Alla fine dello scorso giugno. sui libri delle banche italiane c’erano 198 milioni di euro lordi di sofferenze, 123 milioni di inadempienze probabili e 12 milioni di crediti scaduti, per un peso complessivo sul totale dei crediti lordi alla clientela pari al 17,9%, con tutte le poste in calo rispetto ai dati di fine dicembre 2015 (rispettivamente 201, 127 e 14 milioni) quando si era registrata un’incidenza sul totale dei crediti del 18,4%. Lo hanno calcolato Sda Bocconi e Duke&Kay, società di consulenza internazionale specializzata in turnaround aziendali, i cui partner sono manager professionisti delle ristrutturazioni,sui dati di Banca d’Italia, che hanno anche calcolato che il tasso medio di copertura delle sofferenze è stato del 58% a fine semestre dal 56% di fine dicembre, per un totale di sofferenze nette sceso a 84 miliardi di euro dagli 89 miliardi di fine 2015.
Un trend di calo, quello delle sofferenze nette, che non sembra essere continuato anche nel terzo trimestre dell’anno. Lo ha evidenziato MF Milano Finanza in edicola da sabato 3 dicembre analizzando le ultime trimestrali consolidate dei principali otto gruppi bancari italiani .
In 12 mesi, infatti, da fine settembre 2015 a fine settembre 2016, il gruppo Mps ha registrato una crescita dello stock di sofferenze nette di 1,43 miliardi, il che significa un aumento del 15% degli Npl al netto delle rettifiche per un valore a fine periodo di 10,9 miliardi di euro. Gli Npl netti di Veneto Banca in 12 mesi (a fine giugno, perché i dati a settembre non sono disponibili) sono aumentati del 9,8% e quelli di Popolare Vicenza (sempre a fine giugno) del 5,7%. Ma anche per gli altri gruppi si sono registrati leggeri aumenti.
La buona notizia è invece che lo stock delle indampienze probabili e quello dei crediti scaduti è in calo o poco variato per la maggior parte delle banche con il risultato che lo stock complessivo dei deteriorati ha registrato contrazioni significative, compreso il caso di Mps , che vede un calo del 7,6% nello stock dei deteriorati netti a quota 22,47 miliardi di euro, seppure con un rapporto ancora molto elevato rispetto al totale dei crediti netti alla clientela, pari al 21,5%. Peggio di Mps erano messe a giugno soltanto le due banche venete, con ratio del 22,2% Pop Vicenza e del 23,5% Veneto Banca.
Detto questo, resta vero che una buona percentuale delle inadempienze probabili si trasforma in sofferenza nel giro di un anno (il 22% nel 2015) e che una bella fetta di crediti scaduti si trasforma in inadempienze (il 50% nel 2015) o addirittura in sofferenze (l’11%), dicono sempre Duke& Kay e Sda Bocconi. Quindi è lì che le banche devono lavorare per evitare che si riformi il monte di Npl che si è trovata oggi.
Ma le banche devono lavorare sul mondo di mezzo tra crediti in bonis e soffernze non solo per evitare che gli Npl tornino a crescere, ma anche perché le norme di vigilanza bancaria internazionale che entreranno in vigore nei prossimi anni avrà l’effetto di rendere molto più pesanti sui bilanci degli istituti di credito le inadempienze probabili e i crediti scaduti, che a loro volta sono destinati ad aumentare di valore per colpa di semplici modifiche nelle definizioni.
Il passaggio dall’applicazione del principio contabile Ias 39 all’Ifrs9, previsto per il 2018, ma che impegnerà le banche in una doppia contabilità già dall’anno prossimo, imporrà agli istituti di credito accantonamenti basati sulle perdite attese e non più su quelle effettivamente registrate. In pratica, mentre oggi le perdite si devono rilevare solo al verificarsi di specifici eventi, domani le banche saranno chiamate ad anticipare la rilevazione delle perdite ai primi segnali di deterioramento (si veda MF Milano Finanza).
