di Giuseppe Carlo Vegas,
presidente di ARISK, consigliere Assofintech, già presidente Consob
Estratto del documento presentato il 5 febbraio nel corso dell’Indagine conoscitiva sulla riforma dell’IRPEF e altri aspetti del sistema tributario svolta dalla VI Commissione della Camera (Finanze) e 6° Commissione del Senato (Finanze e Tesoro) riunite
(clicca qui per la versione integrale e qui per il video)
I nuovi equilibri mondiali stanno rapidamente portando al declino del mondo occidentale, la rivoluzione tecnologica ha di fatto distrutto la classe media e ha scavato un fossato tra ricchi e poveri. Ne è emerso un mondo nuovo, la cui cifra è caratterizzata dall’incertezza. Il Covid-19 ha accelerato e rafforzato questo processo.
In questo quadro, anche il sistema fiscale non può più far finta che la realtà sia ancora esattamente quella di cinquant’anni fa. D’altronde, le innumerevoli modifiche alla normativa apportate in questi anni sono proprio la dimostrazione della riconosciuta necessità di adeguare in qualche modo il fisco alla realtà. Tuttavia, il complesso delle innovazioni introdotte ha sortito l’effetto di rendere il sistema crescentemente gravoso, farraginoso e fonte di conflittualità. Il tentativo di inseguire la realtà giovandosi di interventi correttivi parziali e non sempre tra loro coordinati non ha finora prodotto un risultato soddisfacente.
Occorre, in conclusione, domandarsi se non sia oggi più conveniente per i contribuenti e la pubblica amministrazione procedere, invece, a una innovazione radicale. Ciò pur nella considerazione che una riforma che un cambiamento di abitudini consolidate da entrambe le parti del tavolo è destinato a trovare la forte resistenza di molti e necessita di un ragionevole periodo transitorio per poter divenire completamente operativo.
A nostro avviso occorrerebbe valutare l’opportunità di porsi l’obiettivo ambizioso di realizzare una riforma che miri contemporaneamente a:
- adeguare il sistema fiscale alla mutata realtà tecnologica, economica e sociale;
- attribuirgli una connotazione premiale e positiva, orientandolo verso un approccio culturale incentivante la crescita e che veda nelle classi medie il motore dello sviluppo;
- far pagare di meno (diminuendo la pressione tributaria) e in modo più semplice.
Quanto all’ultimo punto, in un sistema e in un’epoca storica di forti difficoltà in conseguenza del preoccupante andamento del Pil, la diminuzione del peso dell’imposizione costituisce sicuramente uno strumento indispensabile su cui tutti possono concordare. In realtà, il tema principale da affrontare è quello relativo al quantum sia desiderabile e fattibile (il tutto unito a una forte semplificazione, per limitare il più possibile i costi e gli oneri che incontrano i contribuenti per adempiere ai loro doveri fiscali).
Relativamente agli altri obiettivi sopra indicati, la riforma dovrebbe farsi carico del fatto che il fatto stesso di ragionare avendo come riferimento il lavoro dipendente a tempo indeterminato ha oggi perduto di significato, come lo ha la tradizionale divisione tra produttori (categoria prevalentemente composta da lavoratori) e rentier.
Attualmente un individuo è considerato dal mercato come fonte di valore in quanto consumatore. Reddito e ricchezza restano indubbiamente parametri significativi, ma ciò che costituisce il potenziale attrattivo di una realtà territoriale è la capacità di consumo dei suoi abitanti.
E la valutazione di questo potenziale avviene mediante l’estrazione dei dati sensibili che ciascuno di noi concede gratuitamente, salvo rare eccezioni, mentre procede alle transazioni che lo riguardano (dalle scelte di ogni tipo, ai pagamenti). Conservando e processando questa ingente massa di dati, le grandi imprese tecnologiche sono andate costruendo monopoli dotati di tale forza, da una parte, per poter prevalere sulle spinte regolatorie dei poteri pubblici e, dall’altra, per indirizzare a proprio vantaggio sia la domanda per consumi, sia, soprattutto, la produzione di beni e servizi.
