Già nel 2019 il 71% dei rappresentanti di 250 operatori di private equity europei, intervistati in un sondaggio condotto a fine 2019 da Acuris Studios per PwC, diffuso nei giorni scorsi, aveva segnalato che il 10% o più delle aziende nei loro portafogli avevano rotto uno o più covenant finanziari sul debito, contro soltanto il 51% degli intervistati nel 2018. Non solo. Tutti i portafogli degli intervistati hanno dovuto registrare almeno una società che ha rotto almeno un covenant.
Una situazione che è andata di pari passo con il rallentamento della crescita economica globale, ma che funge da monito per quanto potrà accadere quest’anno, con la frenata dovuta allo shutdown da coronavirus. E questo ovviamente perché qualunque calo di fatturato porta a una riduzione di ebitda e quindi in un peggioramento in rapporti come quello PFN/ebitda e oneri per il servizio del debito/ebitda. E il debito corporate di tipo bond high yield e leveraged loan, a supporto di operazioni di leveraged buyout, è ormai in una mole enorme e appunto sempre più a rischio (si veda altro articolo di BeBeez).
Nonostante l’alto numero di breach di covenant, gli intervistati del sondaggio di PwC erano si erano detti per la maggior parte (62%) soddisfatti dallo sviluppo delle società in portafoglio nel 2019. Una risposta che avevano dato anche gli intervistati dell’ultimo sondaggio condotto da Preqin su un campione di 347 investitori istituzionali a livello globale lo scorso novembre 2019 e diffuso a inizio marzo. Quegli investitori, infatti, avevano risposto, in una percentuale minima del 71% per ciascuna asset class, che i rendimenti del 2019 li avevano soddisfatti. E in una percentuale minima del 77% per ciascuna asset class avevano detto che avrebbero mantenuto o aumentato la loro esposizione nel 2020 rispetto al 2019 e che addirittura nel lungo termine un minimo dell’81% manterrà o incrementerà la sua esposizione per cogliere le opportunità offerte ora sul mercato da valutazioni molto più basse di prima per le aziende target.
In quest’ottica, andrà capito che cosa faranno i fondi quest’anno a livello di nuovi investimenti. Di certo in primo luogo staranno in trincea per supportare le aziende in portafoglio, forti ancora di una grande quantità di liquidità (si veda altro articolo di BeBeez).
Già in occasione del sondaggio periodico di S&P Global Market Intelligence tra 582 rappresentanti di operatori di private equity e venture capital del mondo, condotto a fine 2019 ma pubblicato lo scorso 12 marzo, era emerso che il 44% degli intervistati riteneva che nel 2020 ci sarebbero state prospettive migliori per il settore rispetto al 2019, ma c’era anche un 20% di intervistati che riteneva che le prospettive sarebbero state meno positive e questo come conseguenza soprattutto delle tensioni tra Stati Uniti e Cina e di una crescita economica meno solida. In ogni caso, però, il 52% degli intervistati aveva detto di avere intenzione di condurre nuovi investimenti, in particolare nei settori dell’Information Technology (IT) (54% degli intervistati) ed Healthcare (48%). Per contro, il 22% aveva detto che si sarebbe invece concentrato sulla gestione delle attività in portafoglio. Sul fronte delle dismissioni, solo il 9% degli intervistati ha detto di aver intenzione di vendere attività in portafoglio nel 2020.
Ora, è ragionevole pensare che la maggior parte dei fondi, se il sondaggio fosse condotto in questi giorni, risponderebbe che la priorità è supportare le aziende in portafoglio. Ma appunto la grande liquidità a disposizione, in seconda battuta, potrà mettere in condizione quegli stessi fondi di cogliere le opportunità più interessanti a livello di m&a. E certo, in posizione privilegiata ci potranno essere i fondi dedicati a turnaround e special situation.
Quanto ai rendimenti, la maggior parte degli investitori istituzionali in asset alternativi intervistati da Preqin si aspettava a fine 2019 rendimenti netti compresi tra l’8 e il 13% dai fondi, indipendentemente dal fatto che si tratti di fondi di private equity, private debt, hedge fund, real estate, infrastrutture o risorse naturali. Il sondaggio mostrava anche che un buon 32% degli intervistati puntava a rendimenti del 14-19% per i fondi di private equity e un 8% che puntava al 20% o più. Ora forse quei rendimenti target dovranno essere rimodulati verso il basso, perché difficilmente quest’anno si potranno condurre exit e quindi, aumentando l’holding period, si ridurrà l’Irr. Inoltre le banche saranno meno disposte a offrire leva per le acquisizioni e quindi i fondi dovranno investire una quota di equity maggiore di prima. Detto, questo, è vero che, come già detto, i multipli di valutazione in entrata saranno più bassi e che al posto delle banche i fondi di private debt saranno pronti a finanziare. Quindi è possibile che queste le forze contrapposte si vadano a controbilanciare, con il risultato che le performance alla fine non subiranno importanti ridimensionamenti.