Da qui il potenziale impatto per il settore. Uno studio congiunto Experian-Cerved , anticipato lo scorso luglio da MF -Milano Finanza, calcolava che circa il 16% dei prestiti alle imprese e circa il 6% di quelli ai privati oggi in bonis sono da considerare “underperforming”», secondo la nuova classificazione Ifrs9. E gli effetti sugli accantonamenti sono significativi, potrebbero raddoppiare sulle esposizioni in bonis a medio-lungo termine.
Ma non basta. A fine settembre l’European Banking Association ha pubblicato le nuove linee guida che armonizzano la definizione di default, classificando questa situazione ogni volta che un’azienda abbia superato i 90 giorni dalla scadenza, senza rimborsare il suo debito. Sinora, invece, nella prassi delle banche italiane molto spesso un’azienda cliente veniva classificata in default solo dopo che il suo debito nei confronti della banca fosse scaduto da oltre 180 giorni, a volte anche 270. Ora invece i margini di manovra saranno risicatissimi e il risultato sarà un aumento dei default (si veda MF Milano Finanza).
“E’ un fatto noto che oltre il 70% dei crediti deteriorati lordi sui portafogli delle banche sia costituito da crediti nei confronti delle imprese”, ha detto a MF Milano Finanza Maurizio Ria, managing partner di Duke&Kay Italia, che ha aggiunto: “Una banca dovrebbe quindi chiedersi quali tra quelle aziende siano ancora recuperabili, tenuto conto anche del fatto che un’azienda che chiude ha un impatto pesante in termini di occupazione e di ricchezza del territorio”.
Così, invece di cedere in maniera indiscriminata portafogli di crediti verso pmi a fondi specializzati in Npl con un approccio tipicamene liquidatorio, la banca può trovare più conveniente trattare con operatori specializzati in ristrutturazioni aziendali, il cui scopo è quello di acquistare il credito bancario e convertirlo in capitale per acquisire il controllo della azienda in questione, così da cambiarne la guida e procedere verso salvataggio e rilancio e, in ultima battuta, la vendita e il guadagno. Un processo, però, ha detto ancora Ria, “che arriva al risultato sperato soltanto se si pone attenzione anche alla ristrutturazione industriale, un compito questo che invece spesso in Italia è lasciato in mano allo stesso management che ha condotto l’azienda alla crisi. Invece l’approccio giusto è quello di nominare un chief restructuring officer che venga dall’esterno e che sia un manager di lunga esperienza industriale”. Poi, certo, la ristrutturazione finanziaria ci deve essere, ma se c’è solo quella poi non si va da nessuna parte.
Ria ha spiegato che “una ricerca effettuata dal PE Lab della Sda Bocconi, Banca d’Italia, Cerved e Duke&Kay ha rilevato che le inadempienze probabili (compresi gli accordi di ristrutturazione dei debiti e gli ex incagli) hanno generato svalutazioni nell’intorno del 25% del valore facciale del credito sui bilanci delle banche, mentre le svalutazioni relative alle situazioni di sofferenza (concordati in continuità o liquidatori) risultano attorno al 60%. Le banche tendono quindi a cedere i crediti a valori prossimi al saldo netto loro disponibile (il 70-75% per le inadempienze probabili e il 40-45% per le sofferenze) per non incorrere in ulteriori perdite nei propri bilanci”, per contro, “da parte dei fondi, le attese di ritorno medio sull’investimento per remunerare il rischio è del 15%-25% all’anno”.
Ma non è detto che la banca debba cedere tutto il credito relativo alla aziende in questione. Anzi. la banca potrebbe decidere di congelare il credito per qualche anno e aspettare che, grazie all’iniezione di nuove risorse e al rilancio industriale operato dai fondi, due o tre anni dopo quel credito possa essere completamente ripagato e quindi, paradossalmente, registrare un guadagno a bilancio, perché quel credito sarà stato preventivamente svalutato per la gran parte.