Di conseguenza, l’immane spostamento di ricchezza da individui e imprese verso le grandi società tecnologiche ha originato, grazie anche alla delocalizzazione di importanti settori della produzione mondiale, la creazione di ingenti economie di scala, che hanno permesso ai monopolisti di abbassare i prezzi (e con essi il loro livello generale), sino a un livello compatibile con i bisogni di una classe lavoratrice (ma anche di ex-reddituari) ormai espropriata del precedente tenore di vita, per tal via attraendo milioni o, meglio, miliardi di consumatori.
La risposta dei governi (angosciati dalla necessità di far fronte a spese pubbliche sempre crescenti) a questo fenomeno non è stata, come sarebbe stato lecito attendersi, quella di ostacolare un simile processo e di inasprire la tassazione sui monopolisti, ma si è concentrata nello sforzo di cercare di recuperare il gettito che si andava man mano perdendo. Ne è risultato per tal via un inasprimento generalizzato della pressione fiscale (prevalentemente incentrato sulle fasce alte e medio-alte), che ha portato con sé la conseguenza di un ulteriore compressione del reddito disponibile.
L’effetto complessivo è stato quello di ridurre fortemente o addirittura di sopprimere quel minimo di buffer precedentemente a disposizione della fascia centrale dei contribuenti, destinato a far fronte a nuove esigenze e a indirizzare l’andamento del prodotto nazionale. Ne è uscita rafforzata la tendenza in atto di impoverimento della collettività, ad eccezione di tutti coloro che erano sufficientemente agiati (rentier) da non subire effetti negativi rilevanti (come dimostra anche la crescita impetuosa del consumo di beni di lusso) ovvero in condizione di tali difficoltà da essere destinatari di provvidenze economiche da parte del settore pubblico.
In sostanza, il peso prevalente, se non totale, della rivoluzione informatica e della fame di denaro degli Stati è finito per gravare sulla sezione più numerosa della popolazione (per quantificare, i titolari di reddito tra i 20 mila e i 60 mila euro annui) che si suole definire come classe media. Con la conseguenza non solo di provocare un danno per gli interessati, ma di causarne uno ancora maggiore all’economia nazionale (non solo italiana, ma di tutti i Paesi occidentali). Se, da una parte, la mancanza di disponibilità che ne è derivata ha compresso i consumi e la qualità dei beni acquisiti, dall’altra, l’inasprimento della pressione fiscale al crescere delle soglie di reddito ha infatti operato come potentissimo disincentivo alla ricerca di un più soddisfacente status economico.
Si tratta di un processo apparentemente inarrestabile. A meno che non si assumano decisioni eterodosse.
Una via potrebbe essere quella di superare l’attuale struttura del prelievo, incentrata esclusivamente sul reddito personale, per considerare anche i consumi, in base alla circostanza che essi rappresentano pur sempre un indice indiretto di capacità contributiva. A dire la verità, si potrebbe trattare di una strada quasi obbligata, essendosi gli Stati dimostrati incapaci di tassare adeguatamente i titolari di poteri monopolistici. Una strada che comunque in qualche modo produrrebbe di per sé l’effetto, anche questo indiretto, di traslare parte dell’onere che genera su questi ultimi soggetti.
Tra l’altro, per tal via si potrebbe risolvere con generale soddisfazione la questione della progressività del sistema fiscale, riferendola ai consumi. Si eviterebbe così di discriminare i redditi da lavoro dipendente e si scongiurerebbero effetti disincentivanti, senza far venir meno l’obiettivo di tendere a realizzare l’equità verticale.
In definitiva, considerare i consumi come manifestazione indiretta di capacità contributiva (traendo qualche spunto dalla imposta complementare, ideata da Vanoni e vigente prima della riforma degli anni ’70) potrebbe consentire, insieme a una sua potente semplificazione, di adeguare il sistema alla nuova realtà tecnologica, economica e sociale, di far gradualmente diminuire la discriminazione fiscale a danno dei ceti medi e di non penalizzare lo sviluppo del Pil potenziale.
