Si è da poco conclusa la 52° edizione del Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia che ha visto la fine del mandato quadriennale dei direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte (ricci/forte)
Il Leone d’Oro è stato assegnato al collettivo australiano Back to back Theatre e quello d’Argento all’ensemble anglo-tedesco Gob Squad.
E’ Niger et Albus il titolo che ricci/forte hanno scelto per la rassegna, dopo i tre vivaci colori delle precedenti annualità. “In principio tutto era bianco e nero”, sottolineano, “la contrapposizione tra bene e male, gli opposti mescolati, le trame da comporre tra buio e luce. Medioevo e futuro, arcangelo Michele contro Satana, la dicotomia ci governa. Trascendere e dominare, sviluppare la spiritualità governando le tendenze materiali è il solo sentiero percorribile. L’edizione di Niger et Albus non si configura come pensiero dicotomico ma illustra l’indecifrabile caos del coraggio, la mutevolezza difesa a oltranza, un rigoroso mazzo di tarocchi con il quale pronosticare un futuro possibile: un festival passe-partout per spalancare le porte dell’immaginario e salpare per un viaggio multidisciplinare di due settimane negli spazi site-specific della Biennale Teatro”.
L’apertura della kermesse ha visto protagonista il collettivo Gob Squad, fondato nel 1994 da un gruppo di artisti (Johanna Freiburg, Sean Patten, Sharon Smith, Berit Stumpf, Sarah Thom, Bastian Trost e Simon Will ) attivi tra Nottingham e Berlino che si oppongono al modello teatrale convenzionale della rappresentazione e di un’esposizione puramente testuale, facendo uso costante di videocamere e di riprese in diretta per moltiplicare la percezione dei loro interventi. Del collettivo si fa portavoce Simon: “Siamo sette membri e non abbiamo un capo, lo siamo tutti. Il nostro intento è quello di combattere la solitudine insieme, incontrando e interagendo con le persone. Quando nel ’94 ci siamo incontrati si diceva che non c’era più bisogno di geni: noi ci interroghiamo su cosa rappresenti l’immagine riprodotta e le nostre creazioni cambiano di città in città e sempre fondamentale è l’interazione con il pubblico e non è un problema quando lo spettatore si rifiuta di entrare in un video e partecipare a un gioco. A Glasgow, ad esempio, sotto un tendone abbiamo chiesto ad alcuni spettatori di ricostruire il mondo e loro si sono talmente coinvolti che potevano poi fare a meno degli attori”.
A Venezia i Gob Squad hanno portato Elephants in Room, un’installazione collocata al padiglione 30 del Forte Marghera. E’ l’opera di 14 artisti provenienti dai luoghi più disparati del globo (India, Cina, Europa, Nord e Sud America) che in altrettanti schermi inquadrano finestre sul mondo e in circa due ore ci danno l’opportunità di osservare quanto accade all’interno di alcune stanze e cosa vedono gli inquilini all’esterno. Creations (Pictures for Dorian) è invece lo spettacolo messo in scena al Teatro Piccolo Arsenale. Come si evince dal sottotitolo c’è un richiamo al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde dove si leggeva che “L’arte rispecchia lo spettatore e non la vita.” L’incipit è una metafora del messaggio che la compagnia intende veicolare. Un’attrice in proscenio ritrae il volto di uno spettatore ma quando lo mostra a lui e a noi scopriamo che non è affatto somigliante: quindi c’è una discrepanza tra la realtà immaginata dall’artista e quella effettiva che è sotto i nostri occhi. L’obiettivo è guardare oltre lo specchio della vanità e cercare risposte alle domande sulla bellezza, la moralità, la paura d’invecchiare e il potere da combattere per mezzo della pace. Ecco allora che i personaggi, dopo che si sono fatti conoscere attraverso le loro storie personali, vengono incorniciati in pose plastiche come fossero oggetti o nature morte, al pari dei mazzi di fiori o della lampada che adornano la scena. Come sempre fanno nei loro tour, i Gob Squad per la performance alla Biennale hanno arruolato sul posto sei “colleghi” trovati nell’ambito dell’ambiente teatrale, delle arti performative e dello sport. C’è Alessandro con un passato come capocomico di una compagnia veneziana che poi ha dovuto sciogliere e ora affronta con amarezza il passar degli anni, Margherita, che dopo parecchie vicissitudini ha trovato scopo e serenità attraverso le discipline orientali, il giovane Manuel che si dedica al culto del proprio fisico allenato. Con loro interagiscono Berit, Johanna. Sean e Bastian, anch’essi impegnati in monologhi a cuore aperto, in una sorta di stream of consciousness: se Berit si denuda completamente raccontando il suo rapporto con il corpo, Bastian fa un accorato coming out parlando della storia con il suo compagno. Anziché sfruttare per il finale il bellissimo tableaux vivant di stampo caravaggesco che li vede tutti riuniti, hanno optato per un più scontato uso di enormi teloni di plastica bianchi sotto i quali nascondersi alla vista.
