E’ scontro duro tra la famiglia Onorato e il gruppo di fondi sottoscrittori del suo bond da 300 milioni di euro, riuniti nell’Ad Hoc Group e prevalentemente hedge fund (tra cui Soundpoint Capital, Cheyenne Capital e York Capital, affiancati sul piano legale da DLA). I fondi avevano comprato tempo fa sul mercato secondario l’obbligazione oltre il 50% dell’emissione obbligazionaria quotata alla Borsa del Lussemburgo.
Lo scorso 29 febbraio è scaduto con un nulla di fatto lo standstill agreement che la compagnia armatoriale Moby aveva siglato l’11 febbraio scorso con un gruppo di fondi sottoscrittori del suo bond da 300 milioni di euro (si veda qui il comunicato stampa), per trovare una quadra su un possibile accordo di ristrutturazione del debito, senza che gli obbligazionisti mettessero in atto misure di rimborso forzato dei bond. La nota della società, infatti, precisava che proprio nell’ambito delle discussioni aperte per la ristrutturazione del debito, Moby non avrebbe pagato le cedole dovute sul bond a metà febbraio, fatto questo che tecnicamente è considerato un evento di default. Ma appunto, lo standstill agreement è scaduto senza che nel frattempo tra i fondi e la famiglia Onorato sia stata trovata un’intesa. Anzi.
Contemporaneamente la compagnia armatoriale aveva siglato un analogo standstill agreement con le banche finanziatrici su un pacchetto di linee di credito a medio termine e revolving per complessivi 260 milioni di euro, per discutere di una possibile ristrutturazione. Anche la moratoria con le banche è scaduta a fine febbraio.
Che un’intesa non sia stata trovata è scritto bello chiaro in una nota diffusa il 2 marzo da Moby, in cui si precisa che la famiglia ha detto no alle proposte dei fondi, non perché hanno chiesto alla famiglia di fare un passo indietro nella gestione del gruppo armatoriale, ma perché la proposta “non è compatibile con le leggi applicabili, con i contratti vigenti ed è eccessivamente penalizzante per i creditori non appartenenti all’Ad Hoc Group” (si veda qui il comunicato stampa). I fondi, peraltro, secondo quanto riferisce Il Sole 24 Ore, avrebbero anche chiesto di avere un ruolo di rilievo come soci di Moby, a valle della ristrutturazione del debito nell’ambito di un piano che preveda anche l’immissione di nuova finanza.
“La volontà del gruppo Onorato è soddisfare tutto il ceto creditorio e non singole posizioni, attraverso soluzioni legali che tutelino tutti gli stakeholder coinvolti”, ha scritto Moby nella sua nota e ricordando inoltre che il valore della flotta del gruppo, sulla base dell’ultima perizia e valutazione Unitramp, supera il miliardo di euro e che “se tali valutazioni saranno confermate, il piano di ristrutturazione potrà essere attuato esclusivamente sulla base della riprogrammazione del profilo di indebitamento attuale”. Se non fosse trovata un’intesa con i fondi, per Moby resterebbero due strade: la ricerca di un cavaliere bianco, che immetta nuova finanza; la richiesta di ammissione al concordato in bianco al tribunale.
I risultati consolidati dei primi 9 mesi del 2019 diffusi da Moby lo scorso 12 dicembre hanno evidenziato un ulteriore netto peggioramento della situazione della cassa (si veda altro articolo di BeBeez): in nove mesi, infatti, il gruppo armatoriale ha bruciato oltre 115,9 milioni di euro dopo i 108,1 milioni bruciati nei primi nove mesi del 2018, mentre tra gennaio e giugno era stata bruciata cassa per 83,1 milioni (si veda altro articolo di BeBeez). A fine settembre 2019, quindi, Moby aveva cassa per 56,2 milioni contro gli 89 milioni di euro di fine giugno e contro i 125,5 milioni di cassa che aveva a fine settembre 2018.