Il meccanismo ipotizzato si baserebbe su due imposte:
- La prima, sostanzialmente riproduttiva dell’attuale IRPEF, ma con una aliquota unica;
- La seconda, nuova, progressiva sui consumi e il tenore di vita.
La prima imposta provvederebbe a tassare, con una aliquota unica del 15 per cento, ma con un innalzamento della fascia esente a 10.000 euro (aumentato nel caso di familiari a carico), a differenza dell’IRPEF attuale, tutti i redditi: sarebbero compresi pertanto i redditi da lavoro dipendente ed autonomo e quelli da pensione, le rendite finanziarie e quelle da locazione immobiliare (in questi due ultimi casi, verrebbero superate le aliquote agevolate oggi esistenti, ma i proventi verrebbero ricompresi nel plafond complessivo). Tutte le agevolazioni sarebbero eliminate, ad eccezione di quelle già sopra individuate, e tutti i contribuenti di tutte le fasce di reddito ne otterrebbero un beneficio netto. Ne deriverebbe un sistema semplice ed onnicomprensivo, che produrrebbe un gettito complessivo di 70,6 miliardi ed escluderebbe dal pagamento dell’imposta tutti i contribuenti con redditi fino a 15.000 euro, agevolerebbe quasi del 70 per cento i contribuenti con redditi da 15.000 a 28.000 euro e del 50 per cento circa i redditi da 28.000 a 55.000 euro, il cosiddetto ceto medio. Anche i redditi più elevati otterrebbero uno sconto significativo, nell’ordine del 65 per cento. Si tratta ovviamente di riduzioni del carico fiscale che devono tener conto dell’altra componente tributaria.
La seconda imposta colpirebbe i consumi. Si tratta in sostanza di considerare a fini tributari anche la capacità di spesa del contribuente che si riflette nel suo tenore di vita. Si tratta di un elemento importante e fondamentale per comprendere appieno quale sia la sua vera capacità contributiva (che non può essere rappresentata esclusivamente dall’IVA, che è una imposta anonima e che comunque non viene modificata). Non avrebbe nulla in comune con il cosiddetto “redditometro”, che costituisce esclusivamente uno strumento funzionale all’accertamento. Proprio per questo motivo, per rendere la tassazione progressivamente adeguata alla crescita del tenore di vita, si è previsto di fissare una serie di fasce di consumo annuo sottoposte ad aliquota impositiva crescente, con esclusione delle spese per consumi fino a 10.000 Euro l’anno. La nuova imposta, che dovrebbe avere, come la prima imposta, la caratteristica di essere corrisposta annualmente, ha lo scopo di colpire i consumi individuali derivanti dalla sommatoria dei pagamenti effettuati attraverso ogni tipo di circuito, bancario e non, e i prelievi di denaro contante, che, come tale, è presunto essere destinato direttamente al consumo. L’imposta non colpisce il risparmio, comprese le sue declinazioni, quali gli investimenti finanziari. Per il motivo che, se è vero che il risparmio non è spesa e quindi non entra direttamente nel circuito del reddito, esso tuttavia è fondamentale per finanziare gli investimenti, e dunque per trasformare il Pil potenziale in Pil reale. Al fine dell’applicazione dell’imposta è stato considerato il livello di consumo annuo. Esso varia in funzione del reddito. Il calcolo del consumo è stato redatto sottraendo dal reddito disponibile il risparmio, secondo il tasso stimato nel periodo più recente. Sono state poi definite le aliquote impositive riferite ai diversi scaglioni possibili di spesa. In proposito, occorre far presente che le aliquote ipotizzate sono state fissate in modo che la sommatoria tra la nuova imposta sui consumi e la “vecchia IRPEF” rivisitata risulti conveniente per ogni classe di reddito. In particolare, le aliquote sono state previste in modo da avere un impatto minimo sui redditi medio-bassi e da garantire anche ai redditi medi e medio-alti un risparmio rispetto al sistema oggi vigente.