Tra le molte proposte, tutte di alto profilo, del cartellone, tutte ospitate nei suggestivi spazi dell’Arsenale, ci limitiamo, anche per ragioni di spazio, a dar conto degli spettacoli visti, prima di concludere con il Leone d’Oro. Vincitore del bando della Biennale College (istituita negli ultimi anni per valorizzare giovani talenti) Registi Under 35 della scorsa edizione, Ciro Gallorano ha presentato Crisalidi, da progetto ora diventato spettacolo o meglio performance per due attrici, Sara Bonci e Andreyna De La Soledad, che, senza mai parlare e all’interno di una scena che si apre e chiude a libro e che contiene una scrivania, una sedia e una vasca da bagno, danno vita a una serie di azioni spesso ricche di simboli. All’inizio una di loro salta alla corda e usa un elastico per sollevare le gambe, l’altra tiene in equilibrio con i piedi alcune ampolle piene di acqua, elemento che ritroviamo nella vasca d bagno in cui una s’immerge totalmente fino al capo, lasciando immaginare un potenziale tentativo di suicidio. Una volta riemersa, Bonci recupera un telo da cui emerge De La Soledad, dopo inizia a spazzolarsi compulsivamente i capelli. Finale di grande impatto visivo con una raggomitolata in una teca di vetro e con l’altra accovacciata sopra, prima che una colata di cenere le ricopra. Crisalidi, in natura lo stadio larvale delle farfalle, ci parla di uno spazio mentale dove è in corso una transizione, un passaggio da uno stato a un altro di cui siamo invitati a seguire (o spiare?) le fasi. L’autore e regista Gallorano si è ispirato alla vita e all’opera della fotografa Francesca Woodmann (1958-1981) come Virginia Woolf morta suicida, dando corpo a quanto lui immagina popolasse le loro menti.
