lavori fin dal titolo; e la serie in particolare dei Guermantes che allude alla Recherche du temps perdu di Marcel Proust con il quale condivide la preoccupazione per il tempo che scorre inesorabile e la sua dissoluzione tanto che in alcuni ritratti gli occhi sono sostituiti con degli orologi. L’installazione dei diversi personaggi è una creazione della Galleria che li rende disponibili per la vendita singolarmente e nella stessa stanza dove solitamente Gracis crea un’ambientazione particolare le Dame idrauliche, opere realizzate tra gli Anni ’80 e ’90, raccolte in una sorta di libro non rilegato, Sull’acqua, con poesie di Giovanni Raboni che presenta inserti di specchi. Un volume che unisce simbolicamente la vena lirica, fantasiosa e irriverente ad un tempo, profondamente ironica e divertita, che appare giocosa e nasconde invece una critica forte alla società, in una parola, surreale, cifra che caratterizza tutto il lavoro di Baj con un tono molto originale che è a mio parere difficile definire surrealista in senso stretto. D’altronde per un anarchico ogni etichetta è una gabbia.
Chi è Enrico Baj
Nasce a Milano il 31 ottobre 1924. Spirito ribelle, contrario a ogni tipo di militarismo, si rifugia a Ginevra nel 1944 per sfuggire al servizio militare e, al termine della guerra, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera (1945-1948) e la Facoltà di Legge a Milano. Dopo aver completato gli studi di Giurisprudenza, nel 1951 promuove, assieme a Sergio Dangelo e a Gianni Dova, il Movimento Arte Nucleare e tiene nella sua città natale la prima personale presso la Galleria San Fedele. Nel 1953 conosce Asger Jorn, con il quale fonda il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista, schierandosi contro la forzata razionalizzazione e geometrizzazione dell’arte. L’anno seguente organizza gli Incontri Internazionali della Ceramica ad Albisola, in Liguria. A partire dagli anni Cinquanta è presente sulla scena internazionale e, in particolare, espone regolarmente a Parigi e dal 1960 negli Stati Uniti. Dal 1967 inizia una lunga e proficua collaborazione con lo Studio Marconi. In Francia André Breton lo invita a esporre con i surrealisti e nel 1963 gli dedica un saggio pubblicato sulla rivista “L’oeil” di Rosamond e George Bernier. Negli anni Settanta gli vengono dedicate le prime grandi retrospettive (Palazzo Reale, Milano; Museum Boijmans van Beuningen, Rotterdam; Palais des Beaux-Arts, Bruxelles). Nel 1971 hanno luogo tre importanti mostre a Palazzo Grassi, Venezia; al Museum of Contemporary Art, Chicago e al Musée de l’Athénée, Ginevra. Si distinguono nella sua produzione un filone ludico da un lato, dove prevale il piacere di fare pittura con ogni sorta di materiali, e dall’altro un forte impegno civile e una critica della contemporaneità, che si esprime nei Generali e nelle Parate militari degli anni Sessanta, e ancor più nelle opere degli anni Settanta, come I funerali dell’anarchico Pinelli (1972) e l’Apocalisse (1979). Negli anni Ottanta realizza la serie Metamorfosi e Metafore (1988), nella quale sviluppa una figurazione dell’immaginario e del fantastico. Nel 1993 inizia il ciclo delle Maschere tribali, assemblaggi realizzati con gli scarti della civiltà moderna per creare ironiche e coloratissime maschere, cui fanno seguito i Feltri (1993-98) e i Totem (1997). Numerosi sono i rapporti dell’artista con poeti e letterati italiani e stranieri, che portano a varie collaborazioni e alla realizzazione di diversi libri d’artista. Molte sono anche le collaborazioni con altri artisti, tra i quali Lucio Fontana e Piero Manzoni. Nel 2001 inizia un ciclo di opere dedicato alle storie di Gilgamesh, re dei Sumeri. Dopo la morte dell’artista, avvenuta il 16 giugno 2003, una grande retrospettiva coinvolge diverse sedi milanesi (Spazio Oberdan, Accademia di Belle Arti di Brera, Galleria Giò Marconi, Fondazione Mudima). Nel 2017 il Cobra Museum of Modern Art di Armstelveen gli dedica un ampio retrospettiva dal titolo Play as Protest, con circa 100 opere realizzate tra gli anni ’50, ’60 e ’70.
a cura di Ilaria Guidantoni