In conclusione, come dimostra la seguente tabella, il nuovo sistema, derivante dalla sommatoria della “nuova IRPEF” con l’imposta sui consumi risulta conveniente per ogni fascia di reddito. I contribuenti del primo e secondo scaglione vedrebbero una diminuzione del loro carico fiscale, rispettivamente, del 43 e del 39 per cento, mentre per quelli con redditi tra 28.000 e 55.000 euro si attesterebbe sul 21 per cento, per quelli fino a 75.000 equivarrebbe al 32 per cento e, infine, per i redditi superiori sarebbe del 6 per cento circa. Va però considerato che a questi risparmi, che si attesterebbero nell’ordine di circa 45 miliardi complessivi, occorre sommare gli ulteriori 19 miliardi complessivi, che discenderebbero dalla soppressione dell’IMU.
Sostituire l’IRPEF attuale, che al netto delle spese fiscali dà un gettito di 186 miliardi, e l’IMU, con un gettito di 19 miliardi, provoca un onere complessivo di 205 miliardi. Che risulta coperto per 70,7 dalla “nuova IRPEF” e per 70,4 dall’imposta sui consumi, per un totale di oltre 141 miliardi. Per la copertura della differenza, ci si può orientare a sopprimere o contenere alcune delle spese che sono state poste a carico del bilancio dello Stato nei tempi più recenti e che hanno avuto l’effetto di aggravarne il deficit. Si tratta di un elenco meramente indicativo, ampiamente modificabile dal legislatore secondo le sue sensibilità, allargabile o restringibile in funzione del rilievo quantitativo che questi voglia collegare alla riforma fiscale. In ogni modo, può costituire la base di un ragionamento concreto.
Ad esempio, si potrebbero sommare i risparmi che potrebbero derivare dalla soppressione delle seguenti misure: “quota 100” (3,5 mld), il fondo per la riforma fiscale contenuto nel bilancio 2021 (8 mld), il finanziamento per la cosiddetta. “legge mancia” contenuta nel bilancio 2021 (0,8 mld), le tax expenditures (30 mld), considerando, in questo caso, di sopprimere buona parte delle deduzioni e detrazioni a fini IRPEF (ivi compresi il “bonus 80 e ora 100 euro” e il reddito di cittadinanza), che assommano complessivamente a circa 43 mld, ad eccezione delle detrazioni per lavoro dipendente e per famigliari a carico, compresi gli assegni di separazione e divorzio, e le imposte sostitutive sui redditi da capitale, la deducibilità delle pensioni di invalidità, anche di guerra, e di consentire la deducibilità delle spese per la previdenza complementare e le assicurazioni sanitarie.
Si potrebbe inoltre ipotizzare un lavoro di revisione complessiva della spesa, ad esempio attraverso un processo di digitalizzazione della PA (il Politecnico di Milano ha stimato risparmi possibili per 43 miliardi) per 10 mld, la definizione di un sistema di costi standard per gli acquisti nei settori dell’istruzione e della sanità (la CGIA di Mestre valuta possibili risparmi di 80 mld) per 15 mld, la valorizzazione degli asset improduttivi, dai beni demaniali, alle concessioni portuali, all’etere, ecc. (il cui valore estraibile stimato da Fondazione Respublica è di oltre 10 mld) per 5 mld, la valorizzazione, infine, del patrimonio immobiliare dello Stato centrale, per circa 6 mld. Il tutto senza far riferimento ad una ragionevole spending review, che potrebbe reperire facilmente nella soppressione di spese non strettamente necessarie, disposte nella legislazione passata e in quella recente, risorse di impatto non trascurabile, che in questa sede per prudenza vengono quantificate in 15 miliardi. Il totale di risparmi, e quindi di corrispondente riduzione del peso dell’imposizione, che ne potrebbe derivare assommerebbe a poco più di 63 miliardi, che rappresentano oltre un quarto del valore della sola IRPEF, una cifra tutt’altro che disprezzabile che potrebbe tornare nelle tasche dei contribuenti.