Per la prima volta in Italia, il regista svedese Markus Ohrn e il fotografo e artista polacco Karol Radziszewski, attivista queer, hanno ideato, firmando anche scene, costumi e immagini, Phobia, un grottesco atto d’accusa all’omofobia e alla violenza fisica e verbale presente in Polonia nei confronti delle minoranze di genere, ma anche dell’ipocrisia di chi sfrutta queste ultime per meri interessi commerciali. Vediamo all’opera i Fag Figheters (guerrieri gay), versione queer con maschere di una gang urbana inventata nel 2007 da Radziszewski, che attinge a piene mani al modello del romanzo e film Arancia meccanica (con la differenza che i passamontagna sono di colore rosa) e che nella pièce in tre atti decide di fare giustizia in modo assai singolare. Già assurti alla fama grazie ai media, armati delle regolamentari mazze, irrompono prima in una tranquilla famiglia borghese e progressista sottoponendola ai tanto temuti quiz sulla storia polacca: si tratta in particolare di rispondere a domande su celebri omosessuali del passato, tra cui re, scrittori/trici/ poeti/esse, artisti e ballerini. Il capofamiglia e la moglie falliscono miseramente e per punizione vengono picchiati e stuprati, la figlia si salva con una risposta corretta, persa comunque nei suoi deliri che le fanno coccolare un cane inesistente. Tocca poi a un art director che lavora per un’azienda produttrice di abiti nel cui logo fanno bella mostra le bandiere di varie minoranze sessuali: il suo compito è attribuire a ognuna la giusta paternità, cosa che il manager ignora. Ne segue una punizione corporale neppure paragonabile a quella, su cui sorvoliamo, quando poi l’uomo non sa rispondere ai quiz. Nel terzo atto vediamo un drammaturgo svedese nella sua stanza d’albergo a Varsavia: sta preparando uno spettacolo su un testo scritto da lui che ha per tema l’omofobia in Polonia. Ancora prima di essere interrogato ma avendone letto il copione, viene letteralmente smembrato e fatto oggetto di necrofilia, con la stanza che si tinge del rosso del suo sangue. Nella regia di Ohrn traspare evidente una massiccia dose di umorismo nero, però il condivisibile messaggio e intento di denuncia perde un po’ di efficacia travolto dal gran guignol che spesso lo soverchia. In scena gli adrenalinici Wojciech Kalarus, Evelina Pankowska, Piotr Polak, Magdalena Poplawska e Jan Sobolewski che improvvisano anche godibili siparietti fuori scena con gli spettatori, supportati dalla musica classica suonata dal vivo da Michal Pepol e Bartek Wasik.
Graditissimo ritorno alla Biennale è stato quello di Tim Crouch, pluripremiato autore, attore e regista inglese, che ha portato Truth’s A Dog Must A Kennel (citazione scespiriana dal Re Lear che significa La verità è che un cane deve stare in un canile) riprendendo in parte la tragedia del sovrano detronizzato, vista però dalla parte del Fool, sue sono infatti le parole rivolte al re che ha ingiustamente punito la figlia Cordelia. Il lavoro fa parte di quella serie di monologhi dedicati a personaggi minori delle opere di Shakespeare (come Malvolio della Dodicesima notte, Banquo del Macbeth o Calibano della Tempesta) ma in realtà è una testimonianza sulla realtà del teatro e di quanto gli gira attorno. “Stiamo annegando nei pixel”, afferma Crouch, “in un sovraccarico sensoriale. Oggi tutto deve essere aumentato, tutto deve avere a che fare con le dimensioni, il controllo e il denaro. Di più è di più, ci dicono la nostra cultura e il capitalismo: dobbiamo resistere a questa ondata di grandezza. Tutto ciò che scrivo è in opposizione allo status quo. Ho quasi smesso di fare teatro 20 anni fa perché avevo perso fiducia in questa forma d’arte. Tutto il mio lavoro ha un solo scopo: riportare il teatro al servizio del pubblico”. Nella sua versione il Fool esce però presto di scena per codardia e Crouch, indossato un visore che però dice essere fuori uso, ci porta in un qualunque teatro inglese, passando in rassegna la tipologia di spettatori, posti a sedere e relativo costo dei biglietti, rituali che hanno luogo nell’intervallo con immancabili drink già prenotati, ma anche imprevisti che mettono a rischio la rappresentazione, come il grave malore che colpisce uno spettatore, associando la sua morte a quella di Cordelia e di Lear. Il finale è una pesante denuncia contro i talent show (e la monarchia): in uno dei più famosi immagina si esibisca addirittura la famiglia reale, artefice di quanto di peggio si possa immaginare, tra sesso e violenza.
