Se un’azienda è in difficoltà finanziaria, la ristrutturazione del debito deve essere coerente con un nuovo piano industriale. E il piano deve essere non solo credibile, ma anche conservativo. Altrimenti dopo pochi mesi ci si può ritrovare di nuovo a dover affrontare un’emergenza, che in genere è peggiore della precedente.
“Negli ultimi 5 anni abbiamo visto una serie di queste situazioni che si sono avvitate in una spirale di crisi sempre più grave”, conferma a BeBeez Adriano Bianchi*, managing partner di Alvarez&Marsal, gruppo internazionale specializzato nel “turn around management” ovvero in ristrutturazione di aziende in difficoltà. Continua Bianchi: “Ci sono due punti sui quali ragionare bene, quando si deve risanare un’azienda. Il primo e fondamentale riguarda il business sottostante, dove l’attenzione principale deve essere focalizzata sugli aspetti industriali senza preoccuparsi, almeno in prima istanza, degli aspetti puramente finanziari. Bisogna cioé valutare in primis se le attività condotte sino a quel momento dall’azienda hanno ancora ragione di continuare, perché sufficientemente competitive, redditizie e quindi con un possibile futuro sostenibile, idealmente, ma non necessariamente, anche con un trend di potenziale crescita. Se infatti la attività non risponde a questi requisiti, è meglio prenderne atto e decidere per soluzioni alternative”.
Dopodiché, aggiunge Bianchi, “si devono fare delle previsioni relative a fatturato e redditività per i prossimi anni (diciamo con un orizzonte minimo di tre anni) e queste previsioni devono essere prudenti, data l’attuale incertezza non solo a livello di azienda o di settore, ma anche a livello macroeconomico e politico in Italia e nel mondo. Sulla base del piano industriale vanno poi predisposte le necessarie modifiche della struttura finanziaria dell’azienda in crisi, struttura che deve essere coerente con i flussi finanziari che l’azienda può effettivamente generare. Sembra un avvertimento scontato, ma purtroppo molte aziende passate per una prima ristrutturazione all’acqua di rose negli anni passati hanno imparato a loro spese che invece si tratta di una considerazione cruciale da fare”.
Già, perché la stragrande maggioranza dei piani industriali stilati nel 2010 (per non parlare dei ruggenti anni 2006 e 2007) , per esempio, ipotizzavano una ripresa delle economie occidentali nel 2011 e ancora di più nel 2012, mentre invece abbiamo visto che le cose sono andate esattamente nel senso opposto, con buona pace delle previsioni alla base di quei piani industriali e dei piani finanziari ad essi correlati. Così spiega ancora Bianchi: “Quando io o i miei colleghi veniamo chiamati in azienda per affiancare, supportare o, più raramente sostituire temporaneamente i vertici aziendali, che spesso in Italia sono anche gli imprenditori, per accompagnare l’azienda nel periodo di ristrutturazione, ci troviamo di solito di fronte a piani industriali concepiti per un’operazione di m&a, di ipo e non di ristrutturazione. Mi spiego meglio. Se l’obiettivo è vendere un’azienda o trovare un nuovo socio per quell’azienda, nel momento in cui si stila un piano da sottoporre al potenziale acquirente si tende ragionevolmente a essere ottimista e a ipotizzare un certo trend di crescita del fatturato e della redditività della propria impresa. Si tratterà sempre di numeri credibili, sulla base di certe ipotesi di andamento futuro del settore e dell’economia in generale, ma comunque l’impostazione resta ottimista, per poter ottenere il massimo della valutazione per l’azienda oggetto dell’operazione. Ma quando si deve stilare un nuovo piano industriale per un’azienda che è in difficoltà finanziaria, quel piano industriale non deve né può essere ottimista, ma deve essere quanto più conservativo possibile, in modo da poter continuare a garantire un flusso di cassa sufficiente per pagare gli interessi sul debito e le rate dei finanziamenti, secondo quanto stabilito da un nuovo accordo con le banche anche nei casi in cui le cose non vadano “al meglio”. Perché se per qualche motivo il flusso di cassa non dovesse essere quello atteso, scatta di nuovo l’emergenza”.
