Sono diverse le soluzioni possibili per garantire il salvataggio di Acciaierie d’Italia spa, allo studio dei soci ArcelorMittal Italy Holding srl (61,9% del capitale) e Ministero dell’Economia tramite Invitalia (38,1%), che la controllano attraverso Acciaierie d’Italia Holding spa. Dall’auspicato aumento di capitale che consenta all’azionista pubblico di acquisire il controllo dell’ex Ilva di Taranto, finora naufragato più volte, a un nuovo socio privato al posto del colosso franco-indiano; da un greenbond che vada a finanziare gli investimenti a medio-lungo termine collegati agli investimenti relativi al miglioramento dell’impatto ambientale degli impianti, previsti dal piano industriale (si veda altro articolo di BeBeez), a un prestito-ponte per finanziare il circolante. Quella più probabile, considerata l’urgenza derivante dalla crisi di liquidità, come sottolineato dal presidente della holding Franco Bernabè martedì scorso in audizione presso la commissione Attività produttive della Camera (si veda qui il testo dell’intervento), è una nuova linea di credito da 450 milioni di euro, che ricomprenda anche il rifinanziamento della linea da 250 milioni concessa da UniCredit e scaduta senza essere rimborsata, come rivelato da Verità&Affari. In pratica, 200 milioni di risorse fresche, giusto per andare avanti per un po’.
Il gruppo ha in realtà bisogno di almeno altri 300 milioni, per un totale di 500 milioni, chiesti nei mesi scorsi alle banche e non concessi nonostante la garanzia statale, a causa dell’impossibilità di Acciaierie d’Italia ad accedere a forme di finanziamento di mercato, in quanto non ha la proprietà degli impianti. Acciaierie d’Italia infatti li gestisce in fitto, poiché la proprietà è dell’amministrazione straordinaria di Ilva.
“C’è il rischio imminente di un’interruzione della fornitura di gas ad Acciaierie d’Italia. Serve una caparra di circa 100 milioni al fornitore, che la società non è in grado di fare. Il servizio di fornitura del gas in regimi di default di cui Acciaierie beneficia in questo periodo è destinato a concludersi a brevissimo e sarà sostituito da una fornitura commerciale, che la situazione finanziaria dell’azienda rende estremamente difficile”, è l’allarme lanciato da Bernabè, che ha rimesso il mandato nelle mani del Governo.
L’Esecutivo guidato da Giorgia Meloni nel frattempo ha assicurato ai sindacati riuniti a Palazzo Chigi che Acciaierie d’Italia non chiuderà né sarà liquidata, ribadendo “la volontà e l’impegno per la salvaguardia degli impianti, la tutela della sicurezza sul lavoro e il raggiungimento dei livelli di produzione necessari” e “la disponibilità a garantire misure di tutela dell’occupazione” (si veda qui il comunicato stampa).
Ma il tempo stringe e la trattativa è in salita. Intanto i soci si riuniranno in assemblea giovedì 26 ottobre, mentre il Governo si è reso disponibile a un nuovo tavolo di confronto il prossimo 7 novembre con i sindacati, che denunciano “la totale assenza di trasparenza”, come spiegato a BeBeez dal segretario generale della Fiom-Cgil Michele De Palma, che con i segretari generali della Fim-Cisl Roberto Benaglia e Uilm Rocco Palombella ha partecipato al tavolo a Palazzo Chigi: “Il punto di pareggio si avrà con 6 milioni di tonnellate di acciaio prodotto, mentre non sappiamo se riusciremo ad arrivare a 3 milioni di tonnellate. Non sappiamo se ci sarà un piano B con un nuovo socio al posto di ArcelorMittal o un piano C. Non sappiamo nulla”.