Attesissimo e da noi particolarmente amato, lo svizzero Milo Rau, regista teatrale e cinematografico, scrittore e direttore artistico fino allo scorso anno del teatro stabile di Gand in Belgio e da poco del festival Wiener Festwochen di Vienna, ci ha abituati a vederlo affrontare tematiche assai scomode, come la violenza razziale o quella di genere, prendendo spesso spunto da fatti di cronaca. E’ così anche per Medea’s Children (terzo capitolo, dopo Oreste a Mosul e Antigone in Amazzonia, della trilogia dedicata alle tragedie greche), in cui il regista associa al mito euripideo la tragica vicenda di una donna belga, Geneviéve Lhermitte, che nel 2007 uccise i suoi cinque figli (quattro femmine e un maschio) mentre il marito stava rientrando dal Marocco dove era andato a far visita alla famiglia d’origine. Condannata all’ergastolo nel 2019, che stava scontando in un carcere psichiatrico, 4 anni più tardi ha ottenuto di morire per eutanasia. La possibile ragione di questo terribile gesto è stata attribuita alla solitudine e all’insofferenza per il rapporto omosessuale che il marito aveva con il dottor Schaar, suo pigmalione e protettore sin da quando era adolescente, adombrando anche il sospetto di pedofilia. L’invenzione geniale di Rau è quella di far recitare i due aspetti del dramma non da attori professionisti (tranne uno) ma da sei ragazzini/e non professionisti che interpretano sia i personaggi, adulti e bambini, della tragedia che quelli della realtà storica, oltre alle loro personali riflessioni.
“Nelle tragedie greche”, spiega Rau, “i bambini sono sempre muti, ecco perché ho deciso di dar loro la parola, come sempre in modo radicale. Lo spettacolo dà voce alle opinioni dei bambini su temi da grandi, come amore, separazione, morire, teatro. Esplorare la tragedia attraverso loro ha un preciso significato: essi sono in qualche modo l’ultima generazione ma provano lo stesso a vivere, a esistere nonostante la percezione che sarebbe meglio se non ci fossero. I bambini hanno pensieri molto cupi riguardo al futuro, ma allo stesso tempo sono convinti che la loro generazione riuscirà ancora a farcela”.
Cambiando i nomi anagrafici con altri di fantasia, il regista usa come sempre la combinazione di immagini dal vivo che la videocamera riproduce dall’azione in palcoscenico, altre preregistrate oltre a spezzoni video con attori professionisti. L’impatto è davvero emozionante, nonostante la crudezza di alcuni momenti in cui la violenza sui corpi innocenti e il sangue vengano mostrati senza autocensure ma sono godibili e spezzano la tensione le considerazioni – talvolta spassose – dei piccoli interpreti (Bernice Van Valleghem, Aiko Benaouisse, Hella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes) mentre l’attore Peter Seynaeve si prodiga anch’egli in più ruoli, compreso quello del coordinatore del gruppo. Recitato in lingua olandese, benissimo sovratitolata come del resto tutti gli spettacoli, l’ultimo lavoro di Milo Rau resterà per molto impresso nella memoria.
Caterina Balucani ha vinto con Sleeping Beauty la Biennale College per drammaturghi under 40 lo scorso anno e ha affidato il suo testo alla regia di Fabrizio Arcuri. E’ palese il riferimento alla fiaba ma qui la protagonista si sdoppia in quattro (due attori e due attrici) che in brevi monologhi o in coro raccontano la loro storia, accumunata dalla ferita che portano sulla mano. Non sono solo le ragazze a cercare il principe azzurro ma anche un ragazzo che coinvolge un coraggioso spettatore a fargli da spalla mentre gli dichiara, chiamandolo Luca, il suo amore, respinto però perché non è una femmina. Generosa e accattivante la prova degli attori (Vincenzo Crea, Andrea Palma, Dajana Roncione e Maria Roveran) che all’inizio scaldano la sala invitando il pubblico a unirsi a loro in un ballo.
