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Home Crisi & Rilanci Npl e altri crediti deteriorati

Visco (Bankitalia), bene la riduzione dei crediti deteriorati, ma ora focus su UTP e fintech

Valentina MagribyValentina Magri
3 Giugno 2019
in Fintech, Npl e altri crediti deteriorati, Private Debt, Venture Capital
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npl
Bene il calo dei crediti deteriorati, in particolare delle sofferenze, ma le banche italiane devono lavorare sui crediti verso le imprese in difficoltà. Nel contempo devono aprirsi molto di più all’utilizzo della tecnologia, perché sul fintech sono in estremo ritardo. Quanto alla finanza non bancaria, è ancora troppo poco sviluppata. Lo ha detto lo scorso 31 maggio il governatore di Bankitalia Ignazio Visco nelle sue considerazioni finali  ed è spiegato approfonditamente nella Relazione annuale sul 2018 della Banca d’Italia.
“I progressi sul fronte della qualità del credito bancario continuano. Grazie anche al miglioramento della congiuntura, negli ultimi anni il tasso di deterioramento dei finanziamenti è sceso su valori inferiori a quelli osservati prima della crisi; nel primo trimestre di quest’anno è stato pari all’1,3 per cento. La consistenza delle esposizioni deteriorate si è ridotta in modo considerevole soprattutto a seguito di importanti operazioni di cessione; in complesso queste hanno riguardato 26 miliardi di prestiti deteriorati nel 2016, 42 nel 2017 e 55 nel 2018”, ha detto Visco. In particoalre, nel corso del 2018 i crediti deteriorati si sono ridotti in misura marcata, sia al lordo sia al netto delle rettifiche di valore. Alla fine del 2018 le consistenze nette erano pari a 90 miliardi, circa 40 miliardi in meno rispetto al 2017 e la loro incidenza sul totale dei crediti è diminuita dal 6,1 al 4,3% . Le sofferenze nette, infine, erano scese a 35 miliardi e costituivano l’1,7% del totale del credito bancario.
Tuttavia, ha sottolineato Visco, “con il calo delle sofferenze conseguito negli ultimi anni, oltre la metà dei prestiti deteriorati netti delle banche è oggi costituita da esposizioni verso imprese in situazione di temporanea difficoltà (le cosiddette inadempienze probabili). È importante agire per favorirne il più possibile il rientro in bonis; come avviene in altri paesi, il ricorso a operatori specializzati, quali i fondi di turnaround, può fornire, eventualmente in associazione con le stesse banche, risorse e conoscenze funzionali al rilancio delle aziende in difficoltà. Andrà verificato il contributo che la riforma della disciplina delle crisi di impresa potrà apportare all’efficacia dei processi di ristrutturazione aziendale (si veda altro articolo di BeBeez, ndr) “.
Resta però vero che “per le banche popolari classificate come meno significative a fini di vigilanza lo scorso anno il rapporto tra costi e ricavi è stato superiore alla media di sistema, il rendimento del capitale inferiore, la consistenza di crediti deteriorati ancora elevata”, ha detto Visco. E infatti, l’incidenza dei crediti deteriorati delle banche meno significative italiane (Less Significant Institutions, LSI) sul totale dei finanziamenti, pari al 6,4% al netto delle rettifiche di valore, rimane superiore a quella del resto del sistema. Le LSI con un’elevata quota di crediti deteriorati hanno pianificato per il prossimo triennio una loro riduzione del 25 % e un calo di oltre due punti percentuali della loro incidenza sul complesso dei finanziamenti, si legge nella Relazione di Banca d’Italia, che sottolinea anche che a livello dell’intero sistema si segnala una riduzione dei tempi di recupero delle posizioni in sofferenza, tornati nel 2016 ai livelli del 2006. Al calo potrebbero aver contribuito una gestione più attiva dei crediti deteriorati e le misure per incrementare l’efficienza dei tribunali.
Sul fronte del private capital, Visco ha ammesso che “è stato promosso il ricorso al capitale di rischio; sono state incentivate le emissioni di obbligazioni da parte di società non quotate; altre agevolazioni hanno sostenuto gli investimenti in quote di fondi di venture capital e in titoli di imprese innovative. L’introduzione nel 2016 dei piani individuali di risparmio (PIR) ha favorito gli investimenti in titoli di società italiane da parte delle famiglie”. Tuttavia, ha sottolineato il governatore, “è però ancora ampio il divario rispetto ai paesi in cui i mercati dei capitali sono più sviluppati. In Francia e nel Regno Unito il rapporto tra la capitalizzazione di borsa delle società non finanziarie e il Pil è oltre tre volte quello che si osserva in Italia e la quota delle obbligazioni sul complesso dei debiti finanziari delle imprese è quasi doppia. È necessario continuare a promuovere lo sviluppo della finanza non bancaria valutando l’efficacia delle iniziative già introdotte, razionalizzando gli interventi, favorendo la stabilità del quadro normativo”.