Di esempi di crisi di ritorno, si diceva, negli ultimi anni ce ne sono parecchi. Con aziende che in un primo tempo hanno trovato un accordo con le banche senza passare dal Tribunale, ma soltanto sulla base di un’intesa e di un piano asseverato come prescritto dall’art. 67 della Legge Fallimentare. E con le stesse aziende che dopo poco tempo si sono ritrovate a dover passare, invece, da una procedura di ristrutturazione dei debiti omologata dal Tribunale, così come previsto dell’art- 182-bis della L.F. E altre ancora che sono arrivate addirittura al concordato preventivo o che ci stanno arrivando in questi mesi, cogliendo l’opportunità del pre-concordato, offerta dalla nuova normativa introdotta dal Decreto Sviluppo lo scorso giugno (art. 161 L.F. 6° comma). Alcuni esempi più riguardano ovviamente Seat Pagine Gialle e prima Ferretti, ma anche società più piccole quali Bimo Irplast, Dimafin, Mosaicon, Pramac o Miss Sixty.
A&M è stata coinvolta in alcuni di questi casi (oltre che in altri) e il comun denominatore di questi progetti è stato quello di un scontro, spesso acceso tra una previsione conservativa e una previsione ottimistica, fortemente voluta dal manager/imprenditore e spesso supportata dai creditori che, davanti a un’opzione meno cruenta, hanno optato per quanto permetteva loro di minimizzare “apparentemente” gli effetti. Qui di seguito il racconto di Bianchi a proposito di tre casi aziendali in cui A&M è stata coinvolta.
Bimo Irplast: “A&M è stata chiamata al capezzale della società produttrice di materiale per imballi basata a Empoli con il compito di implementare un piano studiato da altri e asseverato ex art. 67. Dopo poche settimane dall’inizio del mandato, A&M su richiesta dei creditori, aveva assunto il compito di Chief Restructuring Officer (CRO). Ci siamo presentati all’advisor finanziario, all’asseveratore e alla proprietà indicando come a nostro avviso, il piano fosse estremamente ottimistico e suggerendo un immediato ritorno dai creditori per richiedere una più profonda ristrutturazione del debito, in assenza della quale il rischio di uno shortfall di cassa era dietro l’angolo. Fummo presi per pessimisti impenitenti e ci fu detto che la nostra idea era assolutamente improponibile, avendo la società chiuso la ristrutturazione del debito solo poche settimane prima. La differenza di visione era talmente importante che nel giro di poche settimane fu chiaro che sarebbe stato impossibile condividere un piano e trovammo l’accordo con l’imprenditore per chiudere la nostra breve esperienza”.
Dimafin: “La società di sviluppo immobiliare basata a Lamezia (Roma) ci chiamò per una verifica del piano industriale predisposto dal management e validato da un’importante società di consulenza, oltre che per una gestione controllata della nuova finanza richiesta dalle banche che, su richiesta dell’imprenditore, si erano dichiarate disponibili a fornire la finanza ponte necessaria a raggiungere il traguardo di una ristrutturazione ex. art 67. Anche in questo caso dopo pochi giorni ci presentammo all’imprenditore e ai suoi consulenti per indicare come a nostro avviso le necessità di finanza ponte fossero ben maggiori di quanto indicato nel piano e, soprattutto, come il piano fosse ampiamente ottimistico nelle sue ipotesi di valorizzazione degli immobili in via di sviluppo. La tensione con l’imprenditore andò aumentando di giorno in giorno fino al momento in cui, nella notte precedente alla chiusura dell’accordo di ristrutturazione, non ricevemmo nessuna comunicazione al riguardo, nonostante il fatto che il nostro mandato prevedesse l’assunzione del ruolo di interim CFO, e invece qualche giorno dopo ricevemmo una lettera di disdetta del mandato. La fine della società è ahimè nota, con un successivo secondo giro di ristrutturazione, successiva liquidazione a cui si è aggiunta un accusa di bancarotta fraudolenta per l’imprenditore che ci cacciò in malo modo”.