Così erano le cose appena nata la luce di Rosalinda Conti e Livido di Eliana Rotella hanno vinto la Biennale College Drammaturghi di questa edizione e, in attesa di vedere entrambi i lavori prodotti il prossimo anno, abbiamo assistito a una loro efficace mise-en-lecture, la prima, regista Martina Badiluzzi, con Barbara Chichiarelli, Loris De Luna, Michele Eburnea e Alessandro Riceci, la seconda, per la regia di Fabio Condemi, con Marco Cavalcoli, Bianca Cavallotti e Eliana Rotella.
La chiusura più appropriata della rassegna non poteva che essere con il Leone d’Oro dei Back to Back Theatre. Il collettivo è stato fondato nel 1987 nello Stato australiano di Victoria dagli artisti Simon Laherty, Sarah Mainwaring e Scott Prince, tutti affetti da disabilità, a cui nel 1999 si è aggiunto Bruce Gladwin che ricopre il ruolo di regista e direttore artistico. La sede della compagnia, che ha ricevuto 22 premi nazionali e internazionali, è nella città di Geelong la cui amministrazione sostiene i loro progetti. Si sono fatti conoscere nel 2005 con Small Metal Objects, indagine teatrale su come la società neghi il rispetto alle persone che considera improduttive, mentre Ganesh Against Third Reich del 2011 ruota intorno alle idee di eugenetica e nazismo. E’ in fase di preparazione e prove Multiple Bad Things sulle tensioni razziali, di genere e politiche tra lavoratori. Nell’incontro con la stampa nella cerimonia della premiazione scopriamo che sono loro stessi il motore dei progetti e poi delle creazioni. Per Scott, 37 anni, autistico, “Vogliamo creare opere partendo dalle nostre menti e dai nostri cuori, creare un teatro fedele a noi stessi, fare il teatro che vorremmo vedere, qualcosa che ci faccia divertire. Back to Back ha un’estetica punk: provo gioia a vedere gli occhi del pubblico illuminarsi. Potenza, cura, responsabilità, alterità e speranza sono i fili che accomunano i nostri lavori.” Per Bruce è importante “Creare un’esperienza che sia trasformativa: intrattenere e provocare. Ricordare al pubblico che tutto ciò che abbiamo è il legame umano: fidarsi dell’inconscio, abbracciare incomprensioni, errori e false interpretazioni. Collaborare e offrire opportunità e lavoro agli artisti. Come regista mi interessa la singolarità degli attori, sin dall’inizio la compagnia (che amo perché è anti-sistema ed è l’opposto di come funziona la maggior parte degli ensemble artistici) li ha considerati una risorsa.”
A Venezia hanno portato Food Court (come di solito vengono chiamati gli spazi dedicati alla ristorazione nei centri commerciali), una produzione del 2008, il cui tema è il bullismo tra disabili. In scena vediamo infatti le umiliazioni, angherie e la violenza fisica a cui due ragazze con sindrome di Down in costume da bagno sottopongono una donna muta e spastica. Quando la poveretta è a terra e quasi in fin di vita un ragazzo obeso le si avvicina per fare sesso con lei senza peraltro riuscirci e decidendo che lei, dopotutto, non è il suo tipo. A questo punto la donna, impugnato il microfono, recita un brano dalla Tempesta scespiriana. “Food Court”, afferma Bruce, “è un lavoro sulla seduzione, la costrizione, il potere, le intenzioni malvage e la resilienza. Per tanto tempo è sembrato che le persone con disabilità giocassero a fare le vittime: volevamo creare un’opera in cui un attore con disabilità interpretasse un personaggio capace di fare del male: se non sei capace di fare il male allora non sei umano e se non sei umano cosa sei?”. In scena Sarah Goninon e Tamika Simpson sono le super cattive, Sarah Mainwaring è la struggente vittima, Scott Price il perverso e Simon Laherty il pavido testimone, sono tutte/i davvero eccellenti nel darci una fortissima emozione. Ottimo il supporto musicale del trio The Necks e gli effetti visivi di Mark Cuthbertson. In attesa di conoscere la nomina del/dei successori di ricci/forte, appuntamento al prossimo anno.
a cura di Mario Cervio Gualersi