Su quest’ultimo tema Visco si è soffermato: “Modifiche frequenti, come nel caso delle ripetute revisioni degli incentivi alla capitalizzazione delle imprese e della riforma dei PIR contenuta nell’ultima legge di bilancio, possono accrescere l’incertezza, con effetti negativi sulle scelte di allocazione del risparmio e di finanziamento delle aziende”.
D’altra parte, ha concluso il governatore “se per le imprese più grandi, in grado di aprirsi al vaglio di soggetti esterni e di sostenere i costi di accesso al mercato dei capitali, la finanza non bancaria è destinata a diventare un riferimento importante, per una grande parte del sistema produttivo le banche rimarranno la principale fonte esterna di risorse. Imprese sane devono potere trovare sostegno, dalle banche o dai mercati, qualunque sia la loro dimensione. Le politiche di gestione degli affidamenti verso microimprese e piccole aziende richiedono attenzione nella selezione e nella misurazione dei rischi; potranno beneficiare dell’innovazione tecnologica, nell’interesse tanto delle aziende che incontrano difficoltà nell’accesso al credito quanto degli stessi intermediari”.
E qui si arriva appunto all’innovazione tecnologica. Che è un tema che riguarda sia le banche sia le aziende. Sul fronte della capacità di innovazione delle aziende, Visco ha sottolineato che “l’Italia ha risposto con ritardo alla rivoluzione tecnologica; ne ha risentito marcatamente la crescita economica. Ai settori che compongono l’economia digitale è oggi riconducibile il 5 per cento del totale del valore aggiunto, contro circa l’8 in Germania e una media del 6,6 nell’Unione europea. Dall’avvio della crisi dei debiti sovrani il peso di questi settori da noi si è ridotto, in controtendenza rispetto alla media europea. Ma per la stessa sostenibilità dello sviluppo economico e sociale, e per non compromettere gli equilibri ambientali, non si può fare a meno di investire in tecnologie avanzate ed ecocompatibili (…) A rallentare la diffusione dell’economia digitale ha contribuito una struttura produttiva frammentata, in grande parte composta da aziende piccole, con un alto grado di sovrapposizione tra proprietà e gestione, poco aperte a innesti esterni di capitale, tecnologia e professionalità. Nel 2017 meno di un quinto delle imprese con un numero di addetti compreso tra 20 e 49 aveva adottato almeno una tecnologia avanzata (come le applicazioni della robotica e dell’intelligenza artificiale); la quota sale a un terzo tra le imprese medie e supera la metà per quelle con 250 addetti o più. Il divario tra imprese piccole e grandi si amplia al crescere del grado di complessità delle tecnologie considerate. La frammentazione della struttura produttiva si riflette negativamente sulla capacità innovativa delle imprese: la spesa per ricerca e sviluppo del settore privato era pari nel 2017 allo 0,8 per cento del Pil, meno della metà di quella media dei paesi dell’Ocse. È bassa anche quella pubblica (0,5 contro 0,7 per cento). L’incidenza sul Pil delle risorse dedicate al sistema universitario, poco meno dell’1 per cento, è di circa un terzo inferiore alla media dell’Ocse”.
Schermata 2019-06-02 alle 21.52.43Sul fronte del fintech, ha detto Visco, “stime di mercato indicano che gli investimenti in innovazione finanziaria, per la maggior parte riconducibili alle aziende tecnologiche di grandi dimensioni e alle startup, sono aumentati a livello globale di sei volte negli ultimi cinque anni; hanno superato i 100 miliardi di dollari nel 2018, un terzo dei quali in Europa, ma da noi restano ancora limitati. Le banche italiane stanno ampliando l’offerta online dei servizi tradizionali, con l’obiettivo di accrescere l’efficienza degli assetti organizzativi e gestionali; quasi tutte permettono di effettuare pagamenti, in molti casi anche di piccola entità, attraverso dispositivi mobili; oltre la metà colloca prodotti di risparmio attraverso canali digitali; è ancora contenuto, pur se in crescita, il numero degli intermediari che offrono finanziamenti attraverso portali”.  Tuttavia, ha aggiunto il governatore, “il ritardo nella risposta alle sfide poste dall’utilizzo delle tecnologie più complesse rischia però di determinare una progressiva erosione delle quote di mercato. Secondo le nostre indagini la metà delle banche non ha ancora avviato, né sta pianificando, sperimentazioni in questo campo, ad esempio nell’impiego di nuovi strumenti per la valutazione del merito di credito. Le risorse dedicate a questi progetti sono relativamente contenute e concentrate presso gli intermediari più grandi. L’uso della tecnologia per offrire servizi personalizzati e con maggiore valore aggiunto può produrre benefici tangibili in termini di riduzione dei costi, ampliamento dell’offerta, miglioramento della redditività”.

Tags: Banca d'ItaliabancheBankitaliadigitalizzazioneFintechignazio ViscoItalianplventure capital

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