La chiarezza viene invocata anche dal presidente dei senatori del Pd, Francesco Boccia, che ha depositato giovedì scorso un’interpellanza urgente al presidente del Consiglio e al ministro per gli Affari europei, sottoscritta da tutto il gruppo dem, in cui si chiede di sapere “se corrisponda al vero che il ministro Raffaele Fitto abbia sottoscritto, in luogo del ministro per le Imprese e il made in Italy competente per materia (Adolfo Urso, ndr), un memorandum con l’amministratore delegato di Acciaierie d’Italia e ArcelorMittal e se corrisponda al vero l’intenzione del Governo di voler procedere alla cessione delle quote pubbliche ad ArcelorMittal, rinunciando al percorso finalizzato a portare Invitalia al 60% del capitale di Acciaierie d’Italia”.
Della necessità di trovare al più presto nuova liquidità per Acciaierie d’Italia ne aveva già parlato alla fine dell’anno scorso Federico Maria Alberto Caligaris, partner e head of debt advisory di Cdi Global Italy nell’articolo di BeBeez già citato, visto che un anno e mezzo fa si era occupato nella veste di advisor finanziario della strutturazione della cartolarizzazione da 1,5 miliardi di euro di crediti commerciali del gruppo (si veda altro articolo di BeBeez). Cartolarizzazione studiata proprio per fornire all’ex Ilva la liquidità necessaria a finanziare il capitale circolante, ma che ora, nel mutato scenario politico-economico, non basta più, tanto che il gruppo si ritrova infatti a corto di cassa, non solo per la normale attività, ma anche per finanziare gli investimenti in ammodernamento degli impianti in ottica di minore impatto ambientale (si veda altro articolo di BeBeez).
Il gruppo Acciaierie d’Italia nel 2022 ha registrato ricavi in crescita del 15% a quasi 3,9 miliardi di euro, a fronte dei circa 3,4 miliardi dell’esercizio precedente, un ebitda negativo per oltre 485 milioni (rispetto ai più 347 milioni del 2021), un utile netto sceso a 84,65 milioni dai 325 milioni dell’anno prima e una liquidità netta di 166,5 milioni, a fronte di un patrimonio netto pari a 1,5 miliardi di euro (si veda qui il report di Leanus, dopo essersi registrati gratuitamente).
Scorrendo il bilancio 2022 di Invitalia, come riportato da MF-Milano Finanza, emerge che i 3,9 miliardi di ricavi sono stati erosi per oltre l’80% dall’assorbimento di cassa dovuto all’incremento del costo delle materie prime e in particolare del gas, nonostante i 550 milioni di benefici determinati dal credito di imposta del Decreto energivori.
Ricordiamo che il decreto del 5 gennaio 2023, convertito in legge il 3 marzo scorso, ha previsto un rafforzamento patrimoniale da parte di Invitalia mediante un finanziamento di 750 milioni di euro, di cui 680 milioni provenienti dal socio pubblico, che può essere convertito in aumento di capitale in qualunque momento su richiesta di quest’ultimo. Gli accordi tra i soci del 31 maggio 2022 prevedono infatti con un secondo aumento di capitale di portare Invitalia al 60% del capitale. “Queste risorse hanno contribuito a superare le criticità determinate dallo straordinario aumento dei costi dell’energia nel 2022 e hanno sopperito in parte all’impossibilità di accedere a una operatività bancaria normale per il finanziamento del circolante”, ha spiegato la settimana scorsa Bernabè.
A partire dalla primavera il quadro è peggiorato ulteriormente, con la rimodulazione del Pnrr che ha definanziato per 1 miliardo di euro i fondi destinati a Dri d’Italia, la società al 100% di Invitalia che ha il compito di riconvertire in chiave green la siderurgia italiana, quindi anche lo stabilimento di Taranto, come preteso dall’Ue, senza però alcun costo per il socio privato ArcelorMittal.
Una speranza arriverebbe invece dall’emendamento al decreto legge Salva-Infrazioni, che prevede la possibilità di acquisto, da parte del gestore, degli asset industriali posti sotto sequestro giudiziario e in capo all’amministrazione straordinaria. “Questo decreto consentirà in futuro, se non interverranno altre difficoltà, un finanziamento autonomo dell’impresa. Si tratta però di una prospettiva di lungo periodo che non contribuisce a soddisfare le stringenti esigenze finanziarie della società nel brevissimo periodo”, ha concluso Bernabè.