Miss Sixty: “In questo caso fummo chiamati dalla società produttrice del noto marchio di abbigliamento per teenager per un supporto al management per la predisposizione di un piano industriale ai fini di una procedura ex. art. 67. Dopo le improvvise dimissioni del CFO, fummo anche incaricati di assumere il ruolo ad interim anche per gestire la situazione di tensione finanziaria che si era venuta a creare con i fornitori. Lavorammo con i due advisor finanziari che si succeddettero al tavolo e, al momento della presentazione del nostro lavoro alle banche chiarimmo, in modo credo inequivocabile, che il piano che il management (e gli azionsiti) avevano prescelto e che noi avevamo contribuito a formare, era un piano basato su una ripresa dei volumi di vendita, ma che, ove ciò non fosse accaduto, la società si sarebbe trovata in gravi difficoltà senza un concreto piano di back-up basato su significativi tagli di costi e revisione della piattaforma distributiva. Anche in questo caso lo scontro con il management e l’imprenditore fu aspro e, al momento di scegliere la squadra che avrebbe dovuto perseguire gli obiettivi del piano, il nostro rapporto si interruppe. Un anno dopo la società, a fronte di un mercato che non si riprese, fu costretta a un secondo giro di ristrutturazione a cui poi ha fatto seguito un concordato”.
Che lezione si può trarre da queste vicende, come da molte altre analoghe? Una certa dose di pessimismo è fondamentale nei processi ristrutturativi: se le cose dovessero andare meglio del previsto, tutti saranno felici, mentre, se le cose dovessero andare peggio, la medicina sarebbe molto amara per tutti. Il pessimismo non va normalmente d’accordo con “l’intraprendere”. Per essere imprenditori di successo è necessario essere ottimisti e tale ottimismo può, come abbiamo visto, essere fatale in un processo ristrutturativo. Da ultimo, ma non certamente da sottovalutare, l’aspetto dell’implementazione è fondamentale. Permettere che il piano sia redatto da chi non dovrà poi eseguirlo comporta un elevato rischio per gli stakeholders, soprattutto in situazioni di crisi già avanzata. “L’associazione tra chi scrive il piano e chi poi dovrà metterlo in pratica è una notevole polizza di assicurazione”, dice Bianchi, “che ho appreso nei miei primi anni di lavoro in Techint quando, di fronte alla proposta di qualsiasi progetto di acquisizione, la prima domanda che il chairman Roberto Rocca poneva era ‘ma chi ci va a lavorare se la compriamo?’. Ebbene una volta identificato il candidato, questi era anche colui a cui veniva assegnato il compito di fare il piano industriale e di procedere alla due diligence in modo da assicurare la piena “accountability” ed evitare che alcuno potesse dire che la responsabilità era di qualche altro. Sinceramente non ho ricordi particolari di acquisizioni da parte del gruppo Techint finite male”.
*Adriano Bianchi è Managing Partner di Alvarez & Marsal, ha un bagaglio di oltre 30 anni di esperienza manageriale come Amministratore Delegato, Direttore Generale, Chief Financial Officer, Direttore Finanza e consigliere di amministrazione di multinazionali industriali, istituti finanziari e società di servizi. Dal 2007 è il responsabile per l’Italia di Alvarez & Marsal (A&M), società leader mondiale nel campo dei servizi di ristrutturazione e turnaround management. Nell’ambito dell’attività svolta in A&M, ha prestato i suoi servizi come sia come che come Chief Restructuring Officer di svariate società in Italia ed all’estero. Prima di entrare a far parte di A&M, Adriano Bianchi è stato Amministratore Delegato di Impregilo International NV (Olanda) ove ha attivamente contribuito alla ristrutturazione del gruppo Impregilo, Amministratore Delegato di Mirant Italia nonchè membro del comitato esecutivo e del Consiglio di amministrazione di Mirant Europe (Olanda), holding europea dell’omonimo gruppo americano attivo nel settore energetico, Direttore Generale e Chief Financial Officer di Techint Finanziaria a Milano, holding del Gruppo Techint, Direttore Finanziario di Techint International Construction Corp. a Buenos Aires. Ha inoltre ricoperto anche la carica di Direttore Esecutivo di WestMerchant Bank a Londra, dove è stato responsabile del dipartimento di Corporate e Project Finance per l’ America latina.