Proprio a seguito dei numeri della semestrale, i fondi obbligazionisti nel settembre 2019 avevano presentato al Tribunale di Milano un’istanza di fallimento nei confronti di Moby, lamentando un’insolvenza prospettica e futura, prevedibile nel febbraio 2020, quando Moby dovrà pagare la cedola sul bond da 300 milioni di euro, con ha scadenza 15 febbraio 2023 e cedola del 7,75%, negoziato alla Borsa del Lussemburgo (si veda altro articolo di BeBeez) e che è sceso a circa 33 centesimi. Il Tribunale di Milano, con un decreto depositato il 9 ottobre 2019, ha respinto l’istanza di fallimento presentata dai fondi, che sono stati anche condannati al pagamento delle spese giudiziarie (si veda altro articolo di BeBeez). Il Tribunale comunque aveva messo in guardia Moby, scrivendo che avrebbe necessità di monitoraggio e di ricorrere a strumenti di superamento di una crisi che in prospettiva ha caratteristiche importanti e che potrebbero divenire molto gravi.
Lo scorso 13 dicembre i fondi obbligazionisti hanno anche inviato una lettera in cui contestano all’azienda e all’azionista, la famiglia Onorato, alcune operazioni in violazione dei covenant sul debito. Gli obbligazionisti, assistiti da White & Case e dall’avvocato Francesco Gatti, contestano una serie di violazioni, tra cui: il pagamento dei canoni per il noleggio di alcune navi da parte di Moby alla società di famiglia, la Fratelli Onorato e l’acquisto da parte dell’azienda di un appartamento in piazza San Babila a Milano da Vincenzo Onorato per 7 milioni di euro. Moby ha bollato le accuse come “un altro inutile tentativo da parte di un piccolo gruppo di obbligazionisti di esercitare pressioni sulla società a seguito del già rigettato ricorso presso il tribunale di Milano” (si veda altro articolo di BeBeez).
Teoricamente un punto a favore di Moby è stato portato nei giorni scorsi dalla Commissione europea che ha finalmente stabilito che gli 846 milioni di euro pubblici versati alla compagnia Tirrenia (controllata al 100% dal gruppo Moby dal 2015) tra il 2009 e il 2020 non sono aiuti di Stato (si veda qui il comunicato stampa). Se così non fosse stato, la Commissione avrebbe potuto imporne il recupero. Ma proprio questo fatto si trasformerà in un problema per Moby, perché ora non avrà più scuse per non pagare i 180 milioni di euro che ancora deve allo Stato italiano. Si tratta del saldo dovuto per l’acquisizione del 60% di Tirrenia-Cin che ancora non era di Moby. La compagnia era stata valutata 376,9 milioni di euro di cui 197 milioni di componente fissa e il resto variabile. Dei 197 milioni, Moby aveva pagato 135 milioni al closing dell’operazione nel luglio 2012 mentre aveva saldato i restanti 62 milioni nel febbraio 2016 in occasione del rifinanziamento del debito (si veda altro articolo di BeBeez). I restanti 180 milioni dovevano essere pagati in tre rate, senza interessi, correlate a una serie di condizioni. La prima rata da 55 milioni andava pagata nell’aprile 2016, la seconda da 60 milioni entro l’aprile 2019 e la terza da 65 milioni nell’aprile 2021. Moby però non ha ancora mai pagato nulla, giustificandosi con il fatto che non è stato ancora reso noto l’esito dell’indagine da parte della Commissione Ue sui contributi pubblici dati alle società dell’ex Gruppo Tirrenia. Secondo una clausola del contratto di cessione di Tirrenia a CIN, il pagamento allo Stato dei 180 milioni residui si sarebbe effettuato solo dopo un pronunciamento definitivo di Bruxelles sul tema aiuti di Stato. Ora la decisione della Commissione Ue rende immediatamente esigibili le prime due rate per un totale quindi di 115 milioni.